CADEMOSTO, Marco
Restano tuttora assai scarse le notizie intorno alla biografia del C., cui possono essere attribuite con sicurezza soltanto una nascita lodigiana e una non occasionale permanenza a Roma nell'età di papa Leone X, che, secondo il Di Francia, egli avrebbe conosciuto di persona e frequentò, coerentemente con la sua posizione di ecclesiastico.
A una permanenza che, se rapportata al contemporaneo soggiorno romano di altri due noti scrittori di novelle - il modenese Francesco Maria Molza e il veneziano Giovanni Brevio -, attesta d'una caratteristica presenza di letterati settentrionali in un ambiente, quale appunto quello romano dei primi decenni del sec. XVI, dominato dalla cultura mediceo-fiorentina e in grado quindi di offrire cospicui stimoli imitativi in direzione dei canonici modelli petrarchesco (nella lirica) e boccaccesco (nella prosa). Proprio a queste matrici deve essere ricondotta la produzione del C. nella bifrontalità che ne caratterizza l'opera principale (Sonetti ed altre rime, Roma 1544), ove a un corpus di esercitazioni liriche contraddistinte da un generico gusto petrarchesco si unisce una appendice novellistica, i cui soli meriti, in definitiva, assicurano quella certa persistenza della sua fama.
Un'altra opera del C. ben si inserisce nell'ambito di un mestiere letterario minore che veniva assolto secondo i tratti più tipici del poligrafo cinquecentesco: l'"Aggiunta" (dedicata al "reverendissimo et illustrissimo signor Hippolito Cardinale de' Medici") di "molti ornati et arguti motti de più boni autori" tradotti in volgare e posti in appendice alla raccolta di Elegantissime sentenze et aurei detti de diversi eccellentissimi antiqui savi così Greci, come Latini, dovuta a Nicolò Liburnio e pubblicata a Venezia nel 1543. Vi si allineano, sulla scorta di un uso consacrato, massime e frasi ritagliate nel gran mare del patrimonio letterario classico in relazione ad un catalogo di temi che non esula dalla norma corrente - "Sapienza, Fortuna, Principi, Ricchezza, Natura, Morte, Povertà, Lingua, Avarizia, Ira, Virtù, Femine, Felicità" - e cui viene premessa una prefazione autogiustificativa tendente a riscattare il prontuario con affermazioni etico-pedagogiche (utilità dei detti citati) e con la preventiva delimitazione del destinatario (l'opuscolo è diretto non ai colti ma ai "mediocremente letterati").
Della produzione narrativa ci sono rimaste sei novelle, poiché altre ventisette, giusta la sua diretta testimonianza, furono sottratte al C. durante il sacco di Roma (1527); episodio che peraltro, qualora si utilizzi un riferimento interno alla nov. II, va considerato poco precedente la data di stesura delle superstiti, in anticipo dunque di molti anni rispetto alla stampa menzionata.
Uno sguardo ravvicinato alla scrittura del C. non consente di formulare ipotesi critiche di qualche ampiezza, tantoché al Di Francia sembrò opportuno sottolineare soltanto, da un lato, una scarsa abilità formale, con garbugli fraseologici e ibridismo linguistico, dall'altro, la non comune "decenza" del suo narrare; ma al di là di queso tipo di valutazione, certamente riesce difficile indicare connotati in grado di unificare il significato letterario delle vicende narrate; vicende che, in contrasto con le reiterate intenzioni realistiche del C. (nov. II ed epilogo), non superano la dimensione del racconto-favola irrelato. Nella nov. I ("Ghidotto mugnaio si crede di giacere con una giovane di Cavi…") il canonico tema dello scambio di persona nel letto favorisce una discreta rapidità di dettato, poggiato sull'uso frequente di motti ("ti renderò pari per schiacciata"; "dandogli a intendere lucciole per lanterne"), che rispondono a una più generale attitudine proverbiale del C., affiorante negli esigni contesti della IV ("Antonio di Beccaria, pavese, mentre che vive lascia per testamento tutto il suo a tre figliuoli"), o della III ("Pietro romano, speciale, si parte da Roma, et va a Castel Cretone…") la cui insolvenza narrativa è peraltro tale da non sfuggire alla medesima consapevolezza del narratore ("Et ancora chi volesse sapere il successo… né anco questo vi so dire"). Se si considera come nella II ("Antonio da Piperrio indegnamente prete e barro si fece fare una lettera di raccomandazione…"), centrata sul luogo comune del personaggio che guadagna e truffa facendosi passare per un altro, interessi solamente la chiusa, con i testimoni suscitati che rinarrano tutti i fatti già minutamente esposti e fanno così lievitare il peso collocato di solito verso il fondo dalla consueta accumulazione novellistica; e come nella V ("Laura moglie di Bernabò Lagnaiuoli…") il C. diventi puro cronista - invero poco curioso dei risvolti di certi casi, che in effetti dichiara di ignorare - di vicende d'amore adulterino prive di motivazioni più che epidermiche, con deliberata esclusione di ogni contrasto reale (ma l'indifferenza neppure genera il distacco di chi osservi un gioco erotico), e con uso meramente cautelativo delle perorazioni da parte dei protagonisti, non resta che la VI ed ultima novella a mostrare dei tratti maggiormente vivi e sicuri. Ma ciò sembra in definitiva unicamente attribuibile alle remote e varie ascendenze della storia narrata ("Scipione Sanguinaccio fa il suo testamento…"), il cui spunto è nell'accenno dantesco a Gianni Schicchi(Inf., XXX, 31-33); personaggio che, sottratto al giudizio di condanna morale, torna sotto altro nome in questa novella, in un contesto narrativo costruito con materiali raccolti entro un ampio ventaglio di stratificazioni - a partire dai commenti trecenteschi alla Commedia:l'Ottimo, il Della Lana, l'Anonimo fiorentino in particolare - e che si pone poi quale importante nodo della tradizione letteraria rispetto a questa "fabula", soprattutto in direzione della più tarda e nota commedia di Regnard, Le légataire universel.
Nulla si sa allo stato attuale intorno al luogo e alla data di morte del Cademosto.
Bibl.: P. L. Ginguené, Hist. littér. d'Italie, Paris 1824, VIII, p. 462; G. B. Passano, I novellieri italiani in prosa, Milano 1864, I, p. 113; P. Toldo, La frode di Gianni Schicchi, in Giorn. stor. d. lett. ital., XLVIII(1906), pp. 117-119; L. Di Francia, Novellistica, Milano 1924, pp. 682-86; E. Bonora, Il classicismo dal Bembo al Guarino, in Storia della letter. italiana, a cura di E. Cecchi - N. Sapegno, IV, Milano 1966, p. 317.