CANINI, Marco Antonio
Nato a Venezia nel 1822 da Giuseppe e da Lucrezia Gidoni, si era appena avviato agli studi giuridici, a Padova, quando gli avvenimenti rivoluzionari del 1848-49 lo allontanarono dall'università.
Qui aveva conosciuto N. Tommaseo, cui rimase legato sino alla morte, e che gli fu largo di aiuto e consiglio nell'attività filologica e letteraria. La stima e l'amicizia di questo per il C. - al di là delle successive dolorose vicende politiche - erano state cementate sin dal 1847da due fatti. Nel maggio di quell'anno, ricorderà il Tommaseo nel marzo del 1849, il C., "sdegnato delle irriverenze peggio che austriache le quali l'Università di Padova lasciava commettere verso le spoglie e la memoria del suo reggente magnifico e però verso se stessa, s'adoperò perché gli scolari ammendassero il fallo de' professori facendo esequie degne a quell'uomo onorando, a cui la povertà fu corona". Nell'autunno poi il C. aveva dato alle stampe a Firenze l'opuscolo in prosa e in versi Pio IX e l'Italia, dove auspicava il "risorgere glorioso di Venezia", che avrebbe inflitto agli Austriaci una sconfitta come quella subìta dai Turchi a Lepanto. Ed a Firenze si era fatto ricevere dal granduca, lo aveva esortato a oltrepassare "nel suo liberalismo tutti i principi italiani", spingendolo ad assumere la corona di un regno dell'Italia centrale, ma ne ricevette la realistica risposta che "Carlo Alberto porterà via tutto".
Arruolatosi fra i volontari toscani, accorsi in aiuto di Venezia insorta, servì nell'artiglieria e, quindi, quale "segretario dell'intendente dell'esercito veneto". Ma la sua pretesa, quale "diritto dei cittadini", perché ufficiali e sottufficiali venissero eletti dai soldati, chiaramente rivoluzionaria e non priva di spunti mazziniani, si scontrò col deciso rifiuto di D. Manin. Questi ne impose l'esonero da qualsiasi incarico militare, ma già ai primi del 1849 se lo trovava di fronte col giornale Il tribuno del popolo. Nel recepire le idee del primo socialismo francese alla Saint-Simon, il C. vi sosteneva "l'associazione del capitale, del talento e della man d'opera". Col Tribuno, con un "circolo popolare" creato nel rione operaio di Cannaregio e con un "circolo italiano", il C. osò - come ricorderà più tardi il 12 apr. 1868 al Tommaseo - "fargli opposizione, di sostenere il progetto della Costituente". Il Manin fu "inesorabile, implacabile": lo fece "chiudere in una prigione in compagnia di un assassino, alla Giudecca", additandolo come "demagogo emissario austriaco". Scontati due mesi di carcere, il C. (che nei Vingt ans d'exil, Paris 1868, si proclama "il primo socialista italiano, almeno il primo che sia stato perseguitato come tale") fu liberato e, subìto un altro arresto, alla fine fu espulso da Venezia. Si concludeva così il contrasto col Manin che, nelle condizioni di Venezia assediata dagli Austriaci, non senza ragione aveva detto al C.: "lei non capisce niente di politica".
Da questo momento, "dopo aver cercato di metter sossopra cielo e terra per dare alla patria occasione di liberarsi gloriosamente" (come scriverà al Tommaseo sempre il 12 apr. 1868 da Parigi), prese la dura, tormentosa via dell'esilio. La prima tappa lo condusse a Roma, dove - postosi a disposizione del triumvirato Mazzini, Saffi, Armellini - assumeva l'incarico di segretario della Commissione delle barricate. La fine della Repubblica romana segnò, anche per lui, il crollo momentaneo di tanti ideali, e non gli rimase altro che varcare il mare, "esule in libera terra greca", raggiungendo Atene nell'agosto.
Come scriveva da Atene al Tommaseo il 9 sett. 1849, "da Roma... dopo un mese di penosa navigazione, e mali fisici e morali così paurosi, che la memoria ancor dentro mi trema, mi sono rifugiato in questa città, dove e da privati e dal governo ebbi liete e generose accoglienze, ripresi l'arte mia di maestro di lingua francese, forse verrà per me istituita in questo ginnasio una cattedra di lingua italiana". Prima di partire da Roma aveva progettato con altri di recarsi in America e fondare una colonia italiana nel Texas; ma "il tempo breve, l'ansia della fuga, la poca unione, piaga italiana, ed altre cagioni" disperdevano quanti avevano pensato a tale iniziativa. Adesso, su suolo greco - solo ad Atene si trovavano oltre cinquecento emigrati italiani e polacchi, molti erano sparsi in altre parti del paese, e un certo numero si attendeva da Venezia, appena caduta - il C. prospetta l'idea di fondare a Corinto "una colonia italo-greca, agricola commerciale": "gli ostacoli sono molti, ma potranno essere tutti facilmente rimossi, quando - torna a insistere col Tommaseo - si possa superare quello della poca unione di noi Italiani nell'attuare una idea, peste nostra, origine di tante piaghe antiche e recenti, sanguinose, irrimediabili...". "Certo è poetico, grandioso, se non m'inganno, l'idea di far risorgere bimaris Corinthi moenia e rifare un anello fra Oriente e Occidente e ravvivare la diffusione della nostra influenza in Levante, dove purtroppo la influenza con la lingua francese invade ogni cosa". E questa immigrazione, specie degli esuli da Venezia, che "sono aspettati e desiderati molto", avvicinerebbe il giorno in cui "gli Italiani e i Greci uniti pianteranno il vessillo della libertà in Costantinopoli". Prospettiva grandiosa, tipica dell'utopismo degli esuli, ma tuttavia mirante a collegare la rivoluzione nazionale italiana con la "grande idea" panellenica di ricostituire l'Impero bizantino con centro Costantinopoli, che rimarrà sino a tempi recenti l'impegno di fondo di tutti i Greci.
Da Atene il C. si trasferiva a Sira, "arido scoglio", in una condizione morale e materiale spaventosa, vivendo con l'insegnamento delle lingue.
"Travagliato da malattie, straziato da dolori morali, senza consolazioni di famiglia, senza amori, qui senza libri; contristato da infamie di fratelli italiani: orribile vita" (al Tommaseo, 18 ott. 1851). E a Sira studia il greco, scrive poesie, fra cui quelle raccolte in Mente,fantasia e cuore (Atene s.d.), che invia al Tommaseo pregandolo di leggere "almeno il carme Ifratelli Bandiera e giudicare se io debba essere confuso nella turba dei verseggiatori, o sia veramente poeta". E come "su tutto l'Oriente ma qui soprattutto ora è molto negletto lo studio della lingua italiana, in parte a cagione della mancanza di buoni libri elementari", pubblica a Sira una piccola antologia italiana, una breve grammatica, seguita da un lessico italo-greco; altro intende pubblicare in seguito, e intanto, raccoglie con l'aiuto di un amico canti popolari greci, che saranno pubblicati in italiano nel 1856: "Ella vede dunque - scrive al Tommaseo sempre il 18 ott. 1851 - che io mi sono ingegnato e m'ingegno di fare onore con l'opere al nome italiano in terra straniera; poco ho fatto perché sono malato di corpo e d'animo e sprovveduto dei necessari mezzi di studio".
Verso la fine del 1851 o i primi del 1852 il C. si stabilì a Costantinopoli; qui prese a commerciare, spostandosi in particolare a Smirne e in altre parti dell'Asia minore, dove visitò le rovine di Troia, non senza leggere Omero. Ma la migliorata situazione economica e l'essersi sposato con Luigia Calegari di Ferrara e aver avuto un figlio non placarono la sua irrequietudine: nella primavera del 1853 era a Malta, raggiungendo poi Torino, ove visse di traduzioni, senza però riuscire ad avviare un dizionario italo-greco. La difficoltà di dedicarsi a un lavoro stabile fu all'origine del suo ritorno in Oriente, con centro a Costantinopoli, alla fine del 1853. Qui, nel corso della guerra di Crimea, tornò ad essere "professore, uomo di lettere, giornalista" inviando fra l'altro corrispondenze all'Opinione di Torino. Fece poi "il sensale, il dragomanno, il ritrattista, il medico, con avventure e pericoli da romanzo". E da Costantinopoli - nel ricordare un lontano scritto critico di C. Cattaneo sul Tentamen criticum del transilvano Augusto Triboniu Laurian, che lo aveva infiammato "del desiderio di visitare e di studiare" il popolo romeno - egli si volse dopo il 1856 verso i principati danubiani di Valacchia e Moldavia. Il C. ebbe modo di percorrere il paese in lungo e in largo, legandosi ad esso ed ai suoi uomini migliori con un affetto senza riserve; assisté così alle vicende politico-diplomatiche che condussero alla duplice elezione del colonnello A. J. Cuza a dômn nei due principati di Valacchia e di Moldavia (1858). Dopo questi primi inizi il processo di unificazione dei Romeni - vigorosamente sostenuto dal Cavour e dalla diplomazia sarda, come dalla Francia di Napoleone III - trovò nel C. una adesione incondizionata.
Da Bucarest, anch'egli si collocava nel solco di una tradizione culturale che, da uomini dell'epoca risorgimentale come il cardinale Mezzofanti, C. Cattaneo, D. Sestini, il Leopardi dello Zibaldone, ilVieusseux e il Tommaseo, A. Graf e G. Vegezzi Ruscalla sino a C. Correnti e ad altri, risaliva a umanisti come Enea Silvio Piccolomini o Poggio Bracciolini, nel considerare le terre e le genti del basso Danubio come un ramo staccato della latinità. Il C. pubblicava nel 1858 a Bucarest gli Studii istorice asupra originei natiunii rumâne, e giudicava il romeno un popolo vicino all'italiano per la comune origine latina; anche se più tardi, il 29 genn. 1884, nella Prolusione al corso di lingua rumena alla Scuola superiore di commercio di Venezia, riconoscerà di avere "scientemente" esagerato anche per difendere i Romeni dalle interpretazioni storiche degli Ungheresi, rimase costantemente fedele a questa impostazione. Sempre nel 1858 pubblicava a Iaşi un Inno alla Rumânia (seconda edizione, Bucarest 1858, con traduz. e introduz. in romeno) che si conclude così: "Ho sentito profeti bugiardi / bestemmiar "Rumânia morta giace" / ma chi disse quel detto è un mendace / Ella vive, ella grande sarà. / Se dai monti Poloni al Danubio /stringa un patto le genti vicine / e le miste entro un solo confine / leghi un nodo di santa amistà". Espressa qui (e in altri "carmi") in brutti versi, che rivelano però un vivo impegno civile, appare quella concezione politica che sarà svolta compiutamente in scritti successivi e lo accompagnerà sino alla fine dei suoi giorni: alleanza e collaborazione fra tutti i popoli del Danubio e dei Balcani, e fra essi e l'Italia, per mandare in frantumi le grandi cornici dinastiche e oppressive dell'Impero asburgico e di quello ottomano, con pieno rispetto reciproco di ogni singola entità nazionale.
A Bucarest il C. si proponeva di creare un "istituto filologico-scientifico-commerciale per l'educazione della gioventù", per la quale aveva raccolto sottoscrizioni. Quando il governo sardo - secondo il piano del Cavour di collegare lo sforzo bellico contro l'Austria nella pianura padana con una azione diversiva anche sul basso Danubio, d'intesa con i rivoluzionari ungheresi Kossuth e Klapka - cominciò a spingere il principe Cuza ad attaccare l'Austria in Transilvania, tanto da disporre l'invio di ventimila fucili, il C. non mancò di fare la sua parte: secondo rapporti del console austriaco a Bucarest K. Eder del 30 giugno 1859, egli si era messo in contatto con elementi rivoluzionari locali, raccogliendo fondi "um im Lande revolutionäre Propaganda zu machen", pubblicando anche a Bucarest (maggio-luglio, 1859) un Buletinul resbelului din Italia, poidivenuto Libertatea şi înfrăṭirea popolilar. Deluso però dai preliminari della pace di Villafranca (che per il momento segnavano la fine di ogni iniziativa cavouriana sul Danubio e nei Balcani), non esitò a scrivere sui fogli suoi e altrove (Naṭionalul)articoli contro Napoleone III. Di qui l'intervento del console di Francia a Bucarest, Béclard, presso il governo principesco contro il C., sino a ottenerne l'espulsione dai principati. Così, nell'ottobre 1859 - via Corfù e Malta - il "mazziniano" (Mazzinist) C. sidiresse verso gli Stati sardi.
Ai primi di novembre del 1859 il C. si stabilì a Milano. Fu una sosta relativamente tranquilla "in una vita tanto agitata"; vi era stato chiamato da Pacifico Valussi, anch'egli di origini mazziniane e ora direttore della Perseveranza, organo dei "moderati danarosi". Nel giornale aveva avuto il posto di redattore, col compito principale di fare la rassegna della stampa tedesca.
Per lui, mazziniano, garibaldino e rivoluzionario, si trattava di un bel sacrificio. "Alla redazione della Perseveranza" - scriveva al Tommaseo il 24 genn. 1860 - "sto mal volentieri per molte ragioni. Prima di tutto mi spiace d'imbrancarmi cogli aristocratici, coi moderati. Qui il compenso dell'opera mia attivissima di dieci e più ore al giorno (di giorno e di notte), senza tregua e riposo mai, è malissimo compensata...". "La coscienza di far opera fruttuosa cooperando a combattere l'Austria e ad affratellare la Germania e l'Italia, mi consola in parte della mia posizione anormale e del misero compenso alle mie fatiche". Ingiustamente polemico verso i consoli inviati dal Cavour nei Balcani (tutti di prim'ordine, come quel F. F. Astengo che a Belgrado fece molto bene, accattivandosi la fiducia e anche l'affetto del vecchio knez Miloš Obrenović e del figlio Michele) dai quali era stato osteggiato e temuto per la sua attività incontrollata di mazziniano irrequieto, il C. esprime il desiderio di avere "un posto diplomatico o consolare in Oriente: "ci starebbe bene un bravo italo-dalmata: si tratta di preparare in Serbia e nei Principati una alleanza fra gli Slavi, i Magiari, i Rômani contro l'Austria d'accordo col Regno italiano". Questa era del resto la chiara politica del Cavour, e il mazziniano C. costituisce così, come nessun altro più di lui, fisicamente, il punto di sutura fra l'iniziativa concreta, diplomatica e militare del Cavour e la lunga predicazione mazziniana di una collaborazione rivoluzionaria dello sforzo risorgimentale italiano con l'impegno di ascesa nazionale sul Danubio e nei Balcani.
Giusto dalle colonne della Perseveranza, contro ogni ottimismo o illusione mazziniana, dopo l'esperienza compiuta in Oriente il C. toccò responsabilmente con mano la difficoltà di definire un "limite" nazionale tra Italiani e Slavi meridionali, lui veneto, in una zona mista come il settore adriatico. Il 6 apr. 1860 - a seguito di precedenti intese di collaborazione strette a Milano - compariva sulla Perseveranza una corrispondenza dalla Croazia, datata da Zagabria, ma, in realtà, inviata da Parigi, del croato Eugen Kvaternik, uno dei maggiori esponenti dell'incipiente nazionalismo pancroato, che già pochi mesi prima aveva espresso le sue idee nello scritto La Croatie et la Confédération italienne (Paris 1859). Nell'articolo (che il C. aveva completamente "raffazzonato", moderato, sopprimendo talune espressioni troppo dure riguardanti i Magiari e la Repubblica di Venezia) si sosteneva che l'Isonzo dovesse diventare il confine tra l'Italia e la futura Croazia. Il C., come scriveva al Tommaseo l'8 apr. 1860, non aveva voluto far dire al Kvatermik "il contrario di quello che lo scrittore pensa sopra un tale importante argomento"; ma era stato pronto alla confutazione in dissenso e, in una nota redazionale sul giornale, aveva scritto: "A nostro parere, ecco la soluzione giusta e possibile. L'Italia nel secolo XIX debbe finire dove finiva al tempo dei Romani, come dice Dante, ... a Pola là presso il Quarnaro "che Italia chiude e i suoi termini bagna". All'interno i confini sarebbero da regolare secondo il principio etnico conciliato col geografico".
Ecco dunque definirsi per la prima volta nella primavera del 1860, ad opera del C. e del Kvaternik, quella che, nell'arco di circa un secolo, diverrà la polemica sulla "questione" adriatica, dalle vicende risorgimentali sino alla prima e alla seconda guerra mondiale. Il C. ebbe il merito di aver agito, in sede di pubblica opinione, da protagonista, recando nella spinosa questione un impegno morale e civile degno dell'insegnamento mazziniano. In questo senso non deve essere mancato il suo contributo, come quello di T. Luciani e del Solferini, se non altro come punto di vista responsabile, all'opuscolo del Valussi e di Costantino Ressman, Trieste e l'Istria e loro ragioni nella questione italiana. Pubblicato dal Comitato veneto centrale di Torino nel 1861(con successiva traduzione francese) e presentato ai due rami del Parlamento, esso individuava, in concreto, una "Istria veneta", occidentale (da capo Promontore sino al Monte Maggiore e al Tricorno), che doveva spettare all'Italia, "rinunziando noi a quella parte che sta oltre il Monte Maggiore".
Abbandonato il campo delle agitazioni nazionali incomposte e irresponsabili, il C., per la sua posizione alla Perseveranza, e sia pure a malincuore in "compagnia dei moderati perseveranti", era ormai inserito nel contesto delle iniziative di politica estera di Vittorio Emanuele e di Cavour. E al Cavour, cui era stato presentato dal conte Giulini, uno dei fondatori del giornale, nel marzo del 1860, si era proposto di recare un promemoria sulla "questione magiaro-romena-croata" (lettera al Tommaseo, Milano, 8 marzo 1860). Della questione aveva parlato a lungo col Kvaternik, a Milano, trovandosi con lui d'accordo circa l'impossibilità di giungere ad una intesa "per trattative pacifiche", perché i Romeni di Transilvania e i Croati "tendono i loro sguardi" a Bucarest e Zagabria, non certo a Pest. Ma per il C., come per il Mazzini dell'articolo Dell'Ungheria pubblicato nella Giovine Italia del 1832, o per lo stesso Cavour, e almeno sino al 1866, l'Ungheria rimaneva il punto di forza di qualsiasi impegno insurrezionale e organizzativo che collegasse i popoli soggetti dell'Europa danubiano-balcanica contro l'Austria e contro la Turchia. Per questo i contatti di collaborazione con gli esponenti dell'emigrazione ungherese, specie Kossuth, Klapka, F. Pulszky, Türr, ecc., furono intensi, trattandosi dell'unica forza, insieme con i Polacchi, realmente rivoluzionaria su cui poter contare. Da questa collaborazione nacque il Programme d'une confédération du Danube che, con l'appoggio incondizionato dello stesso Garibaldi, il C. giunse a formulare insieme al Kossuth, al generale Klapka e a F. Pulszki.
Il "programma", datato da Torino il 15 apr. 1862, fupubblicato il 18 maggio sul giornale ungherese di lingua italiana L'Alleanza di Milano. La confederazione, da attuarsi dopo la vittoria sull'Austria e diretta a superare i contrasti nazionali, avrebbe dovuto stringere insieme l'Ungheria, la Romania, la Serbia, la Transilvania, la Croazia, la Slavonia e la Dalmazia, con organi federali, la difesa, la politica estera, le dogane, la moneta, le comunicazioni in comune.
Quale premessa per una futura azione che, con alla testa Garibaldi, si volgesse dall'Italia meridionale verso i Balcani, la Legione ungherese ancora di stanza a Napoli (dove il C. si era trasferito ai primi del '62 collaborando al Popolo d'Italia) non doveva essere disciolta; a questo fine giusto da Napoli il 25 maggio 1862 il C. insisteva col generale Klapka perché si recasse nel Sud e facesse valere tutto il peso del suo prestigio.
Da Napoli, alla fine del maggio, il C. partì per la Grecia, altro punto di forza su cui da anni puntava. Già il Cavour sin dal 18 sett. 1860 - forse non senza ispirazione del C. - aveva scritto a Marcello Cerruti, inviato ministro residente a Costantinopoli, che "l'Italia sarebbe certo lieta di veder risorgere e grandeggiare mercé un nuovo impero bizantino la sua sorella primogenita di civiltà". E verso la Grecia, morto il Cavour, si diresse la politica "segreta", personale e dinastica, di Vittorio Emanuele II, che ebbe nel C. uno degli agenti più attivi e spericolati. Giusto il C., insieme con un altro mazziniano, Carlo Saltara di Ancona, aveva contribuito presso Cavour, T. Mamiani, ministro d'Italia ad Atene, e poi presso lo stesso Vittorio Emanuele, a lanciare l'idea di detronizzare il re degli Elleni Ottone di Wittelsbach, per sostituirlo col figlio secondogenito del re d'Italia, Amedeo. Di qui la missione segreta affidata dal re al C., in Grecia e nella più vasta area balcanica, nell'intendimento di collegare il problema veneto con tutta la questione d'Oriente.
Giunto ad Atene, e preso contatto con i patrioti greci, come il numismatico Paulos Lampros, l'ammiraglio Miltiades Kanaris e Spiridione Malakis, inviò lettere a Vittorio Emanuele e a Garibaldi sconsigliando la spedizione garibaldina nell'Epiro e verso il Montenegro (per la quale aveva fatto da quelle parti sondaggi il colonnello garibaldino F. Cucchi pochi mesi prima, riferendone a Garibaldi). Ma di lì a poco, il 15 luglio 1862, l'inopinato volgersi di Garibaldi verso Roma e, quindi, l'Aspromonte segnavano una battuta d'arresto anche ai propositi velleitari di Vittorio Emanuele verso la Grecia, da lui invano ripresi (e contrastati dal ministro degli Esteri, G. Durando), ancora nell'ottobre, dopo il pronunciamento militare che sbalzava dal trono il re Ottone.
Il C., sempre colpito dal bando del 1859, alla fine del giugno 1862 riuscì tuttavia a raggiungere i Principati, sotto la veste di ispettore della Grande Compagnia italo-orientale di Genova, incaricato di stabilire una linea di navigazione regolare fra l'Italia e il Basso Danubio. Sempre considerato indesiderabile dal principe Cuza, vi si trattenne poco. Riuscì tuttavia - segnalato con preoccupazione dal console austriaco a Bucarest Eder e seguito con diffidenza dal console italiano A. Strambio - a prendere contatto con personalità romene, fra cui C. A. Rosetti, gettando le basi per una società italo-romena. Da Bucarest il C. raggiunse il 25 luglio 1862Belgrado, con lettere di Kossuth e Klapka per il principe Michele Obrenović e il ministro degli Esteri I. Garasanin. Qui si mise in urto con l'esponente della politica ufficiale il console generale S. Scovasso, apertissimo sostenitore della politica della Serbia quale "Piemonte dei Balcani". Questi finì per metterlo alla porta. Il C., dopo due colloqui col Garašanin, gli rimise un promemoria il 17agosto ma non riuscì a farsi ricevere dal principe Michele, cui fece pervenire altro promemoria in data 7 settembre. In questi scritti esortava i dirigenti serbi ad una intima collaborazione con i rivoluzionari ungheresi, affermando che anche i Croati (cosa non vera, a giudicare dalle prese di posizione del croato I. I. Tkalac su Ost und West contro l'idea di una confederazione danubiana) erano d'accordo con i Magiari; in questo modo "la question d'Orient trouverait sa solution naturelle et des puissants états s'éléveraient sur les ruines de l'Autriche et de la Turquie".
Rientrato in Italia nel novembre del 1862, dopo nuove avventure fra gli Zingari del Basso Danubio e aver fondato a Bucarest una effimera Società italo-romena non riuscì a farsi ricevere da Vittorio Emanuele, cui alla fine fece pervenire un rapporto, datato 22 dicembre 1862, "sulla questione orientale nelle sue relazioni con l'Italia", la quale "dovrebbe nella questione d'Oriente avere una politica propria".
In esso, premesso che l'Austria e la Turchia "debbono o insieme cadere o sussistere insieme", quale soluzione "italiana" di tale "questione austro-turca" il C. indica "l'alleanza" e la "contemporanea azione rivoluzionaria dei popoli interessati allo scioglimento della questione": "alleanza fra gli Ungheresi, i Serbi-Croati, i Greci-Albanesi e gli Italiani". Di qui l'opera di mediazione degli Italiani, che devono anche adoperarsi ad armare quei popoli, appoggiandosi piuttosto all'Inghilterra che alla Francia. Il C. continua a puntare soprattutto sui Magiari e sui Greci, pensa che i Bulgari debbano far parte, per il loro settore a sud dei Balcani, di uno Stato greco, mentre quelli a nord dovrebbero costituire uno Stato facente parte della confederazione danubiana; stranamente, "è impossibile" per lui la formazione di una grande Romania, e così quella "di un grande stato slavo-meridionale. Se si formasse sarebbe un danno d'Italia". Tornava dunque insistente, in lui veneto, la preoccupazione per la questione adriatica, se nel 1863, nello scritto pubblicato ad Atene in lingua greca La Grecia e la Serbia. L'Italia e l'Inghilterra in Oriente, egli sottolineava che (non diversamente che in Macedonia e in Grecia dove coabitano Greci e Slavi) anche nelle zone miste di Italiani e Slavi meridionali al di là dell'Isonzo si ponevano gravissimi problemi e la soluzione era una sola: "Tutte le nazioni sono degne di rispetto e i loro diritti sono sacri. I confini di stato delle future nazionalità saranno definiti secondo principî politici e geografici". Ed ancora il 1º maggio 1879tornerà sull'argomento con P. S. Mancini, affermando che se "i confini dell'Italia saranno un giorno stesi sino al Monte Maggiore", allora "converrà accordare agli Slavi che saranno ad essa uniti degli speciali diritti, tutelare quella minoranza, la quale avrebbe ragione di pretendere di non essere interamente confusa colla maggioranza degli italiani".
L'epilogo della politica "segreta" di Vittorio Emanuele, la rinunzia dell'Italia ormai unita all'impegno, scoperto a favore della rivoluzione nazionale europea fecero uscire il C. dalla scena politica responsabile. Auspicava ancora, è vero, un collegamento degli Italiani con i Polacchi insorti, passando "per le Alpi, per l'Ungheria e per i Carpati" (lettera al Tommaseo, Torino, 7 maggio 1863); ma le informazioni giunte a Torino nell'ottobre da un emissario inviato in Galizia, Baldassarre Pescanti, come la prudenza suggerita ai rivoluzionari ungheresi dal principe Augusto Ruspoli che riferiva a Vittorio Emanuele, fecero escludere, a Torino, di poter collegare la rivoluzione polacca del 1863-64 con uno sforzo italiano contro l'Austria per la Venezia. L'8 dic. 1863 il C. si limitò a inviare un messaggio "Ai patrioti della Serbia e dell'Ungheria", esortandoli a prepararsi.
A Torino, sempre tallonato dall'indigenza, il C. continuò a mantenere rapporti con i rivoluzionari ungheresi, soprattutto con Kossuth e con Klapka. Avendo sentito dire che anche in Boemia si era costituito un comitato rivoluzionario segreto, esortava Klapka, a Parigi, perché prendesse contatti opportuni col ceco Josef V. Frič (che giusto nel 1863 aveva dato vita all'organizzazione, nazionale e rivoluzionaria, di ispirazione mazziniana, "Gli Eredi"): "nous aspirons à faire de notre journal le moniteur de la révolution des peuples soumis au joug de l'Autriche" (lettera a Klapka, Torino, 28 dic. 1863: Arch. di Stato di Budapest, Fondo Kossuth).
Non risulta che fra il 1864 e il 1866 il C. abbia avuto alcuna parte nei progetti, in vista di una guerra contro l'Austria per il Veneto, fra la diplomazia italiana (E. Visconti Venosta, il segretario generale agli Esteri M. Cerruti, I. Artom, C. Nigra, ecc.), l'emigrazione ungherese (Kossuth, Klapka, ecc.) e il croato Imbro I. Tkalac, di un'azione insurrezionale dalla Dalmazia sino all'Ungheria, in concomitanza con uno sbarco di Garibaldi. Scoppiata la guerra del 1866 il C. partì volontario con Garibaldi, prestando servizio dal 22 giugno al 22 settembre quale sottocommissario di guerra aggiunto nel Corpo volontari italiani. Amaramente si lamenterà da Parigi il 12 apr. 1868 col Tommaseo: "quanti di quegli ex Commissari si trovarono ridotti al verde alla fine di febbraio 1867? Credo pochi o nessuno" (Firenze, Bibl. nazionale, Fondo Tommaseo, cassetta 187, n. 7).
Dopo essere ritornato a Torino, nell'autunno del 1860 andò a stabilirsi a Parigi. Qui, sempre confortato dalla stima e dall'amicizia del Tommaseo ("Non posso, del resto, vedere senza meraviglia com'Ella scriva più lingue cogliendo la proprietà di ciascuna assai volte; e però tanto più vivamente desidererei che il suo ingegno si volgesse alle cose filologiche tutto, le quali hanno più che non paia sulle civili efficacia", questi gli scriveva da Firenze il 4 dic. 1868), si dedicò prevalentemente a studi filologici e letterari. Già nel 1865 aveva pubblicato a Torino in due volumi l'Etimologico dei vocaboli italiani di origine ellenica con raffronti ad altre lingue, suscitando severe critiche da parte di G. Ascoli, cui il C. aveva risposto polemicamente. Fra l'altro, anticipando di oltre un trentennio i progetti per una ferrovia transbalcanica, in quest'opera affacciava l'idea di una ferrovia da Valona a Salonicco e di lì a Costantinopoli: con essa "si porterebbe inoltre verso l'Italia il commercio di tutte quelle regioni, mettendo le sponde del Mar Nero alla distanza di trenta ore dalle italiane e la Jonia" (I, p. XXIII nota I). A Parigi mise mano all'edizione francese dell'Etimologico, che comparirà nel 1882 come Dictionnaire étymologique, con sottoscrittori L. Kossuth, Türr, i greci di Venezia col console e l'archimandrita, greci di Atene e di Trieste, ecc. A Parigi pubblicava, nel 1868, Vingt ans d'exil, in cui ripercorreva, in modo romanzato e non preciso, le tappe del suo lungo peregrinare in Oriente. Dopo un breve soggiorno a Londra, tornò a Parigi, all'epoca della Comune, ed essa gli ispirò le "odi saffiche" Parigi nel maggio del 1871 (pubblicate con traduz. francese nel 1871; "ricorrette e in parte rifatte", in seconda edizione, Milano 1874, n. 29 del giornale La Varietà), animate da un sofferto senso di pietà per le vittime e per le distruzioni.
La crisi d'Oriente del 1875-78 lo trovò, ormai anziano, pronto a battersi "per la santa causa dei popoli oppressi dai Turchi", presentando al presidente del Consiglio A. Depretis, insieme con alcuni parlamentari, un "indirizzo a favore dei Serbi e degli altri popoli dell'Oriente". Intendeva anche raccogliere fondi e promuovere la partenza di volontari - reclutati fra internazionalisti e garibaldini - che effettivamente muoveranno alla spicciolata, auspice Garibaldi, giungendo a costituire la maggiore formazione o četa straniera sul fronte della Drina.
In rapporto a questi avvenimenti il C. scriveva allo scrittore e uomo politico serbo raguseo Matija Ban, il 29 nov. 1876, che sarebbe stato opportuno che l'Austria "prendesse in mano la causa degli Jugo-slavi e diventasse una potenza magiaro-slava..., invece la preponderanza della Russia mi sembra pericolosa per la libertà degli Jugo-slavi, minacciosa per la libertà dell'Europa". Nello stesso tempo, il C. si offriva di presentare a un impresario milanese, perché venissero rappresentati, due drammi del Ban, Marta Posadnica ili Pad Velikog Novgoroda e, probabilmente, Milijenko i Dobrila (Belgrado, Državni Arhiv, Carte Ban, lettere del C. a Ban, Milano, 8 e 20 ottobre; Venezia, 29ottobre; Torino, 29 nov. 1876).
Alla fine del 1876, ottenuto l'incarico di inviato speciale sul fronte di guerra dal Pungolo di Napoli, il C. partì per i Balcani. Dopo aver contribuito a organizzare a Belgrado una formazione di volontari, composta da garibaldini italiani, serbi di Ungheria e da croati, raggiunse Bucarest, dove il 21 maggio 1877 assisté alla proclamazione dell'indipendenza romena. Si diresse quindi verso il quartier generale del principe di Romania Carlo di Hohenzollern. Nelle centoventi "lettere" al Pungolo dal fronte turco-romeno, oltre che un esatto quadro politico della guerra, il C. offrì un efficace resoconto dei combattimenti, specie dell'ultimo, quello contro il campo trincerato turco di Plevna, dove "la condotta dei Rumeni fu eroica; essi si mostrarono degni discendenti degli antichi nostri coloni...".
Rientrato in Italia alla fine del 1877, tornò a Bucarest nell'estate del 1878 con uno scopo preciso: "proposer une colonisation italienne de la Dobrudja", per condurvi almeno una parte dei cinquantamila italiani" "qui tous les jours quittent leur pays pour se rendre en Amérique" (Bucarest, Bibliot. Academii R.P.R., Fondo M. Kogălniceanu, lettera del C. a V. Alecsandri, Bucarest, 5 sett. 1878). Tornato poi in Italia alla fine del 1878, insisté ancora per lettera ai primi del 1879 sull'idea di una colonizzazione italiana della Dobrugia, e auspicava l'emancipazione degli Ebrei romeni (ibid., lettera a Kogălniceanu, Roma, 18 febbr. 1879); non esitava quindi a criticare i Romeni per la soluzione data alla questione ebraica (La vérité sur la question israélite en Roumanie, Paris 1879; anche in Nuova Antologia, 16 ag. 1879, pp. 706 ss.). I problemi lasciati aperti dal congresso di Berlino, con quanto di instabilità recavano nella tormentata penisola balcanica, preoccupavano non poco il C. che fra il 1879 e il 1883 riproponeva soluzioni federalistiche.
In un promemoria al ministro degli Esteri P. S. Mancini del 1º maggio 1879 su La questione dell'Epiro, come nello scritto Gli albanesi e l'Epiro, Roma 1879, egli suggeriva: "o formare degli staterelli intermedi fra Stati maggiori e ad essi collegati da vincoli federali o, se si dividono fra Stati limitrofi quei paesi di nazioni miste, stabilire delle condizioni che garantiscano i diritti delle minoranze". Una prospettiva, quest'ultima, moderna e realistica, confermata dalle vicende europee successive alla prima guerra mondiale. Per la questione dell'Epiro il C. avrebbe voluto che esso andasse alla Grecia con garanzie nazionali e culturali per gli Albanesi. Contrario al panslavismo e all'Austria, propose una "Lega greco-albanese", (vigorosamente respinta più tardi nel 1886 dall'italo-albanese G. De Rada sulle pagine del Fiamuri Arbërit. La Bandiera dell'Albania di Cosenza), sostenuta dall'Italia, che era destinata a essere il "primo nucleo della confederazione orientale"; in essa avrebbe dovuto inserirsi una "Unione elleno-latina", per la cui attuazione il C. si recò in Grecia nel febbraio 1881, rimanendo però deluso per l'inerzia del paese. Non si arrese, e a Roma, nel settembre 1881, dette vita ad un "Comitato filellenico centrale italiano" (insieme con Pietro Cossa, L. Pianciani, Eugenio Popovich ed altri), dopo che già nel novembre 1880 aveva espresso al presidente del Consiglio Depretis l'idea di raccogliere volontari per la Grecia.
Ormai il C. era alle ultime battute di una lunga presenza di agitazione nazionale nei Balcani. Pur nel clima della Triplice Alleanza, la sua dura, tenace lotta all'Austria continuò: da Venezia, dove si era trasferito e dove passerà gli ultimi anni della sua esistenza tormentata, non esitò ad attaccare la politica italiana, considerandola troppo favorevole all'Austria nella questione della navigazione danubiana (L'unione elleno-latina, Venezia 1883); né poteva non giungere da lui l'ode Inmorte di Guglielmo Oberdank (ibid. 1883), mentre nello scritto Il confine orientale d'Italia (ibid. 1883) esprimeva la preoccupazione per la futura gravitazione della Germania "sull'Adriatico e alle porte di Udine".
A partire dal 1884 il C. ebbe l'incarico di insegnare la lingua romena alla scuola superiore di commercio di Venezia. Ultima sua fatica letteraria, tipicamente romantica, sono i due volumi stampati a Venezia nel 1887 con il titolo Illibro dell'amore. Poesie italiane raccolte e straniere raccolte e tradotte, ancor oggi di notevole interesse. Stava preparando un'altra antologia, Illibro della Patria, cui avrebbe fatto seguito quello della Fede, quando la morte lo colse a Venezia il 12 ag. 1891.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. del Ministero degli Esteri, Rapporti Grecia,Serbia,Rumania, 1862 e ss.; Firenze, Bibl. nazionale, Fondo Tommaseo, cassette 186, 187; Roma, Museo centrale del Risorgimento, b. 546, f. 14; Ibid., Carte P. S. Mancini, b. 636, f. 14 (3); Trieste, Museo civico di storia ed arte e del Risorgimento, Carte E. Popovich;Archivio di Stato di Torino, Archivio Intendenza militare del Corpo volontari italiani nel 1866;Milano, Museo del Risorg., Raccolta A. Bertarelli;Bucarest, Bibl. Academii R.P.R., Sectia de Corespondenţa, Fondo Kogălniceanu;Belgrado, Državni Arhiv Srbije (Archivio di Stato della Serbia), Fondi Garašanin e Matija Ban;Vienna, Oesterreichisches Staats archiv, Actes de Haute Police (K.61), 1862; Ibid., Informationsbüro,BM - Akten, Gr. Zi. 7267, I. B. 1865, fasc. 360; Budapest, Orszagos Levéltar (Archivio di Stato), Fondo Kossuth. Dei moltissimi scritti del C., per gran parte citati nel testo, fondamentale è Vingt ans d'exil, Paris 1868 (2 ediz., ibid. 1869). Si veda inoltre: I documenti diplomatici italiani, s. 1, II, a cura di W. Maturi, Roma 1959, ad Ind.;F. Donaver, Uomini e libri, Genova 1888, ad Ind.;A.S., De Kiriaki, Ricordi e memorie, Venezia 1886-1892, ad Ind.;A.Roux, M. C. et le "Libro dell'Amore", in Revue intern., XXVII(1890), pp. 255-263; N.Jorga, Un précurseur de la confédér. balkanique, in Bull. de la Séction historique de l'Acad. roumaine, II (1913), pp. 43-56; Id., Un pensatore politico italiano all'epoca del Risorgimento,M. C.,ibid., XXII (1938); anche in Atti del XXIV Congr. di storia del Risorg. [Venezia, 10-14 sett. 1936], Roma 1941, pp. XXI-XXVIII); G. Brognoligo, La cultura veneta, in La critica, XXIV (1926), pp. 276 ss.; C. Kerofilas, La Grecia e l'Italia nel Risorg. italiano, Firenze 1919, passim;A. Marcu, Romantici italieni si Romanii, in Memoriile Sectiuni liter. Acadamia Romania, s. 3, II (1925), pp. 99-112; Id., Conspiratori si conspirati in epoca renastereii politice a Romaniei, Bucarest 1930, ad Ind.;W.Maturi, Le avventure balcaniche di M. A. C. nel 1862, in Studi storici in on. di G. Volpe, Firenze 1958, II, pp. 561-643; A.Tamborra, Cavour e i Balcani, Torino 1958, p. 405; Id., Imbro I. Tkalac e l'Italia, Roma 1966, p. 357; Id. La crisi balcanica del 1885-86 e l'Italia, in Rass. stor. del Risorg., LV (1968), pp. 371-396; G. Gambarin, Ilgiornale "S. Marco", in Archivio veneto, s. 5, LXXIV (1964), pp. 43-68.