FABIO Calvo, Marco
Nato a Ravenna, probabilmente intorno al 1440, fu attivo a Roma nei primi decenni del sec. XVI, coltivando interessi di antiquaria, architettura e medicina.
Celebre soprattutto per la versione in latino dell'intero Corpus ippocratico, collaborò con Raffaello al progetto di ricostruzione dell'archeologia di Roma antica, volgarizzando per l'urbinate il De architectura di Vitruvio e realizzando i disegni dell'Antiquae Urbis Romae cum regionibus simulachrum; morì a Roma durante il sacco del 1527.
Delle sue origini ravennati e almeno in parte anche del suo nome abbiamo attestazioni di prima mano: F. si firma infatti "M. Fabius" o "Fabius Calvus (Civis) Rhavennas" negli autografi in latino - Vat. lat. 4416, ff. IIrv e IlIr; Vat. lat. 3966, f. 30v; Vat. lat. 2396, f. 265v - e ϕαβ. ϕ. ρ., ϕαλακ〈ρός〉 ρ〈αβεννάτης〉 negli autografi greci - Vat. gr. 278, ff. IXv, 961r, 998r e Vat. gr. 288, f. IIv (cfr. Mercati, 1917, p. 70 n; 1973, p. 67 e Campana, p. 504). Quelle degli autografi, tra l'altro, sono le uniche testimonianze certe anche riguardo al suo nome; va ricordato che il Vat. lat. 2396 è registrato come "Julio Calvo interprete" nell'inventario dei codici della Biblioteca apostolica Vaticana e che curiosamente anche l'Alciato aveva sentito parlare di un "Julius Calvus" traduttore d'Ippocrate (cfr. Mercati, 1917, p. 67 n e 1937, p. 65). Per la sua data di nascita possiamo invece affidarci esclusivamente all'indicazione di Celio Calcagnini che nella lettera a Jacob Ziegler, databile intorno al 1519-20, lo definisce "octuagenarius" (Epistolarum criticarum et familiarium libri, Ambergae 1608, lib. VII, ep. 27). Nella più completa oscurità restano quindi più di tre quarti della vita di F., gli anni della sua formazione, gli studi e le sue attività fino al 1510.
Non c'è dubbio che egli avesse ricevuto un'accurata educazione umanistica, se ebbe l'animo di tradurre Ippocrate ed altri autori greci. L'assiduità intorno a temi e opere di medicina ha spinto il Mercati (1917, p. 70) ad affermare che egli doveva "essere un medico"; tuttavia la sua versione dei testi ippocratici, pur così importanti per gli studi di medicina, sembrerebbe piuttosto l'opera di un outsider, estraneo agli ambienti della più grande medicina umanistica, se G. Manardi la criticò come troppo letterale e pedestre, bollando addirittura F. come "medicinae ... penitus ignarus" (lettera a Giovanni Jacopo Savio del 1533 in Epistolarum medicinalium libri XX, Venetiis, P. Schoeffer, 1542, lib. XVI, ep. I, 27, che ho trovato segnalata da una nota manoscritta nel f. n.n. 26v dell'edizione di Basilea del Corpus ippocratico). Il 1510 è la data più alta cui si può risalire con sicurezza; il 3 aprile di quell'anno, infatti, F. intraprendeva la traduzione del Corpus Hippocraticum, che avrebbe portato a termine l'8 luglio 1515 (Vat. lat. 4416, f. IIIr prima dell'indice = f. n. n. [5]r dell'edizione del 1525, cfr. Campana, p. 510 e Pagliara, p. 66 n. 11). F. utilizzò più codici vaticani (sette, secondo quanto egli stesso afferma alla fine del De mente sive sensu, in un foglietto inserito tra i ff. 45v e 46r del Vat. lat. 4416, cfr. Pagliara, cit.), dai quali aveva contemporaneamente ricavato un apografo, ora Vat. gr. 278, terminato il 24 luglio 1512, (ff. 961r e 998r). Questo stesso apografo sarebbe poi stato donato a Paolo III dal nipote di F., Timoteo Fabio, insieme col Vat. lat. 2396 contenente la traduzione di Galeno e col Vat. gr. 288 con l'opera di Oribasio, entrambi di proprietà dello zio. I due codici greci hanno dediche in greco di Timoteo Fabio a Paolo III (edite da Mercati-Franchi de' Cavalieri, 1923, pp. 362-372 e 403, e quella all'Ippocrate anche in Oeuvres complètes d'Hippocrate, a cura di E. Littré, X, 1861, p. LXI). La lettera di dedica del Vat. lat. 2396, in latino, sempre di Timoteo Fabio, è stata pubblicata da Mercati, 1937, pp. 67 ss., e da Fontana-Morachiello, 1975, pp. 54 s. Dei codici ippocratici che F. dovette avere sotto mano per la versione latina conosciamo il Vat. gr. 276, in pergamena, e il Vat. gr. 277, in carta del sec. XIV; quest'ultimo era stato donato a Clemente VII da Timoteo Fabio, come egli stesso ricorda nella lettera di dedica del Vat. lat. 2396, chiamandolo codice "mirandae vetustatis papiraceum", e sottolineandone il pregio di possedere 30 libri in più rispetto agli altri codici superstiti. L'apografo ippocratico, Vat. gr. 278 (cfr. Mercati, 1917, pp. 68, 70 e 1937, p. 67) venne quindi ricavato principalmente dal Vat. gr. 277 - più copioso del 276 - collazionato con altri codici, tanto che vi si trovano, in margine, le varianti del 276 (cfr. Mercati, 1917, p. 67).
Una importante testimonianza sull'attività di F. intorno ai codici di Ippocrate si può ricavare, come ha notato per primo Augusto Campana, dal registro dei prestiti della Biblioteca Vaticana. Nel codice Vat. lat. 3966, al f. 5r, è registrata, in data 12 dic. 1513, la restituzione di due codici, uno di Ippocrate e uno contenente opere di Aezio Amideno - presi a prestito dal medico fiorentino Manente Leontini - per mano di un "dominus Fabius". Poiché il Leontini è quello stesso medico al quale F. qualche anno dopo aveva intenzione di affidare l'edizione dell'Ippocrate latino, possiamo ritenere con ogni verisimiglianza che il "dominus Fabius" citato nel registro sia proprio F. (cfr. Campana, pp. 501 ss., che pubblica anche il testo del registro, a p. 46 dell'edizione completa curata da M. Bertola). La traduzione dell'Ippocrate e dei frammenti che vi sono inseriti era insomma presumibilmente già termiriata nel 1515.
Il registro dei prestiti della Biblioteca Vaticana ci dà anche altre informazioni su Fabio. Al f. 30v appare infatti una nota autografa di F. che dichiara di restituire un volume in papiro "lacerum et mutilatum" dell'opera di Esiodo (cfr. Bertola, p. 67). Nel f. IIr del Vat. lat. 4416, coperta da un foglio bianco, troviamo un'importante iscrizione datata 1º genn. 1519 (letta e riprodotta dal Campana alle pp. 504 s.) in cui F. afferma che il manoscritto era pronto per la stampa e che questa sarebbe stata affidata al tipografo Ottaviano Petrucci da Fossombrone e avrebbe avuto come editore il già ricordato Manente Leontini; egli vi accenna inoltre al progetto di un'edizione, sempre in collaborazione col Leontini, del Corpus ippocratico in greco. Nello stesso codice, ai ff. I-II, dopo aver ricordato tra l'altro alcuni privilegi accordatigli da Leone X e dall'imperatore Massimiliano, F. scrive di alcune correzioni e modifiche rispetto alla traduzione del 1515 (cfr. Pagliara, 1976, p. 6 n. 14). Sappiamo tuttavia che sia questa edizione sia l'edizione dell'Ippocrate greco non vennero realizzate. Un documento del 19 ag. 1518 ci informa infatti del mancato incontro tra il Petrucci e Manente Leontini per accordarsi sulla stampa (cfr. Campana, pp. 506-509 e pp. 514 s.). Nel frattempo, tuttavia, la versione dell'Ippocrate e la sua imminente pubblicazione avevano già suscitato grande curiosità negli ambienti intellettuali: vi si fa cenno infatti tanto nella citata lettera del Calcagnini allo Ziegler quanto in una lettera dell'Alciato (1520) a Francesco Calvo da Menaggio, quello stesso che pochi anni dopo sarebbe stato l'editore della traduzione (cfr. Mercati, 1917, p. 69 n e Pagliara, p. 66 n. 14). Il 14 ag. 1525 la traduzione veniva infatti data alle stampe a cura di Francesco Calvo da Menaggio; un anno dopo, il 10 marzo 1526, lo stesso F. donava il manoscritto autografo dell'Ippocrate alla Biblioteca Vaticana, con una dedica in cui si definiva "nimis ambitiosus - improbus - et antiquarius" per avervi adottato una grafia latina fedele alla pronuncia arcaica (la dedica, ai ff. Ir-IIv del manoscritto, dove si trova anche la data, è stata in parte pubblicata dal Mercati, 1917, pp. 67 s.).
Che al problema dell'alfabeto latino F. avesse dedicato particolare attenzione dimostrano le note autografe inserite alla p. 52 di una delle due edizioni dell'Historia naturalis pliniana da lui studiate e postillate (Venetiis 1507 e Lugduni 1510) presenti nella Biblioteca Vaticana; egli del resto adottò una grafia arcaica, oltre che nella versione di Ippocrate, anche in quella di Galeno e appunto nelle postille a Plinio (cfr. Pagliara, 1976, pp. 68 s.).
La versione di F., la prima completa del Corpus hippocraticum, costituirà il nucleo fondamentale della successiva edizione curata a Basilea nel 1526 da Andrea Cratander. Nell'edizione del 1525 troviamo tra l'altro un carme di Andrea Marone in cui si lodano i meriti dei due "Calvi" (f. n.n. 4v, in parte pubblicato da Mercati, 1917, p. 67) e un riferimento al cardinale Matteo Giberti (nella dedica di F. a Clemente VII), che lo aveva sollecitato a stampare la sua traduzione. Interessanti notazioni sulla tecnica di F. traduttore troviamo nel recente articolo di I. Mazzini, Manenie Leontini, Übersetzer den hippokratischen Epidemien.
Dopo aver terminato la versione di Ippocrate F. si rivolse alla traduzione del commento di Galeno alle Epidemie ippocratiche, che compì tra il 10 novembre 1516 e il 1º dic. 1518 e che possediamo nel Vat. lat. 2396, autografo (cfr. f. Ir e Mercati, 1937, p. 65); questo codice contiene inoltre la traduzione di un'altra operetta di Galeno, il De rebus boni Malive succi, terminato, dopo molte interruzioni, il 27 nov. 1526 (occupa i ff. 243v-265v nell'ultimo dei quali appare la data, cfr. Mercati, 1937, pp. 65 e 66n). Nella dedica a Paolo III che accompagna il codice Timoteo afferma che lo zio aveva tradotto anche quindici libri di Oribasio e otto libri di Melezio - questi ultimi identificati dal Mercati, 1937, p. 66n con gli Scolii agli Aforismi di Ippocrate - e fa riferimento ad un'altra opera di F. "...de Urbis antiquitatibus", non meglio identificata, ma che forse è la stessa di cui Timoteo parla nella dedica a Clemente VII dell'edizione del 1527 del Simulachrum (cfr. Mercati, 1917, p. 69n e 1937, p. 66).
All'interno del Corpus ippocratico F. inserì la versione di due operette di metrologia antica, che ci confermano i suoi interessi per l'antiquaria. La prima, che occupa i ff. 1076r-1079r del manoscritto, è un brano di J. Africano tratto dal Vat. gr. 298 (cfr. Vat. lat. 4416, ff. 10r e 1075v = pp. 698-699 dell'edizione, e Pagliara, p. 66 n. 12). La seconda è il De Asse, attribuito a Balbo ma oggi considerato spurio, che F. aveva forse ricavato dal codice arceriano del Corpus agrimensorum romanorum (cfr. Pagliara, p. 72 n. 46). Lo stesso brano De Asse inserito nell'Ippocrate si ritrova nel Vat. lat. 3896 appartenuto ad Angelo Colocci, all'interno di un lungo frammento dal titolo Unciae divisio che lo stesso Colocci attribuisce a F. (cfr. Pagliara, p. 66 n. 16). In una nota alla p. 701 dell'edizione del 1525 F. si riprometteva di dedicare più spazio all'agrimensoria e alla numerologia in altra occasione (la nota è edita da Mercati, 1917, p. 69, e Pagliara, 1976, p. 66 vede proprio nell'Unciae divisio l'attuazione di una parte di questo progetto di studi di metrologia antica).
Le ricerche di antiquaria accompagnano F. negli stessi anni in cuì egli si dedica alla traduzione di testi di medicina antica. Fu probabilmente anche per la sua fama di esperto di antiquaria che F. venne chiamato a collaborare con Raffaello Sanzio, traducendo per lui il De architectura di Vitruvio.
Nella lettera allo Ziegler, già citata più volte, Celio Calcagnini, dopo aver lodato la versione di Ippocrate di F., aggiunge la notizia che questi era ospitato e trattato con particolare considerazione e cura dal grande pittore e architetto Raffaello Sanzio da Urbino. Egli fa poi esplicito riferimento alla conoscenza dell'opera di Vitruvio da parte dell'urbinate e ad un progetto di ricostruzione della fisionomia architettonica della Roma imperiale. Effettivamente la collaborazione tra F. e Raffaello vi fu e si rivelò particolarmente fruttuosa; il primo risultato fu appunto il volgarizzamento del De architectura di Vitruvio, e qualche anno dopo essa avrebbe condotto alla realizzazione dell'Urbis Romae cum regionibus simulachrum, che possiamo facilmente identificare con il progetto ricordato dal Calcagnini. La vicinanza, negli anni 1514-1515, tra Raffaello, fra' Giocondo e F., testimoniata da alcune lettere dell'urbinate, ha spinto gli editori moderni del vOlgarizzamento di Vitruvio a collocarlo cronologicamente proprio in quel periodo (cfr. Fontana-Morachiello, pp. 27 ss.). Il testo completo della versione ci è pervenuto attraverso il codice It. 37 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco. Nella medesima biblioteca un altro codice, l'It. 37a, riporta il testo incompleto (fino alla riga 15 del f. 56r, corrispondente alla riga 18 dei f. 107 del cod. It. 37), scritto probabilmente dalla stessa mano, ma che per la maggior accuratezza formale e stilistica sembrerebbe un tentativo di riorganizzare e perfezionare formalmente la traduzione, ancora molto letterale e faticosa nel cod. It. 37 (cfr. Id., pp. 11 ss.). Il cod. It. 37 che pure, come si ricava dall'explicit (f. 237v, dopo la riga 12), fu tradotto "in casa di Raffaello di Giovanni di Sa(n)cte da Urbino et a sua instantia", non fu scritto da F., ma e ricco di annotazioni, postille e aggiunte che si dimostrano palesemente tracce del suo intervento diretto (cfr. pp. 29 e 39 s.). Oltre a queste postille, dovute ad interventi di F., ci sono annotazioni d'altra mano che la critica ormai attribuisce concordemente allo stesso Raffaello.
I curatori dell'edizione moderna hanno dimostrato che la traduzione di F. segue quasi alla lettera l'edizione vitruviana curata da fra' Giocondo, sottolineando tuttavia come dai frequenti "altri hanno" e "in altri si legge" che appaiono nel testo si possa dedurre che quella edizione era stata collazionata da F. con altri codici vaticani di Vitruvio e forse anche con le trascrizioni quattrocentesche dal codice del monastero di S. Gallo (cfr. Id., pp. 33 ss.). Le postille autografe di Raffaello ci danno tra l'altro la misura del suo geniale intuito architettonico: egli infatti - sebbene del tutto ignaro di latino - in un'occasione corregge a margine la traduzione cogliendovi un'incongruenza teorica dovuta in effetti ad un fraintendimento linguistico da parte di Fabio (cfr. Id., pp. 36 s.).
Anche il secondo risultato della collaborazione tra F. e Raffaello, vale a dire il progetto di ricostruzione della topografia di Roma antica che portò alla realizzazione dell'Urbis Romae cum regionibus simulachrum, è profondamente legato alla traduzione di Vitruvio; il piano dell'opera, infatti, viene delineato già molto chiaramente nella famosa lettera a papa Leone X (attribuita a Raffaello e quasi sicuramente stesa dal Castiglione), la quale segue immediatamente il codice It. 37a della Staatsbibliothek di Monaco ed ha perciò avuto la segnatura 37b. Inoltre, è ormai dimostrato che il Simulachrum doveva costituire l'"atlante illustrativo" delle Antiquitates urbis di Andrea Fulvio da Palestrina, il prodotto teorico della ricostruzione progettata da Raffaello (cfr. Fontana-Morachiello, pp. 27 e 51). In questo progetto, per quel che attiene più da vicino alla vicenda di F., possiamo con buona probabilità iscrivere anche quell'opera di ampio respiro "... de Urbis antiquitatibus" alla quale, come Timoteo Fabio afferma sia nella dedica a Paolo III sia in quella a Clemente VII, F. si sarebbe dedicato negli anni immediatamente precedenti al sacco e alla propria morte.
Nella loro accurata ricerca documentaria i curatori dell'edizione del volgarizzamento di Vitruvio hanno cercato anche di far maggior luce sulla vicenda biografica e sull'identificazione di F., riesaminando tutte le fonti dirette e indirette a loro disposizione. Fontana e Morachiello sono ritornati in particolare su un'affermazione del primo biografo di F., il bibliotecario della Classense di Ravenna Pietro Canneti, che nel sec. XVII identificava F. con un "Fabius Calvus rector, seu commendatarius prioratus S. Alberti diocesis Rav."; sembra quindi, seguendo il Canneti, che F. appartenesse alla famiglia ravennate Guiccioli (o Calvi o Visoli o Guizzoli o Cattanei di Dozza). L'identificazione del Canneti, accolta anche dai successivi biografi di F., il Ginanni e quindi Tiraboschi e il Mordani, si fondava su alcuni documenti tratti dall'archivio privato della famiglia ravennate (archivio oggi andato purtroppo perduto, cfr. Fontana-Morachiello alle pp. 47 s.); essa veniva però esclusa dal Mercati (1917, pp. 67-71). Fontana e Morachiello (riproducendo la documentazione addotta dal Canneti, pp. 46 s.) ritornano invece sull'ipotesi del bibliotecario della Classense e, replicando ad alcune delle argomentazioni del Mercati, finiscono col considerarla, se non accettabile con sicurezza, almeno non del tutto improbabile (cfr. le pp. 47-50).
Per i codici e le edizioni antiche citati cfr.: Vat. lat. 4416 (autografo della versione di Ippocrate); Vat. lat. 2396 (Galeno, commento alle Epidemie); Vat. gr. 278 (Ippocrate, copiato da F.); Vat. gr. 288 (Oribasio); Vat. gr. 277 (Ippocrate, donato da F.); Vat. lat. 3966 (libro dei prestiti); Antiquae urbis Romae cum regionibus simulachrum, Romae 1527 (Ludovico degli Arrighi), Romae 1532 (Valerio Dorico), Basileae 1556 e 1558 (Frobenius e Episcopius) Hippocrates Coi octoginta volumina, Romae 1525, ex aedibus Francisci Calvi Minutiani Hippocratis Coi opera per M. Fabium rhavennatem, Gulielmum Copum basiliensem, Nicolauni Leonicenuni et Andreani Brentium latinitate donata, Basileae, Cratander, 1526; Plinio, Historia naturalis, Venetiis 1507 e Lugduni 1510 Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, cod. It. 37: Vitruvio, De Architectura; Ibid., cod. It. 37a, De architectura (b); Ibid., codd. It. 37b, 37c.
Fonti e Bibl.: Raffaello, Tutti gli scritti, a cura di E. Camesasca, Milano 1956; C. Calcagnini, Opera aliquot, Basileae 1544, p. 101, lib. 7, ep. 27; Epistolarum criticarum et familiarium libri, Ambergae 1608, lib. 7, ep. 27; P. Valeriano, Contarenus sive de litteratorum infelicitate libri duo, in Analecta de calamitate litteratorum, Lipsiae 1707, II, pp. 369 s.; P. Canneti, Monumenta genealogica nobilis familiae Ravennatis..., Ravenna 1713, pp. 11 - 14; P. P. Ginanni, Memorie storico-critiche degli scrittori ravennati, Faenza 1769, pp. 403 ss.; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena 1791, VIII, pp. 678 s.; E. Littré, Oeuvres complètes d'Hippocrate, Paris 1839-1861, X, p. LXI; F. Mordani, Degli uomini illustri della città di Ravenna, Torino 1879, pp. 69-72; A. Ferraioli, Il ruolo della corte di Leone X (1514-1516), in Archivio della Soc. rom. di storia patria, XXXIV (1911), pp. 363-391; G. Mercati, Notizie di antica letteratura medica e di bibliografia, Città del Vaticano 1917, pp. 47-71; Id., Altre notizie di M. F. C., in Opere minori, IV, Città del Vaticano 1937, pp. 65-69; G. Mercati-P. Franchi de' Cavalieri, Codices Vaticani graeci, I, Città del Vaticano 1923, pp. 362-372, 403; A. Campana, Manente Leontini fiorentino, medico e traduttore di medici greci, in La Rinascita, IV (1941), pp. 499-525; I due primi registri di prestito della Biblioteca apostolica Vaticana, codici Vat. lat. 3964, 3966, a cura di M. Bertola, Città del Vaticano 1942, ad Indicem, pp. 46, 67; M. E. Cosenza, Biographical and bibliographical dictionary of the Italian humanists... Boston 1962, sub voce; Vitruvio e Raffaello e il "De Architectura" di Vitruvio nella traduzione inedita di F. C. …, a cura di V. Fontana-F. Morachiello, Ravenna 1975; P. N. Pagliara, La Roma antica di F. C. Note sulla cultura antiquaria e architettonica, in Psicon, III (1976), 8-9, pp. 65-87; I. Mazzini, Manente Leontini, Obersetzer der hippokratischen Epidemien [...], in Die hippokratischen Epidemien. Theorie-Praxis-Tradition, Stuttgart 1989, pp. 312-320.