FÉ, Marco Antonio
Nacque a Brescia il 12 nov. 1762 da Giambattista e Lodovica Ostiani, ultima discendente di nobile famiglia bresciana, il cui cognome fu aggiunto successivamente al proprio dalla famiglia Fé.
La famiglia, originaria di Cremona, si era trasferita a Brescia al principio del sec. XV ed era stata ascritta a quel patriziato nel 1556 (A. A. Monti della Corte, Le famiglie del patriziato bresciano, Brescia 1960, p. 39), confermandosi poi sempre, per ricchezza e presenza nelle cariche, tra le più importanti della città.
Il F. ebbe un'accurata educazione, prima nel collegio "Cicognini" di Prato e poi in quello barnabita di Bologna. Del periodo bolognese rimangono manoscritti un trattato di metafisica e uno De iure naturali, datati 1779 e 1780 (Brescia, Bibl. civica Queriniana, Mss. H.VII.1): pur trattandosi di tipiche opere studentesche, hanno una loro importanza in quanto sono le sole del F. di cui si abbia conoscenza.
Conclusi gli studi, rientrò in famiglia a Brescia. Compì quindi, secondo il costume nobiliare dell'epoca, alcuni viaggi, dei quali peraltro nulla si sa se non che nel 1789 era a Parigi, ove ebbe modo di assistere all'apertura degli Stati generali (Zambelli, p. 13): probabilmente maturò in questa circostanza le simpatie, mai più abbandonate, per le idee moderate che animarono i primi mesi della Rivoluzione francese.
Il 22 ag. 1791 fu ammesso quale cavaliere nell'Ordine di Malta e sposò quindi Ippolita Martinengo, anch'essa di famiglia patrizia, dalla quale ebbe sei figli.
Nel 1797 si impegnò, unitamente al fratello Nicola, nelle vicende rivoluzionarie bresciane, il cui carattere moderato e sostanzialmente antiveneziano raccolse l'adesione di numerosi giovani esponenti dell'aristocrazia cittadina: il suo nome compare tra i membri della Società d'istruzione ed egli fece anche parte di quel governo provvisorio nel comitato di Finanza, mantenendo peraltro un atteggiamento abbastanza schivo, come dimostra il sostanziale silenzio su di lui delle numerose cronache che narrano le vicende di quei giorni.
Ricordando nel 1819 il comportamento tenuto dal F. in quella circostanza, la polizia austriaca ammetteva che egli "non accettò quest'impiego che per adoperarsi in favore dei suoi concittadini, e si tenne sempre lontano dal fanatismo" (rapporto Raab del 5 dic. 1819, in Vienna, Haus-Hof- und Staatsarchiv, Vertrauliche Akten, b. 53 CLX).
Il radicalizzarsi delle posizioni politiche che fece seguito all'ingresso di Brescia nella Repubblica Cisalpina convinse il F. ad astenersi da qualsiasi forma di partecipazione attiva o di impegno negli apparati di governo.
Il suo atteggiamento mutò invece completamente, quando alla Cisalpina successe la più moderata Repubblica Italiana. Infatti il F. aveva, ancora sul finire del 1801, rinunciato alla nomina tra i delegati cisalpini ai Comizi nazionali in Lione (sostituito dal concittadino Gaetano Maggi); quando, con l'organizzazione del nuovo governo il vicepresidente Francesco Melzi d'Eril gli chiese di assumere l'impegno di dirigere una prefettura, egli accettò immediatamente.
La prontezza con la quale il F. si rese disponibile a un incarico amministrativo di tale impegno, al quale era sostanzialmente impreparato, non deve stupire: la richiesta gli era infatti pervenuta dallo stesso Melzi, nella cui linea politica egli si riconosceva appieno. Infatti il F. condivideva col vicepresidente la linea di moderata accettazione delle idee della Francia postrivoluzionaria introdotte dal nuovo corso napoleonico, come pure riconosceva la necessità del superamento di tante vecchie rigidità istituzionali e sociali se si aspirava a forme di autonomia politica in un ambito che superasse l'ormai anacronistico spazio della piccola patria cittadina.
Così il 26 apr. 1802 il vicepresidente poté decretare la nomina del F. a prefetto del dipartimento dell'Alto Po (Cremona), riconoscendogli il merito, benché "riche et noble [e] quoique étranger aux places publiques", di essere stato "le premier à donner l'exemple" accettando la carica prefettizia (rapporto del Melzi a Napoleone, allegato a una lettera in data 31 marzo 1805, in I carteggi di Francesco Melzi d'Eril duca di Lodi, a cura di C. Zaghi, VII, Milano 1964, p. 444).
II F. accettò la carica amministrativa solo alla condizione di poter portare con sé a Cremona il fidato amico e concittadino Francesco Torriceni (che sarà, nella carica di delegato provinciale, uno dei migliori funzionari del Lombardo-Veneto della Restaurazione), che ottenne così, a seguito di ripetute insistenze, la nomina a luogotenente di prefettura. Del resto il F., consapevole della propria inesperienza amiministrativa, sapeva quanto gli fosse necessaria l'assistenza di una mano capace e affidabile, cui commettere "gli affari di maggiore rilievo, e riservatezza" (lettera del F. al ministro dell'Interno, in data 28 ott. 1802, in Arch. di Stato di Milano, Uffici regi, p. m., b. 657). La circostanza gli verrà anche rimproverata a livello di governo, ove si giudicava con sospetto "l'influenza sul di lui animo [del] luogotenente amministrativo" (rapporto del segretario del ministero dell'Interno, G. Sormani, in data 4 maggio 1804, Ibid., Vicepresidenza Melzi, b. 45), ma è indubbio che nel periodo in cui il F. occupò la carica di prefetto, fosse o non fosse per l'appoggio del Torriceni, si seppe disimpegnare con buoni risultati. Peraltro, a dimostrazione della scarsa adattabilità a un incarico di tale intensità e responsabilità, egli cominciò ben presto (non appena gli parve che la macchina amministrativa della Repubblica Italiana fosse ben avviata e che dunque il suo impegno diretto a sostegno del nuovo sistema non fosse più così necessario) a richiedere le dimissioni che ottenne finalmente il 1º marzo 1804.
Da quel momento in avanti il F. non accettò più di occupare alte cariche amministrative. Infatti rifiutò nel 1805 la nomina a consigliere uditore nel Consiglio di Stato del nuovo Regno d'Italia (posizione che sarà invece accettata, l'anno successivo, dal fratello Nicola), carica che lo avrebbe obbligato a frequenti e lunghe permanenze a Milano. Peraltro, a dimostrazione di come continuasse a riconoscersi nello Stato itafico, accolse sempre con favore i riconoscimenti e gli onori di cui venivano insigniti i "notabili" da quel governo. Così, dopo essere stato ascritto sin dal 1802 al Collegio elettorale dei possidenti, accettò a due riprese (nel 1806 e nel 1810) di presiedere il gruppo degli elettori possidenti del dipartimento del Mella (Brescia). Prescelto nel novembre 1804 tra i membri della deputazione italiana che doveva recarsi a Parigi per l'incoronazione di Napoleone, nella capitale francese fu insignito, il 7 genn. 1805, della Legion d'onore. Il 7 febbr. 1810 ottenne la nobiltà napoleonica, col titolo di conte, e nel maggio 1811 fu di nuovo a Parigi per il battesimo del re di Roma.
Mentre otteneva le più alte onorificenze, il F. viveva tranquillamente nella sua città o, spesso, nella prediletta villa di Ovanengo, dedicandosi alla famiglia e all'amministrazione dei vasti beni fondiari, estesi sia nel Bresciano sia nel Cremonese. Nel contempo, come si conveniva al suo rango sociale, occupava cariche anche nelle istituzioni assistenziali bresciane, affiancato, in ciò, dall'impegno della moglie. Quando dopo il 1807 vi fu la riorganizzazione generale del sistema assistenziale, il F. fu prescelto naturalmente a membro della congregazione di Carità.
Alla conclusione dell'esperienza napoleonica il F., a conferma delle convinzioni politiche che sempre l'animavano, si uni alla delegazione Confalonieri, recatasi a Parigi nella speranza di poter convincere gli alleati a non procedere allo smembramento del Regno Italico. In effetti egli poté raggiungere i compagni di missione solo con qualche ritardo, a causa di un incidente di viaggio (lettera di F. Confalonieri alla moglie Teresa, in data 14 maggio 1814, in Carteggio del conte Federico Confatonieri ed altri documenti spettanti alla sua biografia, a cura di G. Gallavresi, I, Milano 1910, p. 124), ma prese comunque parte agli inconcludenti colloqui.
Con la Restaurazione rientrò a Brescia, senza nulla mutare del suo consueto schivo atteggiamento. Continuò infatti a rifiutare gli incarichi cui veniva chiamato: cosi il 6 febbr. 1816 rinunciò alla nomina a deputato nobile della Congregazione generale dello Stato (presumibilmente, in questo caso, dopo avere però accettato in un primo tempo la nomina, se è vero che si conserva il suo giuramento quale deputato, in data 26 genn. 1816, in Arch. di Stato di Milano, Uffici regi, p. m., b. 523), e ancora nel 1822 faceva sapere di non essere disponibile a un'eventuale nomina nella Congregazione provinciale. Seguitò invece a ricoprire cariche civiche, quali quelle di membro del Consiglio comunale (di certo ne è parte nel 1822) o di enti assistenziali, conservando un indiscusso prestigio e influenza nelle vicende politiche bresciane.
Anche negli anni della Restaurazione non vennero meno le simpatie politiche che aveva manifestato negli anni precedenti, tant'è che fu sempre guardato con sospetto dal governo austriaco e schedato da quella polizia, benché il comportamento costantemente riservato non dovesse mai dare luogo a provvedimenti nei suoi confronti.
È del tutto esagerata l'affermazione secondo cui fosse direttamente coinvolto nella preparazione della congiura che portò tra il 1822 e 1823 al processo contro trentatré patrioti bresciani, e che solo l'arresto delle indagini voluto da A. Salvotti nel 1823 gli avesse tolto "l'esperienza diretta delle carceri austriache" (U. Baroncelli, Dalla Restaurazione all'Unità d'Italia, in Storia di Brescia, IV, Brescia 1961, p. 158). In effetti vi fu una rchiesta di informazioni sul suo conto commessa al delegato provinciale di Brescia, G. Brebbia, che però ebbe modo di rassicurare i superiori, descrivendo il F. come persona di eccellenti qualità morali, che "gode meritatamente molto concetto nel pubblico, e specialmente nella classe dei signori", anche se lo stesso delegato non poteva esimersi dal segnalare che "le sue politiche opinioni ed i suoi voti sono certamente per la così detta indipendenza d'Italia" (rapporto del 12 febbr. 1823, in Arch. di Stato di Brescia, Imperial Regia Delegazione - Alta polizia, b. 4182).
Il F. morì di colera a Brescia il 16 marzo 1836.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Uffici regi, p. m., bb. 140, 523, 657; Arch. di Stato di Brescia, Imperial Regia Delegazione - Alta polizia, b. 4182; P. Zambelli, Orazione funebre in comm. del nobile conte M. F., Vigevano 1873; F. Coraccini [G. Valeriani], Storia dell'amministrazione del Regno d'Italia, Lugano 1823, p. LXXXV; F. Gambara, Ragionamenti di storia bresciana, Brescia 1839, V, pp. 169-174; T. Casini, Di alcuni cooperatori ital. di Napoleone I, in Ritratti e studi moderni, Milano-Roma-Napoli 1914, p. 450; U. Da Como, La Repubblica bresciana, Bologna 1926, pp. 7, 84, 322; L. Antonielli, Alcuni aspetti dell'apparato amministrativo periferico nella Repubblica e nel Regno d'Italia, in Quaderni storici, XIII (1978), 37, pp. 208 s.; Id., I prefetti dell'Italia napoleonica, Bologna 1983, ad Ind.; M. Rosi, Diz. del Risorg. naz., III, p. 51; Encicl. bresciana, IV, Brescia 1981, ad vocem.