CAULA, Marco
Figlio di Lorenzo, “altramente detto de’ Medici cittadino modenese”, nacque a Modena da famiglia originaria di Sassuolo.
La famiglia Caula era stata una delle più potenti di Sassuolo; le cronache locali della fine del Quattrocento e del primo trentennio del Cinquecento sono piene dei suoi contrasti con la famiglia dei Mari. Ne uscirono medici, giuristi e uomini d’armi, che al seguito dei Pio si illustrarono nelle guerre contro i Turchi in Ungheria e altrove. Il più noto fu certo il capitano Camillo Caula, cugino di Marco.
Il C. non fu una delle personalità in vista della casata ed è noto quasi esclusivamente per i processi per eresia in cui fu coinvolto. Di professione notaio, ci appare per la prima volta come sospetto di eresia in un costituto del 29 marzo 1541.
Il processo si svolse in due udienze (29 marzo, 1º apr. 1541): nella prima si contestarono al C. negazione del purgatorio, negazione del libero arbitrio e del valore della preghiera, consumo di carne il venerdì e in quaresima; il convenuto respinse le accuse limitandosi ad ammettere quella relativa al mangiar carne, per la quale si richiamò comunque a una dispensa papale. Nella seconda udienza tuttavia si lasciò andare a qualche ammissione: forse aveva negato l’esistenza del purgatorio, ma per scherzo (“ioco”), non per convinzione profonda, poiché egli condivideva pienamente la posizione ortodossa. Il cambiamento di tattica insospettì l’inquisitore che lo sollecitò a rivelare i nomi di coloro che lo avevano istruito per le risposte; ed egli finì con l’ammettere che il consiglio di rispondere “che egli credeva ciò che credeva la chiesa” gli era venuto dalle persone che frequentavano la farmacia dei Grillenzoni (“circa apothecam eorum de Grilenzonis”), uno dei luoghi d’incontro, come è noto, di quel focolaio del dissenso religioso che fu l’Accademia. Quanto alle preghiere egli sosteneva di aver detto che gli uomini debbono fare ricorso “in primo luogo” a Cristo “nostro avvocato”, senza con ciò implicare che si dovessero disprezzare o condannare le preghiere rivolte ai santi.
Gli inquirenti di S. Domenico, frate Cherubino da Mirandola e frate Francesco Tassoni, si accontentarono delle sue precisazioni, limitandosi a farlo giurare “aliquid sinistri in futurum contra fidem non credere nec dicere vel disputare de his quae ad fidem pertinent” sotto pena di 50 ducati; precisarono anzi, a suo sgravio, che tale giuramento non significava ancora “abiuratio haeresis vel de haeresi vehementer suspecti”, ma che in futuro si sarebbe proceduto contro di lui sotto tale imputazione; e lo invitarono a evitare l’associazione con gente sospetta.
Evidentemente il C. non accettò il consiglio, né si fece più cauto. Quando fra’ Bartolomeo della Pergola predicò in Modena nella quaresima del 1544 e “a queste prediche la maggior parte dell’Accademia v’andava”, il C. fu fra gli auditori entusiasti di imparare “la via larga d’andare in paradiso”; e quando nel giugno dello stesso anno il frate dovette tornare in Modena per giustificarsi dal pulpito delle diciassette imputazioni che gli avevano sollevato contro i frati di S. Domenico, egli fu tra i promotori di una supplica che fu “sottoscritta in favore suo da molti gentilhuomini, cittadini et religiosi di quella fattione, etiam da quelli della Accademia”: “gente senza intelletto” li definisce il cronista Lancellotti, testimone ostile, il quale anche qualifica la “supplicazione” (rogata da “Ser Marco Cavola... alla presenza di Ser Gio. Battista Festà suo coadiutore”) come “mal dittata e pegio scritta”. Con questo atto il C. si legava ad uno degli eventi capitali del cammino dell’eresia in Modena.
Negli anni Cinquanta il nome del C. appare in un documento che lo mostra ancora sensibile alle inquietudini religiose: è tra gli “ammoniti” registrati nel “libro segreto” del vescovo Foscherari, assieme con il capitano Camillo Caula; e lo si può supporre dietro alla singolare denuncia presentata agli inquisitori dallo stesso Camillo Caula il 3 maggio 1555 contro un predicatore che più volte aveva detto dal pulpito: “Non vi crediate, non vi pensate che la sola passione di Iesu Christo vi possa liberare e darvi vita eterna”: un atto che indica all’evidenza l’ardire che i gruppi dissenzienti mostravano ancora a quella data.
Nell’estate del 1566, comunque, il C. fugge da Modena col maestro Giovanni M. Maranello, Giacomo Graziani, Pietro Giovanni Biancolini e Giovanni Bergomozzi, uomini di punta dell’eterodossia modenese. Comincia il biennio della repressione. È documentato il tentativo del governatore estense Ippolito Turco per sottrarre i cinque alla scomunica: una lettera del 17 dic. 1566 alla “Serenissima Madama” e al cardinale Ippolito sollecita istruzioni, ma gli indizi erano troppo pesanti perché si potesse fare alcunché. Il Biancolini, il Bergomozzi, il Graziani si rifugiarono in terra d’eretici; il Maranello e il C. affrontarono l’Inquisizione. Una lettera di fra’ Domenico da Imola al Morone, datata il 7 giugno 1567, ci fornisce un’indicazione precisa: “Si è mandato Marco Caula a Ferrara perché il Vicario dell’Inquisizione diceva di non poter venire a Modena et lui desideroso di accomodare le cose sue è andato et noi per fugire questa faticha volentieri si è lassato andare...”. La sentenza ed alcuni estratti del processo conservati all’Archivio di Stato di Modena ci forniscono ampie notizie sul seguito avuto dalla vicenda.
Gli interrogatori ebbero luogo nel luglio-agosto 1567 e il C., sottoposto anche a tortura per chiarimenti sui complici, indicò il Maranello, il Graziani, il Bergomozzi, un Magnanini, uno di Scandiano, e inoltre Giovanni Rangoni, Francesco Camurana, Pellegrino di Sette, questi tre ultimi già defunti. Gli addebiti che egli abiurò l’11 apr. 1568 in Ferrara al cospetto del commissario dell’Inquisizione, Nicolò da Finale e di Giovanni Maria Drappieri, vicario del vescovo, comprendevano la negazione del libero arbitrio e del valore salvifico delle opere per la salvezza “sola fide”; la negazione della presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nell’ostia consacrata con la connessa affermazione che “quello non si riceve realmente, ma solo spiritualmente e per fede”; la negazione del purgatorio e quindi dei suffragi dei vivi per i morti e delle indulgenze; il rifiuto al pontefice della qualifica di vicario di Cristo e quindi il diritto per i cristiani di trasgredire le sue leggi “senza commettere peccato mortale”. Queste posizioni erano comuni al gruppo che faceva capo al Maranello, e rappresentavano il punto d’approdo del dissenso degli accademici. Il C. fu condannato a servire nelle triremi, ma la pena venne subito commutata in quella del carcere; anzi il 22 genn. 1569 una lettera del cardinal di Pisa notificava che “per carcere gli era assegnata tutta la città di Modena”, secondo formula consueta. La grazia veniva da Pio V. Il C. fece quindi parte del gruppo piuttosto folto di coloro che in Modena portavano “l’abitello giallo”, segno penitenziale dell’abiura. Il cugino Camillo, contro cui non si erano raccolti indizi sufficienti, fu solo ammonito. Una domanda di grazia per il C. fu respinta nel 1572: finalmente il 18 maggio 1577 il cardinale di Pisa scriveva all’inquisitore fra’ Eliseo Capys: “Per la relatione che Vostra Paternità m’ha data di Marco Caula... si è mossa questa Santa Congregatione a concedergli la gratia ch’esso dimanda nel suo memoriale...”.
Oltre questa data, non si sono reperite notizie sul notaio eretico.
Fonti e Bibl.: Per i Caula di Sassuolo, vedi M. Schenetti, Storia di Sassuolo, Modena 1966, ad Indicem. Notizie sul passaggio dei Caula da Sassuolo a Modena, in Arch. di Stato di Modena, Arch. privati Caula-Medici-Coccapani, busta 76, dove si può vedere anche il diploma di laurea in medicina di Lorenzo, padre del Caula. Il primo processo del C. si legge, pubbl. dagli Archivi vaticani, in A. Mercati, Il sommario del processo di G. Bruno con app. di documenti sull’eresia e l’Inquisiz. a Modena nel sec. XVI, Città del Vaticano 1942, pp. 137-139. Sul comport. del C. in relaz. al caso Pergola, v. T. de’ Bianchi de’ Lancellotti, Cron. modenese, VIII, a cura di C. Borghi, Parma 1871, pp. LXXVII, LXXXVI. Per il proc. 1567-68, Arch. di St. di Modena, Inquisizione, b. 4 (“Contra d. Marcum Caulam Mutinensem sententia. Processus totus habetur Ferrariae ubi abiuravit”). Degli atti ferraresi non si è trovata traccia. Per le vicende successive, vedi in Arch. di Stato di Modena il Liber fideiussionum (Inquisizione, b. 6); e Inquisizione, Lettere della Sacra Congregazione, 1568-1608, b. 122 (A).