Bellocchio, Marco
Regista cinematografico, nato a Piacenza il 9 novembre 1939. L'orizzonte dei conflitti familiari, lo spazio e il tempo della parola, il gioco libero e impervio della sessualità, l'ombra della morte, l'allucinazione della follia, la presenza costante della pratica psicoanalitica, caratterizzano i suoi film politici, controversi e intensamente poetici, attraversati da un pensiero rigoroso e da un gusto inesauribile della sperimentazione e del rischio. Nato in una famiglia della borghesia piacentina, B., dopo aver compiuto i primi studi presso i Fratelli delle Scuole Cristiane e aver frequentato il Liceo Lodi dei padri Barnabiti, s'iscrisse alla facoltà di Filosofia a Milano. Il suo interesse per l'attività teatrale e cinematografica lo indusse però a seguire dapprima i corsi dell'Accademia dei Filodrammatici e dal 1959, a Roma, quelli del Centro sperimentale di cinematografia. Prime sue prove di regia furono il documentario Abbasso il zio (1961), e i cortometraggi La colpa e la pena (1961) e Ginepro fatto uomo (1962); quindi l'esordio con I pugni in tasca (1965: il titolo è anche un verso di J.-N.-A. Rimbaud) portò B. alla notorietà e ne condizionò il percorso successivo. Già si intravedono le tracce di uno stile coerente che si va formando: la famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna l'ombra e la malattia, l'uso del tempo, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l'accamparsi dei corpi, in primo luogo quello di Lou Castel, l'indimenticabile Ale, che segna l'opera con un'impronta incancellabile, mortifera e dolce. Il film irruppe sulla scena del cinema italiano con la forza del suo anticonformismo, mentre il successivo La Cina è vicina (1967), partendo da un tessuto non dissimile ‒ i luoghi sono ancora quelli di una città di provincia, Imola ‒ elabora un discorso più marcatamente politico, focalizzato sui rapporti di classe. Intanto, nel 1967 già si respirava quel clima di contestazione che preparò la stagione del Sessantotto e che avrebbe influito radicalmente sulle opere cinematografiche. B. partecipò alle lotte di quegli anni sollecitando un cinema diverso e realizzò Discutiamo discutiamo, episodio del film collettivo Amore e rabbia (1969, firmato anche da Pier Paolo Pasolini, Carlo Lizzani, Jean-Luc Godard e Bernardo Bertolucci): un 'apologo' di matrice brechtiana, ambientato in un'aula universitaria dominata dai ritratti di Ho Chi-minh e di Che Guevara, percorso da un'ironica disposizione autocritica. La fine del Sessantotto vide B. impegnato nell'Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti); testimonianza di questo periodo furono Paola (1969), sull'occupazione di case organizzata dai militanti nella cittadina calabrese, e Viva il 1° maggio rosso, dello stesso anno, che documentava le manifestazioni per la festa dei lavoratori. Sempre nel 1969, con il Timone d'Atene di W. Shakespeare per il Piccolo Teatro di Milano B. firmò la prima regia teatrale, seguita solo nel 2000 da un Macbeth per il Teatro Stabile di Roma. Nel nome del padre (1972), incentrato sui suoi ricordi della vita di collegio, segnò una tappa importante per l'analisi dei meccanismi del potere mostrando la necessità di romperne gli schemi. Il risultato è un film dominato dalle ombre, metaforico, intimamente sentito, animato dall'urgenza di alludere alla storia collettiva di un intero Paese, che si specchia nel microcosmo dell'istituzione pedagogica. Con Sbatti il mostro in prima pagina (1972) B. volle sganciarsi dal genere poliziesco 'di denuncia' da cui prendeva le mosse, deviando verso un'indagine documentaristico-sociologica sui mezzi di informazione. Nel 1975 B. realizzò, con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, un documentario, di intatta e vitale carica politica e di lancinante intensità, sull'esperienza dell'ospedale psichiatrico di Colorno (Parma), girato in 16 mm e intitolato Nessuno o tutti, e poi portato a 35 mm nella versione destinata al normale circuito cinematografico con il titolo Matti da slegare, che ottenne la menzione FIPRESCI e il premio OCIC al Festival di Berlino. Marcia trionfale (1976) esplora invece il mondo delle caserme, mettendone a nudo i rituali, la ripetitività, il vuoto esercizio del potere. Nel 1977 B. realizzò per la televisione Il gabbiano, esplorazione passionale del celebre testo teatrale čechoviano assunto nella sua totale integrità ma riletto attraverso il linguaggio cinematografico. A La macchina cinema (1978), viaggio documentaristico tra gli emarginati del sottobosco cinematografico, diretto insieme ad Agosti, Petraglia e Rulli, è seguito Vacanze in Val Trebbia (1980), curiosa esercitazione 'leggera' sulla vita in campagna di una coppia (B. stesso e la sua compagna Gisella Burinato, con il loro bambino), sospesa, in una dimensione onirico-avventurosa, tra documentario e fiction. Ancora nel 1980, con Salto nel vuoto B. (che ha ottenuto con questo film il David di Donatello come miglior regista) è riuscito finalmente a fare i conti con I pugni in tasca, cominciando a liberarsene e procedendo con tersi piani-sequenza per raccontare l'imprevedibile insediamento della follia in una relazione parentale. Con Gli occhi, la bocca (1982), ha operato poi un vero e proprio ritorno al set del primo film e al suo protagonista Lou Castel, 'uguale e diverso' rispetto all'Ale di I pugni in tasca, congedandosi con coraggio dal proprio passato (anche di autore), e rischiosamente inaugurando una nuova apertura. Dopo Enrico IV (1984), da L. Pirandello, significativo per il sottile e ambiguo lavoro sul tempo, con Diavolo in corpo (1986), liberamente ispirato al romanzo di R. Radiguet, B. ha messo in gioco una personale svolta, aprendosi alla discussa influenza dello psicoanalista M. Fagioli e inaugurando una sorta di trilogia sul femminile che è proseguita con La visione del sabba (1988) e si è chiusa con La condanna, vincitore del Premio speciale della giuria al Festival di Berlino nel 1991, vagamente ispirato a un fatto di cronaca, il caso Popi Saracino. In queste tre opere si avverte un cambiamento della scrittura filmica, che sembra muoversi secondo coordinate più libere, affidando ai piani ravvicinati la verità di un'emozione sperimentata fino al limite estremo. Con Il sogno della farfalla (1994) B. ha tematizzato nodi complessi, in primo luogo quello del linguaggio ‒ il protagonista, un attore, non parla per scelta volontaria, se non attraverso le parole dei testi, sul palcoscenico ‒ e della comunicazione come reale bisogno dell'essere umano. Anche nel successivo Il principe di Homburg (1997), da H. von Kleist, attraverso il doppio registro realtà/sogno, legge/trasgressione connaturato alla sua opera, il regista intreccia nelle pieghe della messinscena e del ritmo luministico un complesso e sensibile processo di messa a fuoco delle immagini, con un uso insistito della dissolvenza incrociata. Ne risulta il 'ritratto' romantico di un giovane affine a quello del ragazzo chiuso nel silenzio del film precedente. Con La balia (1999), partendo da una novella pirandelliana, ha quindi realizzato un film vibrante di suoni prima che di immagini, esplicitando in una specie di ricapitolazione dei suoi temi, dalla follia al femminile, l'indole di un regista che non ha mai rinunciato ad andare incontro alla realtà, che non è sceso a compromessi e non si è stancato di cercare.
S. Bernardi, Marco Bellocchio, Firenze 1978.
B. Roberti, F. Suriano, D. Turco, Lavorare sulla bellezza del 'niente', conversazione con Marco Bellocchio, in "Filmcritica", 1994, 446-447, pp. 323-28.
E. Bruno, B. Roberti, Le ragioni del sogno, conversazione con Marco Bellocchio, in "Filmcritica", 1997, 475, pp. 223-29.
P. Malanga, Incontro con Marco Bellocchio e Daniela Ceselli, in La balia, Roma 1999.
D. Turco, Piccoli movimenti, piccoli passi, conversazione con Marco Bellocchio, in "Filmcritica", 2000, 501-502, pp. 60-67.
Marco Bellocchio. La passione della ricerca, a cura di G.M. Rossi, Fiesole 2000.