Marcello II
Marcello Cervini nacque il 6 maggio 1501 a Montefano (Macerata) da Ricciardo, appaltatore delle imposte nella Marca d'Ancona, e da Cassandra Benci.
Trascorse i primi anni fra Montepulciano (dove i Cervini erano insediati almeno fin dal XIII secolo) e i vasti poderi familiari presso Castiglione d'Orcia. Il padre si incaricò della sua istruzione: gli insegnò grammatica, retorica, rudimenti di filosofia, astronomia e, "per dargli ogni perfettione" (A. Cervini, Vita di Marcello II, ms. cit. in W.V. Hudon, p. 183 n. 13), lo avviò ad "arti meccaniche" quali l'architettura, l'agronomia, la lavorazione del ferro e la legatura di libri. Intorno al 1520 Cervini venne inviato a Siena per continuare gli studi, affidato alla protezione del cardinale Giovanni Piccolomini e della facoltosa famiglia Spannocchi, il patrimonio della quale il padre aveva a lungo amministrato. Si concentrò sullo studio del greco, sulla matematica, sull'astronomia. In questo torno di anni Cervini si impegnava anche nella conduzione della tenuta familiare di Castiglione d'Orcia, sebbene presto apparisse destinato ad intraprendere la carriera ecclesiastica. Il padre, infatti, che aveva frequentato la cerchia di Lorenzo de' Medici ed era entrato, fra Quattro e Cinquecento, nella Curia pontificia come scrittore delle lettere apostoliche, secondo una pratica molto diffusa tra i ceti più elevati nell'Italia della prima Età moderna, confidava in Marcello, dotato di una robusta cultura umanistica e di una autentica sensibilità religiosa, affinché, al servizio del pontefice, completasse la strategia familiare di ascesa sociale.
Nel 1524 Cervini fu inviato a Roma per presentarsi e porgere gli omaggi della famiglia a Clemente VII (Giulio de' Medici, eletto da pochi mesi). In questa occasione ebbe modo di mettersi in luce: circolava, infatti, la previsione di un nuovo diluvio, della quale, sulla base di calcoli elaborati dal padre, riuscì a dimostrare l'infondatezza. Clemente VII, che era parso piuttosto turbato dal pronostico, ne fu favorevolmente colpito e gli affidò il compito di introdurre correzioni al calendario giuliano, che Cervini presentò dopo breve tempo. Il papa ne fu soddisfatto al punto da prospettargli uno stabile impiego, ma la comparsa della peste a Roma indusse il padre a richiamarlo a casa nel maggio del 1525. In seguito, le ripetute pestilenze del 1525-1526 e i drammatici avvenimenti del 1527 prolungarono il suo ritiro: così, trascorse gli anni seguenti fra Roma, Montepulciano e i poderi di Castiglione d'Orcia. Solo dopo la morte del padre, nel 1534, regolate le sorti del patrimonio familiare, si stabilì definitivamente alla Corte pontificia. Alla morte di Clemente VII era stato eletto Paolo III, conosciuto dal padre Ricciardo dall'ultimo scorcio del Quattrocento e dallo stesso Marcello sin dai primi soggiorni romani. Quest'ultimo ebbe l'incarico di segretario del nipote Alessandro Farnese (creato cardinale) e ricevette alloggio nei Palazzi Apostolici.
La Roma degli anni Trenta del Cinquecento era un ambiente culturale molto stimolante: Cervini prese contatti con Angelo Colocci, Bernardino Maffei, Carlo Gualteruzzi, Giovanni della Casa, Annibal Caro, Francesco Molza, Sebastiano Delio ed entrò in corrispondenza con Benedetto Varchi, Piero Vettori, Pietro Bembo. Dimostratosi presto "un valente giovane" (A. Caro a B. Varchi, Roma, 10 dicembre 1534, in A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, Firenze 1957, p. 24), Cervini seppe conquistare molto velocemente credito presso Paolo III: così, quando, alla fine del 1537, il giovane Alessandro Farnese passò a dirigere la Segreteria pontificia, non sfuggì ai più acuti osservatori che, in effetti, era Cervini ad essere chiamato "al maneggio delle cose di S. S.tà, e al servigio di tutta la Romana corte" (P. Bembo a Cervini, Venezia, 19 gennaio 1538, in P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, IV, Bologna 1993, p. 99). Nel contempo progrediva nella carriera curiale: ordinato sacerdote (nel 1535), tra il 1536 e il 1538 fu nominato scrittore delle lettere apostoliche, segretario delle lettere latine e protonotario apostolico "de numero partecipantium".
Esordì quindi nell'attività politico-diplomatica, contribuendo agli sforzi della Corte pontificia per porre fine al conflitto fra Carlo V e Francesco I: fu a Nizza nel seguito di Paolo III, che nel giugno 1538 promuoveva una tregua; accompagnò in Spagna (nel maggio-giugno 1539) il cardinale A. Farnese, che doveva sottoporre all'imperatore l'ipotesi di un matrimonio Asburgo-Valois a garanzia dell'accordo raggiunto; e lo seguì anche nel novembre 1539, quando il giovane cardinal nipote fu incaricato di assistere agli incontri fra l'imperatore (in viaggio dalla Spagna verso i Paesi Bassi) e il re di Francia. Obiettivo della diplomazia pontificia era il consolidamento della pace, condizione vitale per indire il concilio ecumenico, resosi urgente a causa dei ripetuti tentativi di Carlo V di realizzare autonomamente, in Germania, un compromesso con i protestanti sulle materie religiose. Lasciata Roma alla fine di novembre 1539, il cardinale A. Farnese e Cervini (creato cardinale il 19 dicembre 1539), incontrarono più volte i sovrani in Francia e nei Paesi Bassi (all'inizio del 1540): tuttavia, i colloqui si rivelarono piuttosto formali e non furono superate né la tendenza di Francesco I ad appoggiare i nemici dell'imperatore (Turchi e principi riformati), né la propensione di quest'ultimo verso una conciliazione confessionale, che rafforzasse il consenso agli Asburgo. Non fu possibile nemmeno evitare che Carlo V convocasse per il 23 maggio 1540 un'assemblea dei principi cattolici a Spira, in previsione di un colloquio fra protestanti e cattolici e di una Dieta generale, in cui cercare un'intesa. Cervini poté solo, insieme con il Farnese, indirizzare un Consilium all'imperatore che ribadiva la necessità di un concilio generale, avversando le ipotesi di accordo. Paolo III reagì richiamando il cardinal nipote; quindi, mentre era già in viaggio verso l'Italia, creò Cervini legato "de latere" presso l'imperatore, Ferdinando d'Asburgo (re dei Romani), e la futura Dieta. Cervini arrivò nei Paesi Bassi all'inizio di giugno 1540: parve, però, evidente che a Roma non si intendeva legittimare la politica religiosa di Carlo V quando, poco dopo, iniziò l'incontro con i protestanti ad Hagenau; mentre Giovanni Morone, nunzio presso Ferdinando, era incaricato di seguirne i lavori come osservatore, a Cervini era stato ordinato di rimanere presso la corte imperiale, per ripetere che la Santa Sede non poteva in alcun modo accettare, su questioni di sua pertinenza, decisioni prese senza essere consultata.
Cervini eseguì il mandato, avvertendo Roma che obiettivo dell'imperatore era manifestamente "unir la Germania senza rispetto di religione o di cosa alcuna" (Cervini al cardinale A. Farnese, Bruges, 25 giugno 1540, in Nuntiaturberichte aus Deutschland, V, p. 315). Per questi motivi incoraggiò l'invio del cardinale G. Contarini, esponente di punta degli "spirituali" italiani, presso la nuova conferenza di religione programmata a Worms che aveva inutilmente cercato di bloccare: gli sembrava infatti opportuno che vi intervenissero rappresentanti pontifici "come censori et sopracapo" (Cervini al cardinale A. Farnese, Leiden, 10 agosto 1540, ibid., p. 266) e lodava la scelta del prelato veneziano, bene accetto a Carlo V. Soprattutto, considerava vantaggioso assecondare, in quella occasione, la politica imperiale, per non tralasciare "segno di confidentia verso Sua Maestà fin alla dieta imperiale [...] perché allora sarà il tempo di connumerar, che [il papa] non habbia lassato cosa adietro per satisfare a Sua Maestà" (Cervini al cardinale A. Farnese, Bruxelles, 12 settembre 1540, ibid., p. 399).
A Roma si volle, nondimeno, ridimensionare la portata della conferenza: non fu inviato il cardinale Contarini, come previsto in un primo tempo, ma l'inesperto Tommaso Campeggio, vescovo di Feltre, insieme con il nunzio Morone, che cercò di ostacolare lo svolgimento dei lavori (aperti alla fine di novembre 1540), sollevando questioni procedurali. Cervini era rientrato a Roma nell'ottobre 1540, ricevendo poco dopo il titolo cardinalizio di S. Croce in Gerusalemme. Salito al più alto grado nella considerazione del papa, partecipò all'elaborazione della strategia della Sede apostolica in reazione alla Riforma tedesca. Stese, insieme con i cardinali Girolamo Aleandro e Girolamo Ghinucci, l'istruzione per il cardinale Contarini, inviato nel gennaio 1541, in qualità di legato, alla Dieta di Ratisbona, dove, alla presenza dell'imperatore, si sarebbe tentato un nuovo accordo: erano direttive che lasciavano poco spazio al negoziato e soprattutto non concedevano i poteri illimitati che Carlo V avrebbe desiderato. Nondimeno, l'operato a Ratisbona del Contarini (addivenuto nel maggio 1541 ad un compromesso con i protestanti circa la dottrina della giustificazione) provocò profonda insoddisfazione nella Corte pontificia. Tramontate le ipotesi di accordo confessionale, Cervini fu impegnato nel progetto di Paolo III di riunire quanto prima il concilio: collaborò ai colloqui di Lucca del settembre 1541 con Carlo V, durante i quali se ne discussero i dettagli; quindi, insieme con il cardinale A. Farnese, si incontrò a Bologna e a Roma con il cardinale Nicolas Perrenot de Granvelle e il rappresentante diplomatico imperiale, Alonso de Aguilar, per definire la sede più appropriata. Alla fine di novembre, quando Granvelle lasciò Roma, non si era ancora raggiunta un'intesa: solo dopo diversi mesi di trattative si giunse alla convocazione del sinodo generale a Trento (con bolla del 22 maggio 1542), ma la ripresa della guerra fra Francesco I e Carlo V compromise il risultato faticosamente conseguito.
Cervini sembrò allora privilegiare i propri interessi culturali: allacciati rapporti con studiosi di grande levatura (come Donato Giannotti, Piero Vettori, Guglielmo Sirleto), elaborò il progetto di stampare, dopo un'attenta correzione, le opere di Cicerone, Varrone, Catone, Columella. Coltivava altresì forti interessi per l'antiquaria: almeno fin dal 1538, era al centro di un sodalizio che si riuniva intorno al De architectura di Vitruvio ed ipotizzò la redazione di una raccolta sistematica delle tracce dell'antichità classica a Roma (della quale il volume noto come Codex Coburgensis è considerato testimonianza dagli studiosi). Progressivamente, però, Cervini accoglieva le istanze dell'umanesimo cristiano, concentrandosi su un progetto altrettanto ambizioso: la pubblicazione dei manoscritti greci della Biblioteca Vaticana, a partire dai testi dei Padri della Chiesa. Le prime operazioni editoriali a concretizzarsi furono, così, quelle con maggiore richiamo all'attualità: nel 1542 uscirono le epistole di Niccolò I e il primo tomo di lettere e decretali di Innocenzo III, pontefici che avevano con forza sostenuto l'autorità della Sede apostolica; nel 1543 seguirono l'opera di Enrico VIII contro Lutero e due orazioni di Bessarione che esortavano alla lotta contro il Turco. Presero corpo anche operazioni erudite, come la pubblicazione delle Disputationes adversus gentes di Arnobio, l'edizione critica del commento di Teofilatto sui vangeli e quella dei sermoni di Teodoreto di Ciro.
Il cardinale accresceva, nel contempo, l'impegno pastorale: dopo aver amministrato (dal 17 agosto 1539), senza mai recarvisi, la diocesi di Nicastro in Calabria, dal settembre 1540 era vescovo eletto di Reggio Emilia. Vi inviò vicari (tra i quali Ludovico Beccadelli), cui affidò una rigorosa correzione del clero locale: attraverso nuove costituzioni diocesane, fu imposto l'obbligo di residenza, di vestire l'abito ecclesiastico, di curare gli arredi sacri, di custodire i libri parrocchiali. Non si tenne, però, a lungo lontano dalle pressanti questioni politico-religiose. Già nel gennaio 1543, incaricato dal pontefice, sollecitava i vescovi italiani a recarsi a Trento. Nel maggio seguente fu chiamato nella deputazione cardinalizia del concilio, impegnata nel difficile compito di porre rimedio allo stallo dell'assemblea tridentina, scarsamente frequentata ed esposta al pericolo di forti pressioni da parte dell'imperatore. In giugno, infine, decretata la sospensione del sinodo, Cervini partecipò alla conferenza fra Paolo III e Carlo V a Busseto, indetta per tentare di porre fine alla guerra con il re di Francia.
In questa occasione, nonostante il cardinale A. Farnese gli avesse chiesto di sostenere i progetti per l'investitura del Ducato di Milano ad Ottavio Farnese, tentò di dissuadere Paolo III da un'azione che avrebbe avuto pesanti conseguenze sulla sua credibilità. Ne scaturì un'aspra rottura con il cardinal nipote, che però non pregiudicò i rapporti con il pontefice: conclusa nella tarda estate del 1544 la pace di Crépy, fu convocato nuovamente il concilio in Trento e Cervini fu nominato legato, insieme con i cardinali R. Pole e G.M. del Monte (che l'avrebbe poi preceduto al papato).
Dopo un solenne ingresso, il 13 marzo 1545, passò subito ad affrontare i gravi problemi emergenti: i vescovi, gli abati, i teologi convocati giungevano molto lentamente; in Germania, i protestanti chiarivano di non riconoscere l'assemblea; si era riunito un nuovo colloquio di religione presso la Dieta di Worms, presente il cardinale A. Farnese; l'imperatore si preparava, aiutato da Paolo III, alla guerra contro i principi riformati aderenti alla Lega di Smalcalda. Cervini esprimeva forti riserve sulla linea politica intrapresa a Roma: a suo giudizio, infatti, partecipare alla guerra era un errore, perché l'obiettivo dell'imperatore era solo sottomettere i ribelli alla sua autorità; in più, considerava grave la presenza del cardinal nipote alla Dieta di Worms, dove si tornava a parlare di accordo con i protestanti, proprio mentre il sinodo generale muoveva i primi passi. Suggerì quindi al pontefice di farsi carico a Roma di una profonda riforma, in modo che in qualche mese il concilio potesse sbrigare le questioni dottrinarie.
Poiché l'assemblea doveva rimanere a lungo in un clima di incertezza, Cervini tornò agli interessi letterari e alle scienze sacre: si impegnò nella ricerca di codici greci da far trascrivere e nei progetti editoriali intrapresi (come la stampa del commento di Eustazio ai poemi omerici). Si avvaleva, in queste attività, dell'aiuto di Guglielmo Sirleto, destinato a diventare suo consulente nei lavori conciliari. Seguiva, altresì, il progetto e l'edificazione della sua villa di Vivo d'Orcia, disegnata con ogni probabilità da Antonio da Sangallo il Giovane.
I dibattiti a Trento iniziarono solo nel dicembre 1545. Emerse subito la ferma posizione di un gruppo di prelati, che, per accentuare la propria autorità, rivendicava per il concilio il titolo di "rappresentante della Chiesa universale": Cervini riuscì ad evitare che l'assemblea si qualificasse in questo modo, adducendo ad esempio i precedenti sinodi. Un analogo richiamo alla tradizione non impedì, tuttavia, che, nella congregazione generale del 22 gennaio 1546, si decidesse di affrontare parallelamente dogmi e temi di riforma. I prelati più vicini all'imperatore, aspramente contrastati dal legato G.M. del Monte, avevano, infatti, sostenuto che si dovessero innanzitutto correggere irregolarità e abusi, molto diffusi a tutti i livelli della Chiesa, per mostrare disponibilità al mondo protestante. Cervini si era opposto argomentando che i più antichi concili avevano concesso la precedenza accordata alla trattazione dei dogmi, ma aveva dovuto accettare una soluzione di compromesso consistente, appunto, nella discussione simultanea di questioni dottrinali e di riforma. Il pontefice, convinto di poter eludere o almeno differire l'esame dei temi più scottanti, aveva reagito ruvidamente e Cervini si assunse il compito di convincere la Corte di Roma della sostanziale validità del risultato ottenuto. A suo giudizio, infatti, rinviare i dibattiti su quegli argomenti avrebbe appannato l'immagine del concilio Oltralpe, mentre la discussione di temi di riforma poteva riuscire fruttuosa, poiché i legati, guidandola accortamente, avrebbero blandito i propositi dei prelati più rigorosi e tacitato le accuse al papato di immobilismo.
Riconquistata la fiducia del pontefice, Cervini assunse la guida di una delle commissioni cui era stata affidata la trattazione preliminare delle materie. Si distinse nei dibattimenti circa il canone delle Sacre Scritture, proponendo un esame dei testi per emendarne gli errori: invece, nel decreto approvato l'8 aprile 1546, fu confermato il canone stabilito dal concilio di Firenze e solo di sfuggita menzionata la necessità di una nuova edizione critica. Si dedicò quindi al problema delle scarse conoscenze scritturali del clero ed avanzò (all'inizio di aprile 1546) la proposta di elaborare, in materia, un compendio. Ne scaturì un dibattito che nelle settimane seguenti toccò il tema della predicazione, suscitando forti polemiche fra appartenenti agli Ordini religiosi e vescovi, prima di giungere al decreto del 17 giugno 1546 sulla lettura della Bibbia e sulla predicazione. In questa occasione, il sinodo si espresse anche circa il peccato originale, fonte di forti controversie con i protestanti. Cervini, in particolare, si sforzò di mediare le posizioni riguardo alla teoria della "Immaculata conceptio", proponendo che il concilio non procedesse a innovazioni, ma si limitasse a ribadire la dottrina consolidata. Si incaricò, quindi, di stendere la versione finale del decreto.
Analoga accortezza Cervini dimostrò nella gestione dei dibattiti sulla riforma: riuscì, infatti, a scongiurare le insidie per l'autorità pontificia presentatesi (agli inizi di giugno 1546) nelle discussioni sull'obbligo di residenza dei vescovi e ne rinviò la trattazione. Nondimeno, dovette proporre che si affrontasse la questione, quando, alla fine di giugno 1546, l'assemblea si preparò a definire la dottrina della giustificazione: riteneva, infatti, che dibattendo parallelamente un importante tema di riforma potesse essere superata la prevedibile opposizione di Carlo V alla trattazione di un nodo teologico oggetto di aspre controversie con i protestanti. Entrati nel vivo i lavori sulla giustificazione, Cervini dispose che le difficoltà causate dagli scarsi e disomogenei studi in materia fossero superate attraverso esami preliminari da parte di più congregazioni di specialisti. Un primo abbozzo di decreto (alla cui redazione Cervini aveva contribuito personalmente) non portò, però, a conclusioni significative: così, egli affidò a G. Seripando, generale degli Agostiniani, il compito di stendere una nuova versione, pronta all'inizio di agosto 1546, ma non subito presentata. In quella estate, infatti, le attenzioni si erano spostate sui nuovi scenari aperti dall'inizio della guerra di Carlo V contro la Lega di Smalcalda.
Cervini faticava ad adeguarsi agli indirizzi politici presi da papa Farnese: riteneva, infatti, che Carlo V, pur di ottenerne l'obbedienza, avrebbe offerto ai principi ribelli qualche accomodamento in materia di religione, in spregio dell'autorità pontificia e del concilio; in più, sovrano di una Germania finalmente pacificata, sarebbe pervenuto al culmine della sua potenza. Ai primi moti d'arme, Cervini propose così, con gli altri legati, una sospensione, in vista di una traslazione in luogo più sicuro, come Bologna. Quando, poi, il papa, per non avversare l'imperatore, si dichiarò contrario, Cervini chiese più volte di essere sostituito, senza esito. Solo l'assistenza prestata a Rovereto al cardinale A. Farnese, caduto malato, permise a Cervini di allontanarsi dai lavori dell'assemblea, ma la sua assenza da Trento non impedì che l'imperatore lo ritenesse personalmente responsabile di ogni progetto di interrompere l'attività del concilio e gli facesse trasmettere, nell'agosto 1546, avvertimenti intimidatori.
Cervini tornò ad occuparsi più da vicino dei dibattiti: riguardo al tema della giustificazione, propose che, per superare le diverse posizioni dei teologi, si condannassero solo quelle certamente eterodosse, senza entrare nel merito delle diverse definizioni date dalla scolastica. Faceva nel contempo redigere diversi progetti di decreto e alla metà di settembre 1546 ne divulgò uno a nome proprio. Quindi, affidò a G. Seripando una nuova stesura.
Le sorti del concilio rimanevano sospese: in autunno, quando anche l'esito della guerra appariva incerto, il cardinale A. Farnese aveva verificato presso l'imperatore, fino ad allora radicalmente contrario, le condizioni di una sospensione dei lavori ed era riuscito (alla metà di novembre 1546) a giungere ad un accordo: Carlo V avrebbe acconsentito in cambio di una rinuncia a pubblicare il decreto sulla giustificazione e, soprattutto, se da Roma fosse stato sancito l'obbligo di residenza dei vescovi. Cervini continuava ad essere favorevole ad una interruzione dei lavori, condizionati dagli andamenti della guerra ed ostacolati da defezioni e malcontento fra i convenuti: riteneva ancora, infatti, che della riforma della Chiesa potesse occuparsi il pontefice, con una severa correzione degli abusi nella Curia romana, in modo da legittimare la fine del concilio. Gli sembrava però che una sospensione condizionata dall'assenso dell'imperatore ledesse l'autorità tanto del pontefice, quanto dell'assemblea. Apprese, così, con soddisfazione che l'imperatore non intendeva ratificare gli accordi stretti e tornò ad impegnarsi nei dibattiti: raccolse testi patristici sulla giustificazione "sola fide", presentandoli all'assemblea e il 21 dicembre propose anche una nuova formulazione di diversi articoli del decreto, che fu, infine, pubblicato il 13 gennaio 1547. Sembrava a questo punto vicina la conclusione dei lavori: a giudizio di Cervini, una volta sancito l'obbligo di residenza dei vescovi in una nuova sessione (prevista per il 3 marzo 1547), il concilio avrebbe adempiuto ai suoi compiti. L'argomento era stato trattato fin dal giugno 1546: i Padri conciliari avevano formulato pareri circa gli ostacoli che impedissero la residenza e la cura d'anime e due elenchi ne erano stati trasmessi a Roma. Alla fine di quell'anno, la questione fu proposta all'assemblea e nel gennaio 1547 il legato presidente (G.M. del Monte) presentò una bozza di decreto che, reputata troppo mite, suscitò una energica reazione fra i prelati legati all'imperatore. Anche una nuova versione (presentata il 13 gennaio 1547) fu bocciata. Dal canto suo, Cervini si limitò a consigliare a del Monte qualche maggiore concessione, suggerendo nel contempo alla Corte pontificia (per ammorbidire le posizioni più rigorose) l'emanazione di un provvedimento in materia. La manovra riuscì: la pubblicazione nel Concistoro del 18 febbraio 1547 di una direttiva contro il cumulo di vescovadi da parte dei cardinali sembrò rasserenare gli animi, consentendo al sinodo di giungere al decreto di riforma del 3 marzo 1547 che sanciva la cura d'anime come massimo criterio nel conferimento degli ordini sacri e nella distribuzione di benefici.
Nelle stesse settimane, Cervini si dedicava alla materia sacramentaria: incaricò G. Seripando, i gesuiti Diego Lainez e Alfonso Salmerón di enucleare, dagli scritti dei teologi protestanti, dottrine contrarie a quella cattolica e ne ricevette una lista di "errori", letta nella congregazione generale del 17 gennaio 1547. Quindi, diresse il dibattito che ne scaturì (dimostrando ancora di preferire che l'assemblea si limitasse alla sola condanna delle tesi "eretiche") e, con l'aiuto di Seripando e del vescovo di Fano P. Bertano, alla fine di gennaio, formulò i canoni di un decreto che definiva i sacramenti in generale ed in particolare il battesimo e la cresima: il testo fu approvato con lievi modifiche il 3 marzo 1547.
Sembrava a Cervini che davvero i lavori potessero concludersi entro giugno: la definizione della giustificazione e la sanzione dell'obbligo di residenza, a suo giudizio, potevano adeguatamente difendere l'ortodossia nella cattolicità immune dalla Riforma, mentre la peculiare situazione della Germania (che giudicava definitivamente sottratta all'autorità romana) sarebbe stata più efficacemente affrontata da un concilio nazionale tedesco. In questo contesto, la diffusione in Trento di una malattia infettiva (tifo petecchiale) presentò una buona occasione di affrettare lo scioglimento dell'assemblea: il 9 marzo 1547 fu, infatti, avanzata la richiesta di lasciare Trento per proseguire i lavori in altra sede, o sospenderli, e il giorno seguente i legati formalizzarono la proposta di una traslazione a Bologna. I prelati legati a Carlo V reagirono violentemente e subito si diffuse il sospetto che vi fosse da Roma un ordine in tal senso. In particolare Cervini (che già il 26 giugno 1546 aveva avanzato a Roma eguale proposta) era ritenuto maggiormente responsabile.
L'assemblea, ascoltati i medici, sanzionò (l'11 marzo) la traslazione a Bologna e i Padri conciliari partirono, tranne quelli fedeli agli Asburgo. Cervini entrò in Bologna il 22 marzo e pochi giorni dopo (il 27 marzo 1547) si tenne in S. Petronio la solenne cerimonia di apertura. Carlo V protestò presso Paolo III, ma Cervini difese efficacemente presso la Corte di Roma quanto operato: ricordò che la partenza dei prelati italiani avrebbe reso maggioranza quelli di parte imperiale e propose che fosse lo stesso pontefice, trasferendosi a Bologna, a definire in poche settimane le questioni dogmatiche più importanti. La ripresa dei lavori stentò: solo fra aprile e maggio i legati ricevettero istruzioni di continuare i dibattiti, ma senza pubblicare i decreti. A Cervini pareva che potessero essere pubblicati almeno i decreti sui sacramenti. Aveva infatti coordinato (tra marzo e aprile 1547) la trattazione sulla penitenza, sulla unzione degli infermi, sull'ordine e sul matrimonio. L'assemblea si concentrò quindi sull'eucarestia, mentre Cervini studiava le più antiche conoscenze in materia. Partecipò, altresì, in prima persona alla stesura dei canoni: dopo tre versioni, furono approvati quelli sulla penitenza (il 12 luglio 1547); quindi, passò a redigere i testi sulla unzione degli infermi e sull'ordine, al centro di un acceso dibattito, e si adoperò per evitare che dalla elezione e consacrazione dei sacerdoti si passasse ad argomenti problematici come l'autorità dei vescovi o il primato del pontefice. Nelle stesse settimane, infine, prese parte alle discussioni sulle indulgenze, chiedendo al Sirleto di raccogliere testimonianze sugli usi della primitiva Chiesa romana.
La dura presa di posizione dell'imperatore, che chiedeva a Paolo III il ritorno dell'assemblea a Trento o una traslazione in Germania, impedì che questi lavori si concretizzassero. Di fronte alla forzata inattività, Cervini chiese di potersi recare a Gubbio (diocesi di cui teneva l'amministrazione dal febbraio 1544) per una visita pastorale, ma non ne ebbe il permesso. La situazione restava bloccata: tornare a Trento, dove erano rimasti i prelati fedeli a Carlo V, avrebbe compromesso l'autorità del pontefice, ma continuare a dibattere (dalla fine dell'estate in materia di matrimonio e di abusi dei sacramenti) senza decretare i risultati appariva del tutto sterile. A Cervini pareva che la soluzione migliore fosse quella di convocare i Padri conciliari trasferitisi a Bologna e quelli rimasti a Trento dinanzi al pontefice, a Roma, per continuare il concilio o sospenderlo.
Nel settembre 1547, dopo l'assassinio di Pierluigi Farnese, Cervini venne nominato legato "de latere" nelle città di Parma e Piacenza "ac tota Provincia Cispadana" (A.S.V., Arm. LXI, 40, c. 161), e, pur non spostandosi da Bologna, vigilò sui movimenti delle truppe imperiali che, occupata Piacenza, sembrava volessero impadronirsi anche di Parma. Quindi, all'inizio di novembre, si recò a Roma, convocato da Paolo III. Ribadì al pontefice che non era più lecito aspettarsi una sottomissione spontanea dei protestanti, ricordò che a Trento la pressione imperiale per un accordo era stata molto forte e suggerì che per superare il difficile momento il concilio stesso si pronunciasse sulle proteste dei rappresentanti di Carlo V. Così, alla fine di dicembre, l'assemblea bolognese rivendicò la piena legittimità della traslazione. Tornato a Bologna il 22 gennaio 1548, Cervini presentò (con il legato del Monte) la proposta di una sospensione di due o tre mesi. Il papa, invece, per recuperare credibilità presso l'imperatore e dirimere la contesa, decise di convocare a Roma una rappresentanza dei Padri che avevano accettato la traslazione e una delegazione di quelli rimasti a Trento. L'attenzione si era spostata, nel contempo, su un nuovo tentativo dell'imperatore di risolvere il conflitto religioso in Germania. Così, in aprile, Cervini (al pari del cardinale G.M. del Monte) fu chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di Carlo V di legati pontifici dotati, a riguardo, di ampia autorità: chiarì che se ne potevano inviare in Germania, ma privi dei forti poteri desiderati; con maggiore severità si espresse riguardo alla pubblicazione dell'Interim di Augusta (del maggio 1548) che faceva importanti concessioni ai protestanti ed affrontava temi dogmatici già risolti dal concilio. In maggio, Cervini fu richiamato a Roma ed entrò sia nella deputazione cardinalizia per il concilio sia nel gruppo di più stretti collaboratori di papa Farnese, incapace, nell'ultima fase del pontificato, di appianare i rapporti con l'imperatore e forzato, nel settembre 1549, a sospendere il concilio di Bologna, ormai scarsamente frequentato. Cervini ebbe, nelle stesse settimane, modo di presenziare ad un sinodo diocesano in Gubbio - occasione nella quale decretò nuove costituzioni, che regolavano in dettaglio la vita del clero locale.
Nel novembre seguente, alla morte del pontefice, si aprì un difficile conclave. Cervini, apparso subito il più ascoltato consigliere del cardinale A. Farnese, era considerato dagli osservatori fra i candidati con maggiore speranza di successo, a causa dello zelo religioso dimostrato; non riusciva gradito, però, ai cardinali legati a Carlo V, che lo reputavano filofrancese e gli imputavano il fallimento dell'assemblea conciliare. Candidato di questo schieramento era R. Pole, aspramente avversato dall'opposta fazione. Su richiesta di alcuni porporati (tra cui A. Farnese), nei primi giorni di dicembre, Cervini cercò di mitigare l'avversione verso Pole della parte legata ad Enrico II, insistendo affinché almeno si recedesse dall'accesa richiesta di aspettare l'arrivo di altri cardinali dalla Francia. Giunti i porporati francesi dopo che Pole era andato vicinissimo alla tiara, i due raggruppamenti si fronteggiarono per diverse settimane, sostenendo i rispettivi candidati. Di Cervini (segnalato da tempo come nome gradito ad Enrico II) si parlò non appena furono avviate le trattative per un compromesso, all'inizio di febbraio 1550, ma una reale convergenza si ebbe sul nome di G.M. del Monte, eletto col nome di Giulio III.
Cervini, nonostante in diverse occasioni protestasse di volersi impegnare nei propri doveri pastorali, fu presto chiamato dal nuovo pontefice a compiti di responsabilità: dal marzo 1550, partecipò alla commissione di cardinali cui era demandato un progetto di riforma dei più importanti uffici della Curia (poi confluito nella bolla, non pubblicata, Varietates temporum); di questa deputazione assunse la presidenza nell'ottobre 1552. Fu anche tra i porporati che verificarono le possibilità di una riapertura del concilio a Trento ed espresse parere favorevole. Il suo stato di salute, gravemente deteriorato, e l'avversione dimostrata nei suoi confronti dall'imperatore, tuttavia, non gli permisero di assumere impegni in prima persona, quando il sinodo (maggio 1551) iniziò i lavori.
Trascorse così gli anni del pontificato del Monte fra Roma e Gubbio, dove promosse il restauro e l'arricchimento delle decorazioni della cattedrale. Si concentrò, altresì, nell'attività di cardinale protettore di Agostiniani e di Serviti, dei quali favorì correzione e riorganizzazione. Favorì anche la Compagnia di Gesù, avendo stretto contatti, sin dal suo arrivo in Roma, con Ignazio di Loyola, e chiese la collaborazione di padri gesuiti per le visite pastorali a Reggio e (come notato) durante i dibattiti conciliari. Infine, Cervini prese regolarmente parte ai lavori della Congregazione del Sant'Uffizio, ove era entrato nel 1546. Come membro del tribunale dell'Inquisizione, si distinse per un certo pragmatismo, dovuto alla convinzione che un assoluto rigore potesse più danneggiare che favorire la causa cattolica. Per questo, fu coinvolto dal moderato Giulio III nella composizione di casi eclatanti, come, nel 1553, quello del cardinale R. Pole, al centro di gravi sospetti. Durante il pontificato di del Monte, avversandone le evidenti distorsioni nepotistiche, Cervini coltivò particolarmente le attività culturali. Dall'ottobre 1548, infatti, gli era stata affidata la cura della Biblioteca Vaticana, della quale fu nominato più tardi (il 24 maggio 1550) cardinale bibliotecario. Cervini vi impegnava cospicue energie ed era al centro di un gruppo di studiosi, fra i quali spiccavano G. Sirleto e il giovane O. Panvinio: patrocinò l'editio princeps delle orazioni di Giovanni Damasceno in difesa delle immagini sacre, in evidente polemica con i protestanti (l'opera uscì nel 1554 a Venezia, per Paolo Manuzio, che Cervini aveva da tempo coinvolto nei suoi progetti editoriali), la stampa di un vangelo in lingua etiopica e tornò a dedicarsi all'idea di una collezione di traduzioni italiane dei più importanti testi patristici per la lotta ai riformatori tedeschi. Membro della Congregazione cardinalizia di S. Pietro, supervisionò nel luglio 1550 i disegni della tomba di Paolo III, opera di Guglielmo della Porta e, trovandoli "non da Christiani ma da Gentili", suggerì di adottare "qualche cosa che sappia meno del gentile, et sia tuttavia vaga, et conveniente" (Cervini a B. Maffei, Montepulciano, 12 luglio 1550, in D.R. Coffin, pp. 26-7).
Alla morte di Giulio III, nel marzo 1555, Cervini si trovava a Gubbio. Il conclave si aprì il 6 aprile e si caratterizzò per una forte pressione francese a favore dell'elezione del cardinale Ippolito d'Este. Giunto a Roma, Cervini parve subito candidato autorevole, ma non era sostenuto dai cardinali legati all'imperatore, memori della sua condotta durante il concilio, né da quelli partigiani di Enrico II. Fu, quindi, probabilmente il rischio di un papa dichiaratamente filofrancese a far inclinare il partito favorevole agli Asburgo e la maggioranza del conclave verso Cervini, appoggiato, del resto, con convinzione dal cardinale Gian Piero Carafa (cui dopo l'elezione fu assegnato alloggio nei Palazzi Vaticani) e dal gruppo di cardinali più rigorosi. Rapidamente, la candidatura prese corpo e Cervini, il 9 aprile 1555, fu eletto al soglio pontificio. Per dare un segnale di continuità con quanto operato da cardinale, mantenne il proprio nome, assumendo quello di Marcello II. Si fece quindi consacrare vescovo, dignità rifiutata fino a quel momento reputando di non meritarla. Le successive cerimonie di incoronazione, straordinariamente sobrie, per non turbare le contemporanee devozioni della Settimana santa, radicarono la convinzione che il suo pontificato dovesse rappresentare una soluzione di continuità ed in pochi giorni si diffuse l'immagine di un acceso fautore di una riforma della Chiesa che, da un lato, avrebbe provveduto ad una rigorosa correzione degli abusi e, dall'altro, avrebbe tentato energicamente di porre fine alle "eresie" protestanti.
M., dal canto suo, per dare un segnale di rigore, pretese immediatamente che in Corte di Roma si diffondesse un nuovo, austero stile di vita e non concesse alcun favore ai propri parenti: la guida della Segreteria di Stato, in accordo con i diplomatici asburgici, fu offerta al cardinale A. Farnese (che non accettò); emerse, invece, la figura del cardinale Sebastiano Pighino, già nunzio presso Carlo V e legato al concilio sotto Giulio III. Solo due membri laici della famiglia (Giovan Battista e Biagio Cervini) furono chiamati a quelle cariche militari cui era per tradizione demandata la guardia della persona del pontefice. Subito M. ordinò che gli fossero sottoposti i lavori preparatori per la riorganizzazione degli uffici della Curia e dispose, insieme con i cardinali Jacopo Puteo e Giambattista Cicada, una revisione della bolla di riforma di Giulio III (la già menzionata Varietates temporum): intendeva, infatti, farla approvare sollecitamente dal Concistoro e presentare all'imperatore. Si concentrò, in particolare, su una radicale riorganizzazione di importanti organi (quali la Dataria, la Segnatura, la Penitenzieria, il Tribunale della Rota), non mostrando intenzione di riprendere il concilio, nuovamente sospeso dal predecessore (nell'aprile 1552). Considerava difatti che, in materia dottrinale, fosse più opportuno concentrarsi nella divulgazione dei risultati conseguiti e che, in materia di riforma, bastasse un'azione decisa da Roma. In ragione di ciò, fece sollecitare alla residenza i vescovi oltremontani.
Attorno a questo disegno M. intendeva coagulare un vasto consenso: già il giorno successivo all'elezione aveva indirizzato brevi ai più importanti sovrani d'Europa per assicurarli sulle proprie intenzioni di procedere ad una seria riforma "in capite". Li assicurava altresì della propria neutralità politico-diplomatica, dichiarando che per raggiungere la riconciliazione intendeva convocare una immediata conferenza di pace. Ebbe anche modo di impegnarsi concretamente riguardo alla questione senese (nella quale, del resto, il predecessore l'aveva coinvolto da cardinale), sollecitando le truppe imperiali e medicee a non infierire contro la città sconfitta. Le maggiori corti europee, compresa quella imperiale, sembrarono dare credito alla buona fede del neoeletto. Durante questi primi giorni M. riunì anche una Congregazione per il risanamento finanziario della Camera apostolica e si curò dell'approvvigionamento frumentario della città di Roma, mostrando attenzione particolare per il sostentamento degli indigenti. Le attese originate dalla sensibilità religiosa, dalle straordinarie qualità morali e intellettuali dimostrate restarono però deluse: il precario stato di salute di M., infatti, fu compromesso dall'attivismo dimostrato e dall'assidua frequentazione delle pratiche devozionali della Settimana santa. Un grave peggioramento si ebbe già nella terza settimana di pontificato. Morì la notte fra il 30 aprile e il 1° maggio 1555. Fu sepolto in S. Pietro e nel 1606 traslato in un sepolcro cristiano antico nelle Grotte vaticane. P.L. da Palestrina dedicò alla sua memoria la Missa papae Marcelli.
fonti e bibliografia
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