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ELIOGABALO, Marco Aurelio Antonino

di Gaetano Mario Columba - Enciclopedia Italiana (1932)
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ELIOGABALO (Elagabalo), Marco Aurelio Antonino (M. Aurelius Antoninus)

Gaetano Mario Columba

Imperatore romano, figlio di Sesto Vario Marcello e di Giulia Soemiade; portò da principio il cognome di Avito, dal nonno materno. Nacque nel 204. Dopo l'uccisione di Caracalla (v.), Macrino, succeduto all'impero, relegò Soemiade, insieme con la madre Mesa e la sorella Mamea, nella città di Emesa in Siria, ond'erano originarie. Questa città era celebre per il tempio e il culto del dio Elagabal, il deus Sol dei Romani. Vario Avito fu investito del sacerdozio di questa divinità, per la qual cosa ebbe poi da alcuni storici romani, con una singolare rimanipolazione della parola, il soprannome di Eliogabalo (Heliogabălus) con cui è generalmente conosciuto.

Le milizie romane di Oriente, poco contente di Macrino, eran rimaste legate alla memoria di Caracalla. Tentativi di rivolta avvenivano in varî punti dell'impero. La più grave fu quella ch'ebbe luogo fra i soldati accampati ad Emesa. A costoro fu presentato E. come figlio naturale di Caracalla. In favor suo si adoperarono presso i soldati Valerio Eutichiano, un antico istrione passato all'esercito, e l'eunuco Ganni, precettore del principe. La nonna Mesa diede il patrocinio delle sue ricchezze. Il colpo riuscì. E. fu dai soldati proclamato imperatore, quale figlio di Caracalla, ed assunse il nome del preteso padre: Marco Aurelio Antonino. Egli aveva solo quattordici anni (primavera del 218).

A reprimere questa rivolta, Macrino mandò un corpo di Mauri, al comando d'un prefetto del pretorio, Ulpio Giuliano. Questi non operò con la necessaria energia, e all'ultimo momento i Maurisi misero dalla parte dei rivoltosi e del nuovo imperatore. Giuliano venne ucciso. Il movimento si propagò anche alla II legione Partica accampata presso Apamea. A capo dei ribelli si pose Ganni, che diede battaglia a Macrino presso Antiochia. Il combattimento fu accanito. Era presente E. con la madre e la nonna, le quali, a quanto ci è detto, compirono opera virile, incoraggiando i soldati in un momento di pericolo. La vittoria fu dei ribelli. Macrino tornò ad Antiochia, e fu ucciso poco dopo nella fuga. Venne ucciso anche il decenne Diadumeniano suo figlio, già creato Augusto.

All'indomani della battaglia, E. entrò in Antiochia, alla quale riuscì a risparmiare il saccheggio, mediante una taglia di guerra che fu distribuita fra i soldati. Di là mandò lettere al Senato romano, in cui s'investiva di sua autorità dei titoli imperiali, del proconsolato e della potestà tribunizia, e si proclamava figlio di Antonino e nipote di Severo. Il Senato che già prima, ad istanza di Macrino, aveva condannato Mesa, le figlie e i nipoti, dichiarò allora nemico pubblico l'imperatore caduto, esaltò Caracalla, espresse il voto che il figlio rassomigliasse al padre.

Ciò non vuol dire che E. fosse con ugual sollecitudine riconosciuto in tutto il resto dell'impero. Tentativi sediziosi si manifestarono fra i soldati di due legioni di Oriente, e fra i marinai della squadra presso Cizico. I comandanti delle legioni dell'Egitto, i governatori della Siria, dell'Arabia, di Cipro, della Pannonia non aderirono al movimento in favore del nuovo principe. Furono perciò necessarie repressioni e punizioni. Anche Roma, nonostante tutte le promesse, ebbe le sue vittime fra i senatori.

E. non ebbe grande fretta di venire a Roma. Egli non vi entrò che alla fine del settembre del 219. L'impero era venuto in mano d'una caterva di orientali, avidi, raffinati e immondi, tra cui dominavano Giulia Mesa e le due Giulie sue figlie. E. portò con sé tutto il bagaglio di superstizioni, di riti luridi e feroci, di vizî infami propri del suo paese. Nella casa imperiale egli rimase innanzi tutto il sacerdote di Elagabalo. Trasportò da Roma la pietra sacra di Emesa, a cui costruì un sontuoso tempio sul Palatino. Celebrava alla maniera orientale le feste del dio; danzava e salmodiava. Si circoncise, e praticò l'orrenda barbarie del sacrifizio di fanciulli. La sua vita si alternava fra le pratiche liturgiche e le orgie più ignobili: prese più mogli, pur continuando nei suoi pervertimenti. Gli uffici dello stato erano in mano a favoriti, e le notizie degli antichi non ci permettono di vedere che corruzione e disordine.

Il popolo, in fondo, doveva trovare abbastanza divertenti le grandi e strane feste che si celebravano in onore del nuovo dio, tanto più che non erano scompagnate da liberalità da parte dell'imperatore; ma tra i soldati invece cominciò a farsi strada un grave malcontento. La stessa famiglia imperiale era agitata da gravi discordie. Fra Soemiade e la sorella Mamea era scoppiata una violenta ostilità. Quest'ultima seppe conciliare a favore del proprio figlio Alessiano il favore dei pretoriani. Anche la nonna Giulia Mesa, che riprovava la condotta di E. senza trovare ascolto, prese a favorire le aspirazioni dell'altro nipote, che era stato tenuto lungi dalla corruzione della corte (v. alessandro severo). Nel secondo semestre del 221 le cose precipitarono. E. adottò dapprima il cugino, nominandolo Cesare; poi si pentì. Ma ormai tutti gli erano contro: Senato, popolo, pretoriani; anche Mesa.

L'11 marzo del 222 i pretoriani, ch'erano insorti già una prima volta, insorsero una seconda, fecero strage dei cortigiani, uccisero E. e la madre e ne trascinarono i cadaveri per le vie della città. Quello di E. fu buttato nel Tevere. Aveva 18 anni, ed era stato imperatore, dalla battaglia di Antiochia, tre anni e nove mesi.

Bibl.: H. Schiller, Geschichte d. römischen Kaiserzeit, I, Gotha 1883, p. 775 segg.; L. Pernier, in De Ruggiero, Diz. epigrafico di antich. romane, III, p. 658 segg.; Stuart Hay, The Amazing Emperor Heliogabalus, Londra 1911 (a pp. 289-97 l'indicazione di tutta la letteratura precedente).

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