Abstract
Il marchio registrato è disciplinato nel nostro ordinamento essenzialmente dal codice della proprietà industriale e dal reg. sul marchio comunitario, che lo proteggono come uno strumento di comunicazione e quindi contro ogni forma di agganciamento realizzato mediante l’uso di segni eguali o simili; questa tutela è accordata sul presupposto che il marchio sia concretamente in grado di assolvere una funzione distintiva e non dia luogo a un inganno del pubblico. Le regole dettate per il marchio registrato trovano applicazione anche agli altri segni distintivi (marchi di fatto, ditta e insegna, ragione e denominazione sociale, nomi a dominio di siti usati nell’attività economica, titoli delle opere dell’ingegno), in quanto non siano derogate dalle disposizioni specifiche che a questi segni sono dedicate dal codice civile e da altre leggi speciali o non trovino il loro presupposto nel procedimento amministrativo di registrazione, cui questi altri segni non sono invece soggetti.
1. Definizione
Il marchio è il più importante dei segni distintivi dell’impresa, di cui contraddistingue i prodotti e i servizi. Sul piano economico esso è oggi utilizzato (e tutelato) non solo come strumento per informare il pubblico della provenienza dei prodotti o servizi per cui è usato da una determinata impresa (la tradizionale funzione di «indicazione di provenienza»), ma anche come simbolo di tutte le altre componenti del «messaggio» che il pubblico ricollega, appunto attraverso il marchio, ai prodotti o ai servizi per i quali esso viene usato, comprese le informazioni e le suggestioni diffuse attraverso la pubblicità, su cui si concentra oggi il valore di mercato dei marchi più famosi (la nuova funzione di «strumento di comunicazione»).
Nel nostro ordinamento sia il marchio registrato (concesso dall’Ufficio italiano brevetti e marchi per una durata di dieci anni, ma rinnovabile senza limiti per eguali periodi), sia il marchio non registrato (tutelato sulla base della notorietà conseguita sul mercato) sono oggi inquadrati tra i diritti di proprietà industriale (artt. 1 e 2 codice della proprietà industriale: d.lgs. 10.2.2005, n. 30, modificato da ultimo dal d.lgs. 10.8.2010, n. 131, di qui in poi c.p.i.) e la loro disciplina sostanziale deriva dalla dir. n. 89/104/CEE (ora, nella versione codificata, dir. n. 2008/95/CE) e dalle prescrizioni del TRIPs Agreement. A fianco di questa disciplina vi è quella prevista dal reg. CE n. 207/2009 (versione codificata del reg. CE n. 40/94: di qui in poi RMC) per il marchio comunitario, titolo unitario che produce effetti sull’intero territorio UE e viene concesso dall’Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno, anch’esso per periodi decennali rinnovabili. Un semplice fascio di marchi nazionali è invece il marchio internazionale di cui all’Arrangement di Madrid del 1891, registrato presso l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale sulla base di una precedente registrazione o domanda di registrazione nazionale o comunitaria, oggi secondo la procedura «semplificata» di cui al Protocollo di Madrid del 1989.
2. La nozione di segno, la capacità distintiva e gli altri requisiti «assoluti» di validità
In quanto strumento di comunicazione, il marchio deve consistere in una realtà che i consumatori percepiscano come «segno», cioè come portatrice di un significato, venendo così idealmente a distinguerlo dal prodotto o servizio contrassegnato; questo significato deve poi essere «distintivo», ossia il segno dev’essere percepito come l’indicatore (anche) dell’esistenza di un’esclusiva sul suo uso in un certo settore. I marchi (e gli altri segni distintivi) si contrappongono così, da un lato, agli elementi non portatori di un messaggio, ma apprezzati in se stessi, come di regola forme e colori, che possono costituire marchi solo se sono concretamente percepiti dal pubblico come segni (cfr. C. giust. CE, 6.5.2003, C-104/01 e C. giust. CE, 24.6.2004, C-49/02, sui colori e C. giust. CE, 7.10.2004, C-136/02, sulle forme); dall’altro lato, in quanto segni «specifici», si contrappongono ai segni «generici», cioè a quelli che nel comune linguaggio (verbale e non verbale) esprimono direttamente una o più caratteristiche dei prodotti o servizi per cui sono usati e come tali devono restare a disposizione di chiunque intenda usarli nel loro significato «generico».
Per i marchi registrati si richiede anche l’idoneità del segno a venire rappresentato graficamente, per mettere autorità e operatori economici in grado rispettivamente di «adempiere i propri obblighi relativi all’esame preliminare delle domande» e «accertare con chiarezza e precisione le registrazioni effettuate o le domande di registrazione formulate dai loro concorrenti attuali o potenziali» (C. giust. CE, 12.12.2002, C-273/00).
L’art. 13 c.p.i. esclude dalla protezione come marchio i segni «privi di capacità distintiva» e «in particolare» quelli costituiti esclusivamente da «segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio», da denominazioni generiche dei prodotti o servizi per i quali il marchio viene chiesto o da indicazioni descrittive ad essi relative, di cui il c.p.i. e il RMC forniscono una serie di esempi. La ratio pro-concorrenziale della norma (cfr. C. giust. CE, 12.2.2004, C-363/99 e C. giust. CE, 12.2.2004, C-265/00) consente di estendere tali esclusioni ai segni non denominativi che parimenti esprimano le caratteristiche dei prodotti o servizi contrassegnati e più in generale ai segni che, pur non essendo né descrittivi, né di uso generale, egualmente non sono concretamente idonei a comunicare un messaggio distintivo: la capacità distintiva va quindi verificata anche in positivo e non solo in negativo, com’era tradizione nel nostro Paese.
Altro requisito del valido marchio è la liceità, che il c.p.i. specifica nel divieto di registrare i segni «contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume» e quelli «idonei ad ingannare il pubblico» (art. 14, co. 1, lett. a-b, c.p.i.: su questi ultimi v. infra, § 4), «gli stemmi e gli altri segni considerati nelle convenzioni internazionali vigenti in materia» e «i segni contenenti simboli, emblemi e stemmi che rivestano un interesse pubblico» (art. 10 c.p.i.).
Un problema lato sensu di liceità si pone anche per le forme, essendo vietata la registrazione dei segni «costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto». Come ha chiarito, anche in questo caso, la Corte di giustizia europea, la ratio di questi divieti è ancora una volta di carattere pro-concorrenziale, poiché si tratta qui di evitare che il monopolio sulla forma come segno diventi un monopolio sui valori sostanziali che la forma, in sé considerata, possiede (si veda in particolare C. giust. CE 18.6.2002, C-299/99, Philips c. Remington): l’esclusiva sui marchi, infatti, è potenzialmente perpetua, a differenza di quella brevettuale ed anche di quella attribuita dal diritto d’autore, che sono sempre temporanee; ed una tutela perpetua su questi valori sostanziali assumerebbe una valenza anticoncorrenziale. Questa ratio segna però anche il limite del divieto: sono quindi solo questi valori sostanziali che devono cadere in pubblico dominio, mentre se la stessa utilità o lo stesso valore sostanziale (estetico o di mercato) possono essere conseguiti attraverso plurime varianti distintive, ciascuna di queste varianti può essere protetta come marchio senza con ciò monopolizzare tali valori, in tal caso il divieto di registrazione non opera e addirittura, se una forma possiede carattere individuale, ma non attribuisce di per sé al prodotto un valore sostanziale rilevante per il pubblico, questa forma, in quanto sia anche distintiva, può cumulare la protezione come modello con quella come marchio. Dev’essere però chiaro al riguardo che l’impressione diversa da cui dipende la proteggibilità di una forma come modello (e che segna anche i limiti di questa protezione) non è la stessa cosa della capacità distintiva (e della protezione del marchio contro la confondibilità e l’agganciamento): capacità distintiva significa infatti capacità di distinguere comunicando un messaggio, cioè di essere segno, simbolo di qualcosa; carattere individuale significa invece capacità di distinguersi, di imporsi all’attenzione del pubblico come qualcosa di diverso dalle forma già conosciute, ma non necessariamente simboleggiando qualcosa.
Se la capacità distintiva o la liceità vengono meno dopo la registrazione, il marchio è soggetto a decadenza (artt. 13, co. 4, e 14, co. 2, c.p.i. e art. 50 RMC), mentre il marchio originariamente non distintivo può diventarlo anche dopo la registrazione se per effetto dell’uso «gli ambienti interessati percepiscano effettivamente il prodotto o il servizio designato dal solo marchio di cui viene chiesta la registrazione come proveniente da una determinata impresa» (C. giust. CE, 7.7.2005, C-353/03), ed in tal caso la sua invalidità viene sanata (artt. 13, co. 3, c.p.i. e 51, co. 2, RMC). La prova di ciò potrà essere data ricorrendo a testimonianze di qualificati operatori degli ambienti interessati o ad indagini demoscopiche.
3. La legittimazione alla registrazione e il divieto di registrazione in malafede
Ai sensi degli artt. 19 c.p.i. e 5 RMC anche chi non è imprenditore né si propone di diventarlo può essere titolare di un marchio, purché esso sia destinato a un uso nell’attività economica, ancorché effettuato da terzi. Ove tale uso sia programmaticamente escluso si può forse invocare il divieto della registrazione in malafede, previsto dal secondo comma del medesimo art. 19 c.p.i. e dall’art. 51, co. 1, lett. b), RMC; questo divieto opera anche quando l’agente o rappresentante del titolare straniero depositino in proprio il marchio senza autorizzazione (art. 6 septies della Convenzione di Unione di Parigi) e verosimilmente quando la fattispecie acquisitiva dell’esclusiva su un segno è in itinere e un altro soggetto, essendone a conoscenza, la anticipa, registrandolo a proprio nome, o quando «il richiedente ... limiti per suo tramite l’attività dei concorrenti oltre ogni ragionevole necessità di distinzione sul mercato» (Mayr, C.E., La malafede nella registrazione come marchi delle opere dell’ingegno, in AIDA, 1993, 63 ss., a 78), configurandosi così come norma di chiusura.
Limitazioni della legittimazione a registrare un marchio sono poi previste dagli artt. 8 e 14, co. 1, lett. c), c.p.i. per i «segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi», per il nome o il ritratto di persone diverse dal registrante e per i segni «notori»; di questi ultimi sono riservati agli «aventi diritto» e ai soggetti da loro autorizzati la registrazione e l’uso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il marchio richiamerebbe agli occhi del pubblico il segno famoso.
4. L’uso del marchio e il divieto di inganno del pubblico
Il marchio si configura come un’esclusiva, ossia come il diritto di usare (o far usare) il segno che ne forma oggetto per i prodotti o servizi delle tipologie per cui è stato registrato o è comunque noto, ad esclusione di ogni altro soggetto. Per ragioni essenzialmente fiscali i prodotti e i servizi sono divisi in 45 classi merceologiche e la registrazione può essere chiesta per una o più di tali classi e per tutti o alcuni dei prodotti o servizi che ne fanno parte, fermo restando che per i marchi usati i limiti dell’esclusiva dipendono essenzialmente dalla percezione del pubblico (vedi infra, § 5).
A carico del titolare è inoltre previsto l’onere di usare il marchio in modo effettivo, e quindi non puramente simbolico (cfr. C. giust. CE, 11.3.2003, C-40/01 e C. giust. CE, 11.5.2006, C-416/04), entro cinque anni dalla concessione (con regole in parte diverse per i marchi internazionali) e di non interrompere tale uso per cinque anni consecutivi, salvo che l’inattività dipenda da un «motivo legittimo» (artt. 24 c.p.i. e 15 RMC).
Non tutti gli usi di un marchio sono tuttavia consentiti; in particolare gli artt. 14, co. 2, c.p.i. e 50 RMC comminano la decadenza al marchio che a seguito dell’uso sia divenuto idoneo ad ingannare il pubblico, configurando in capo al titolare una posizione di responsabilità in ordine alla veridicità del messaggio che il pubblico vi ricollega (si parla al riguardo di «statuto di non decettività» o di «consumer trademark»). La ratio della regola, che fa da pendant alla protezione contro lo sfruttamento parassitario del messaggio di cui il marchio è portatore, induce a ritenere rilevante ogni divergenza tra le caratteristiche dei prodotti o servizi per cui è usato e questo messaggio, comprese le sue componenti suggestive, il che comporta per il titolare l’onere, alternativamente, di conformarsi a tale messaggio o di modificarlo, tramite la pubblicità (vedi però C. giust. CE, 30.3.2006, C-259/04, che pare ritenere rilevante solo l’inganno su caratteristiche materiali dei prodotti).
5. Le funzioni del marchio e il suo ambito di protezione
La sfera di esclusiva attribuita dal marchio è disciplinata dagli artt. 20 e 21 c.p.i. e 9 e 12 RMC ed è formalmente articolata su tre livelli, per cui costituisce contraffazione, ossia violazione dell’esclusiva sul marchio:
a) l’uso di un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; b) l’uso di un segno identico o simile al marchio, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione tra segni; e c) l’uso di un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio goda di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio ad essi.
La prima e la terza di queste previsioni sono state spesso interpretate come eccezioni alla «regola» ricavabile dalla seconda di esse: la protezione «normale» del marchio sarebbe cioè ancora quella contro la confondibilità (che sino alla dir. n. 89/104/CEE ne segnava il limite), salvo che per i «marchi che godono di rinomanza», tutelati ogni volta che il pubblico possa istituire un «nesso» tra il segno dell’imitatore ed il marchio imitato, da cui derivino l’indebito vantaggio o il pregiudizio cui fa riferimento la terza di queste previsioni (C. giust. CE, 23.10.2003, C-408/01, Adidas c. Fitnessworld, in Riv. dir. ind., 2004, I, 130 ss.), e ciò anche in caso di usi non confusorî su prodotti affini a quelli per cui il marchio è stato registrato (C. giust. CE, 9.1.2003, C-292/00, Davidoff). Si è però chiarito che marchi di rinomanza non sono solo quelli celeberrimi, ma tutti quelli conosciuti nel loro settore (C. giust. CE, 14.9.1999, C-375/97, General Motors, in Riv. dir. ind., 2000, II, 255 ss. e in Giur. ann. dir. ind., 1999, n. 4120), cosicché il rapporto regola-eccezione tra la tutela contro l’imitazione confusoria e quella contro l’imitazione non confusoria non è più attuale e la confondibilità va intesa piuttosto come un caso particolare di uso idoneo a determinare un approfittamento o un pregiudizio rispetto a notorietà e capacità distintiva del marchio.
L’approfittamento sussiste quando dall’uso di un segno eguale o simile derivi un agganciamento parassitario all’immagine legata al marchio imitato (cfr. Trib. Milano, 4.3.1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 977 ss., in un caso di parodia; e Trib. Milano, decr. 28.10.2005 e Trib. Milano, ord. 14.11.2005, ivi, 2005,1096), come anche nel cybersquatting, ossia nell’adozione dell’altrui marchio famoso come domain name su internet, per aumentare il numero dei visitatori del sito (cfr. Trib. Napoli, ord. 81.2002, in Dir. inf., 2002, 359 ss.; Trib. Milano, 6.6.2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 949 ss.), o ancora, sempre su internet, nell’uso del marchio altrui come metatag, cioè come parola nascosta all’interno del sito (Trib. Monza, ord. 16.7.2002, in Dir. ind., 2003, 55 ss.; Trib. Napoli, 20.12.2002, in Giur. ann. dir. ind., 2003, 668 ss.), o come keyword di un motore di ricerca (C. giust. CE, 18.6.2009, C-487/07, L’Oréal, e C. giust. CE, 23.3.2010, C-236-238/08, Google). A un pregiudizio danno invece luogo l’uso del segno-copia per prodotti o servizi scadenti o comunque incompatibili con il messaggio legato al marchio imitato (cfr. ancora Trib. Milano, 4.3.1999, Trib. Milano, decr. 28.10.2005 e Trib. Milano, ord. 14.11.2005, citt.) o tale per cui «il marchio anteriore non risulta più in grado di suscitare un’immediata associazione con i beni per i quali è stato registrato ed utilizzato» (così Trib. CE, sez. II, 25.5.2005, T-67/04). La tutela riguarda inoltre anche gli usi non distintivi che siano in grado di istituire un «nesso» tra il segno ed il marchio in ragione del quale si producano tali situazioni di vantaggio/pregiudizio (cfr. Trib. Milano, decr. 28.10.2005, e Trib. Milano, ord. 14.11.2005, citt.; Trib. Milano, 4.3.1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 977 ss.; Trib. Torino, 5.11.1999, in AIDA, Rep. 2000, voce IV.3.3).
Un’eccezione solo apparente è la protezione «automatica» contro l’uso di un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è registrato, poiché in realtà anche quest’uso è vietato «solo se pregiudica o è idoneo a pregiudicare le funzioni del detto marchio» (C. giust. CE, 11.9.2007, C-17/06, Céline, e C. giust. CE, 25.1.2007, C-48/05, Opel). Più apparente che reale è anche la limitazione per cui il titolare non può opporsi ad una serie di usi descrittivi del suo segno, né all’uso nell’attività economica del «nome e indirizzo» di altri soggetti che siano eguali o simili al marchio, ove tali usi siano conformi alla correttezza professionale (artt. 21, co. 1, c.p.i. e 12 RMC): si è infatti chiarito che la limitazione non opera quando l’uso del terzo dà luogo a confondibilità o a una delle anzidette situazioni di vantaggio/pregiudizio (C. giust. CE, 17.3.2005, C-228/03).
Una limitazione effettiva è invece costituita dall’esaurimento comunitario, per cui il titolare del marchio non può opporsi alla circolazione di prodotti immessi in commercio nella Comunità o nel S.E.E. da lui stesso o con il suo consenso (artt. 5 c.p.i. e 13 RMC), se non in presenza di «motivi legittimi», tra cui in particolare l’alterazione dello stato di essi (in tal senso C. giust. CE, 23.5.1978, in Giur. ann. dir. ind., 1978, 814; C. giust. CE, 3.12.1981, in Giur. ann. dir. ind., 1982, 703 ss.; e C. giust. CE, 11.7.1996, in Giur. ann. dir. ind., 1996, 1225 ss. sul riconfezionamento, di cui precisa i presupposti di legittimità, escludendola tra l’altro se «la presentazione del prodotto riconfezionato sia atta a nuocere alla reputazione del marchio»).
6. La novità, la convalidazione e i rapporti con gli altri diritti anteriori di terzi
Quando l’uso del marchio interferirebbe con marchi o altri segni distintivi anteriori altrui, lo stesso è privo di novità, il che costituisce un impedimento alla registrazione (art. 8 RMC) e un caso di nullità (artt. 12 e 122, co. 2, c.p.i. e 52 RMC) che solo i titolari di tali segni anteriori possono far valere con l’opposizione alla registrazione o l’azione di nullità, mentre le cause di nullità di cui supra ai §§ 2-3 (quanto alla registrazione in malafede) e 4 sono invocabili da chiunque vi abbia interesse e dal pubblico ministero.
I marchi registrati anteriori privano di novità il marchio successivo negli stessi casi in cui l’uso di esso ne costituirebbe contraffazione; in base al «principio dell’unitarietà dei segni distintivi», cui s’intitola l’art. 22 c.p.i., costituiscono anteriorità invalidanti anche i segni diversi dal marchio registrato, sempre alle stesse condizioni: alla capacità invalidante dei marchi registrati che godono di rinomanza è infatti equiparata quella dei marchi notoriamente conosciuti di cui all’art. 6 bis della Convenzione di Unione di Parigi, per i quali anzi non è richiesto che siano usati nel nostro Paese, ma basta che vi siano noti. Per converso i segni di fatto non tolgono la novità ai marchi successivi se sono privi di notorietà (cfr. Trib. Udine, 31.5.1993, in Riv. dir. ind., 1995, II, 3 ss.) o godono di notorietà puramente locale, intendendosi come tale «una notorietà circoscritta ad una città e ai suoi dintorni che, insieme, non costituiscano una parte sostanziale dello Stato membro» (così C. giust. CE, 22.11.2007, C-328/06).
La nullità del marchio per assenza di novità (e per violazione di nomi e ritratti o altri diritti di proprietà intellettuale di terzi) può essere sanata dalla convalidazione di cui agli artt. 28 c.p.i. e 53 RMC, che richiede da un lato la tolleranza dell’uso del marchio, per almeno un quinquennio, da parte del titolare del diritto anteriore che di tale uso sia a conoscenza e dall’altro la buona fede del titolare del marchio da convalidare al tempo della registrazione, intendendosi qui per malafede la consapevolezza dell’interferenza del marchio con il diritto anteriore, che sussiste sempre quando questo sia molto noto.
7. La circolazione del marchio: cessione e licenza
Data la sua importanza nell’economia moderna, il marchio forma spesso oggetto di cessioni e, ancor più frequentemente, di licenze, configurandosi l’esclusiva come diritto del titolare di vietare ai terzi i comportamenti rientranti nella sfera di essa «salvo proprio consenso» (art. 20 c.p.i. e art. 9 RMC); ciò rende legittimi anche gli accordi di delimitazione, con cui si consente la convivenza di segni che potrebbero interferire con le rispettive esclusive (cfr. Cass., 19.4.1991, n. 4225, in Giur. ann. dir. ind., 1991, 77 ss. e Cass., 19.10.2004, n. 20472, ivi, 2005, che precisa che la legittimità di tali accordi non è esclusa neppure dalla potenziale perpetuità).
In coerenza col rilievo centrale che il divieto di inganno assume per i segni distintivi (v. supra, § 4), gli artt. 23 c.p.i. e 17 e 22 RMC prescrivono che trasferimento e licenza non devono dar luogo ad inganno nei «caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico»; quindi se le aspettative del pubblico sui prodotti o servizi per cui il marchio è usato sono legate al titolare originario o ad elementi aziendali non ceduti insieme ad esso, per evitare la nullità del negozio si deve render noto il mutamento, modificando il «messaggio» collegato al marchio.
8. Il marchio collettivo
Il marchio collettivo deve il suo nome al fatto che è destinato a essere usato da più soggetti indipendenti e si caratterizza perché prevede un regolamento concernente «l’uso … i controlli e le relative sanzioni» e perché la mancata effettuazione di detti controlli ne determina la decadenza (artt. 11, co. 1, e 14, co. 2, lett. c, c.p.i. e 65 e 71 RMC): proprio la garanzia dei controlli costituisce infatti oggi la specificità di questi marchi.
La disciplina di essi differisce da quella generale anche riguardo ai segni geografici, la cui registrazione come marchio collettivo è ammessa anche oltre i limiti previsti per i marchi individuali (artt. 64 RMC e 11, co. 4, c.p.i.), ma non impedisce ai terzi di far uso del nome geografico che ne forma oggetto purché in modo conforme alla correttezza professionale (artt. 11, co. 4, c.p.i. e 64 RMC). La disciplina del marchio collettivo geografico si coordina con quella delle denominazioni di origine (artt. 29 e 30 c.p.i.; in sede comunitaria queste sono oggetto del reg. n. 2006/509/CE e per i prodotti vitivinicoli del reg. n. 99/1493/CE), con cui ha oggi in comune la tutela contro ogni forma di agganciamento e il correlativo divieto di ogni uso ingannevole (Galli, C., Globalizzazione dell’economia e tutela delle denominazioni di origine dei prodotti agro-alimentari, in Riv. dir. ind., 2004, I, 60 ss.).
9. Il marchio non registrato e gli altri segni distintivi
Benché i segni distintivi diversi dal marchio registrato rientrino tra i diritti di proprietà industriale, non ne viene dettata dal c.p.i. una disciplina espressa, ferma l’operatività anche a loro favore dei rimedi cautelari e di merito di cui agli artt. 121 ss.
A questi segni si applicano quindi per analogia le norme sul marchio registrato che non siano derogate per singole categorie di essi o che dipendano dall’atto amministrativo della registrazione, come quella sulla rappresentabilità grafica, che risponde a esigenze di tutela dell’affidamento legate alla registrazione; per la stessa ragione l’acquisto di capacità distintiva attiene per questi segni alla stessa fattispecie costitutiva e non alla sanatoria di un’originaria invalidità, mentre il non uso li fa venir meno solo in quanto si protragga non per un tempo prefissato, ma per quello che in concreto ne fa perdere il ricordo. Anche l’ambito di protezione andrà determinato in base all’uso e alla notorietà conseguita (la cui prova va data da chi li voglia far valere) e potrà estendersi anche oltre il limite della confondibilità, alle condizioni di cui all’art. 20, co. 1, lett. c), c.p.i., com’è confermato dal fatto che alle stesse condizioni questi segni costituiscono anteriorità invalidanti (v. supra, § 6): ciò consente di invocarli contro il look-alike, ossia l’adozione non confusoria di confezioni, etichette o forme che richiamino quelle distintive del prodotto originale, pur senza imitarne i marchi registrati.
Nessun dubbio vi è anche sull’applicabilità ai segni diversi dal marchio registrato delle norme su cessione e licenza, già ammessa dalla giurisprudenza più risalente (cfr. Cass., 11.3.1975, n. 897, in Giur. ann. dir. ind., 1975, 26 ss.). Fanno eccezione la ditta, ossia il segno distintivo dell’impresa individuale, che si può trasferire solo con l’azienda cui inerisce o un suo ramo, se l’impresa ha più ditte per distinti rami d’azienda (art. 2573 c.c.), e l’insegna, segno distintivo dei locali ove l’impresa è esercitata (art. 2579 c.c.), ma non ragioni e denominazioni sociali delle società, per le quali il rinvio alla disciplina della ditta è limitato all’art. 2564 c.c., secondo cui la ditta confondibile va «integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla». Sempre per la ditta l’art. 2563 c.c. impone che vi sia incluso il nome o la sigla dell’imprenditore (salvo che per la ditta derivata: art. 2565 c.c.); è però protetta anche la ditta irregolare, ossia non contenente né l’uno, né l’altra.
Per i nomi a dominio di «siti usati nell’attività economica» (espressione che la riforma del 2010 ha sostituito a quella meno precisa di «nomi a dominio aziendali»), peculiare è solo l’art. 133 c.p.i., che disciplina il trasferimento anche in via cautelare dei domain names contraffattorî.
Segni distintivi sono anche i titoli delle opere dell’ingegno, in particolare dei periodici (v. Trib. Monza, 15.4.1997, in Giur. ann. dir. ind., 1997, 687 ss.), e le testate, disciplinati dagli artt. 100 e 102 l. 22.4.1941, n. 633, che li tutelano nel limite del pericolo di confusione.
10. La tutela penale
Sul piano penale gli artt. 473 e 474 c.p. puniscono con la reclusione e la multa la produzione e la circolazione di prodotti recanti «marchi o segni distintivi contraffatti o alterati». Per entrambi i reati si prevedono confisca (art. 474 bis c.p.) e una circostanza aggravante ove siano «commessi in modo sistematico ovvero attraverso l’allestimento di mezzi e attività organizzate» (art. 474 ter c.p.). Benché inquadrati tra i delitti contro la fede pubblica, questi reati sono plurioffensivi, in quanto bene giuridico tutelato è anche il diritto patrimoniale del titolare del segno imitato (Rossi Vannini, A., La tutela penale dei segni distintivi, in Trattato diritto penale dell’impresa, diretto da A. Di Amato, IV, Padova, 1993, 118). Quando il marchio non è registrato o non è ancora completata la registrazione (che costituisce la base della «pubblica fede») trova inoltre applicazione l’art. 517 c.p.
Tutte queste norme presuppongono la confondibilità, che però la giurisprudenza, dopo alcuni sbandamenti (Cass. pen., 23.2.2000, in Dir. ind., 2000, 109 ss., sulla liceità del «falso grossolano», sconfessata già da Cass. pen., 14.12.2000, in Riv. pen., 2001, 16), intende in senso ampio, includendovi anche la post-sale confusion (così Cass. pen., 17.3.2004, n. 12926, in Guida dir., 2004, fasc. 27, 58). Nelle ipotesi di contraffazione non confusoria di marchi registrati opera invece l’art. 517 ter c.p.
Fonti normative
Artt. 2563-2574 c.c.; artt. 100 e 102 l. 22.4.1941, n. 633; artt. 473, 474, 474 bis, 474 ter, 517 e 517 ter c.p.; d.lgs. 10.2.2005, n. 30 (c.p.i.); d.lgs. 13.8.2010, n. 131; dir. 21.12.1988 n. 89/104/CEE (ora dir. n. 2008/95/CE); reg. n. 2009/207/CE (già reg. n. 40/94/CE: RMC); TRIPs Agreement (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights, adottato a Marrakech nel 1994); reg. n. 2006/509/CE; reg. n. 99/1493/CE; Convenzione di Unione di Parigi;
Bibliografia essenziale
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