FEDERICI, Marco
Nacque a La Spezia il 4 genn. 1746 da Stefano e da Maria Cipollini. Appartenente ad una famiglia di antica aristocrazia (un suo antenato aveva ottenuto, nel 1444., il titolo COmitale da Alfonso il Magnanimo re di Napoli) e di agiate condizioni economiche, il F. compì i primi studi in patria, poi frequentò l'università di Pisa dove si laureò in giurisprudenza. Tornato a La Spezia, sposò Maria Fedele Bottini Ponzò di, Fivizzano e condusse una tranquilla esistenza di rentier, finché lo scoppio della rivoluzione in Francia e gli echi che ne giungevano in Italia non lo spinsero a prender partito per l'ala più estrema del movimento democratico francese ed a cospirare contro il proprio governo.
Al pari di altri "giacobini" liguri, il F. fu spinto in questa direzione da Jacques Tilly, l'abile ambasciatore ed agente propagandista francese insediatosi a Genova dal giugno 1793, che svolgeva opera di proselitismo sfruttando anche i canali'della massoneria, alla quale forse il F. era affiliato. Certo è che nel 1794 il F. - nel frattempo insignito dal Tilly del titolo di "commissario per la Francia dei golfo della Spezia" - si trovava implicato in una vasta trama insurrezionale che comprendeva diversi personaggi, per lo più della Riviera di Levante, destinati a ricoprire ruoli di un certo rilievo negli anni avvenire: Giuseppe Assereto, Giovanni Battista Bertuccelli, Giuseppe Bertuccioni, Sebastiano Biagini, i fratelli Antonio, Bartolomeo e Francesco Boccardi, Carlo Comparetti, Luigi Isèngard, Mariano Mariani, Gaetano Marré, Giovanni Antonio Mongiardini, Angelo Montebruno, Gregorio Torretti, Giulio Torre.
Il gruppo godeva di una sorta di canale privilegiato nelle relazioni con la Francia, non solo per mezzo del Tilly, ma anche e più grazie alla complicità dell'incaricato d'affari genovese a Parigi, Francesco Massuccone. La legazione a Parigi, dal 1792 in poi, fu in effetti sempre in mano ai giacobini liguri: richiamato a fine '93 il Massuccone per motivi di salute, gli subentrò Bartolomeo Boccardi (che tenne la carica fino al dicembre 1797 e poi da giugno a dicembre del 1799); ed a Parigi fu a lungo segretario di legazione Mariano Mariani. Se fin dall'ottobre 1792 il console genovese a Marsiglia segnalava al suo governo che molti liguri facevano un viaggio in Francia "espressamente per seguitare e mettersi al fatto di questa rivoluzione" (Arch. di Stato di Genova, Senato, sala B. Senarega, 378), dal 1793 in poi il "partito" al quale il F. apparteneva non aveva più bisogno di varcare i confini per essere perfettamente informato delle cose di Francia e per intrecciare rapporti con i jacobins d'Oltralpe.
Il club spezzino, nel quale il F. era il personaggio più autorevole, sul finire del 1793 si teneva in stretto contatto sia con gli elementi più radicali della borghesia genovese riuniti intorno allo speziale Felice Morando, sia con il gruppo di patrizi novatori (Luca Gentile, Gaspare Sauli, Gian Carlo Serra ed altri) che nei primi mesi del 1794 diede vita alla cosiddetta cospirazione antioligarchica, primo episodio di esplicita opposizione al governo della Repubblica. Ma se gli antioligarchici genovesi avevano mire politiche piuttosto limitate, il club spezzino manifestava invece propositi estremistici: il F., che con l'amico Isengard si spingeva a predicare la divisione dei beni, secondo la testimonianza di Girolamo Serra "aveva posto il nome di Robespierre al proprio figliuolo" (Memorie, p. 59).
Non è chiaro se i giacobini della Spezia volessero muoversi di concerto con i cospiratori di Genova; ma di fatto tra le due iniziative vi fu una certa sfasatura. Nell'aprile del 1794 il moto antioligarchico nella capitale era già stato soffocato, mentre nel golfo di Venere un tentativo insurrezionale si stava preparando nel giugno dello stesso anno. Gli inquisitori di Stato - subodorando la cosa e preoccupati perché il presunto giacobino Luigi Isengard era il custode del castello della Spezia e della relativa armeria - decisero di effettuare perquisizioni domiciliari ed arresti, decisione di cui peraltro i congiurati furono avvertiti in tempo. Tra le case perquisite ci fu quella del F. e ciò suscitò l'immediata reazione dell'ambasciatore Tilly, il quale il 21 luglio 1794 gli scrisse in questi termini: "je ne resterai pas témoin passif des vexations qu'éprouvent ceux qui, comme vous, se sont, sans nuire à leur pays et sans intérêt, montrés les amis de la République Française. Puisque vous craignez justement qu'après avoir violé votre domicile on attente à votre liberté, revêtissez l'uniforme français dont je vous ai fait don comme digne de la porter et venez me trouver. Nous aviserons à ce qu'il convient de faire. Et avant votre arrivée le sérénissime gouvernement saura que je mets votre personne, votre famille et vos propriétés sous la sauvegarde de la nation française" (Carteggio Federici, n. 10).
La protezione del Tilly permise al F. di evitare altre noie, ma egli ritenne prudente cambiare aria recandosi a Nizza, allora occupata dai Francesi, proprio mentre a Parigi il colpo di Stato del 9-10 termidoro eliminava Robespierre ed il partito giacobino. La fuga fu provvidenziale, perché finalmente nel settembre 1794 il governo genovese trovò il coraggio di ordinare l'arresto dei principali cospiratori spezzini - cioè, oltre al F., Isengard, Bertuccelli, Comparetti e Torretti - "e questi subito legati mandarli a Genova", come scriveva il 3 ottobre Maria Fedele Federici, ragguagliando il marito e riferendogli che fortunatamente tutti erano uccel di bosco (ibid., n. 3 bis).
Altri arresti vennero tuttavia eseguiti, e gli interrogatori condotti dagli inquisitori di Stato (Arch. di Stato di Genova, Manoscritti, 683) misero in luce che il F. aveva tentato di sobillare il popolo, di spingerlo ad armarsi e a saccheggiare le case dei ricchi; e che aveva aspramente criticato l'oppressivo governo genovese - accusato di affamare la povera gente e di iminiserire le Riviere per egoismo municipalistico - affermando che in Francia tutti erano uguali e non c'erano poveri. In sostanza egli ed i suoi compagni facevano leva sulla situazione di disagio delle Comunità soggette e sulle tradizionali rivendicazioni dei popoli rivieraschi contro Genova, e traducevano tutto ciò in un linguaggio rivoluzionario, estremistico, filofrancese.
Due mesi dopo che era stato impartito l'ordine di cattura, tuttavia, il F. poté tornarsene a Genova e di lì, il 30 novembre, raggiungere la propria città grazie all'immunità diplomatica di cui ora godeva per essere stato nominato viceconsole francese. Frattanto la sostituzione nella legazione di Genova dell'estremista Tilly, poco gradito ai termidoriani, con il più moderato Jean-Baptiste Villars non aveva mutato la posizione del F., il quale era uomo troppo utile alla Francia perché questa pensasse di abbandonarlo. In quel periodo di infida neutralità genovese, di accanita guerra nel mar Ligure e di gravi problemi per l'approvvigionamento delle truppe francesi stanziate o di passaggio in Liguria, l'azione del viceconsole spezzino si dimostrava preziosa, la sua fedeltà alla causa della Grande Nation era assoluta. Lo dimostrò in particolare nel marzo 1795, quando la flotta inglese sbarcò alla Spezia un gran numero di marinai francesi feriti: il F. ne accolse gran parte a casa propria e li fece curare a sue spese, ricevendo gli elogi del Villars; ma m quell'ospedale improvvisato sua moglie Maria Fedele si ammalò e perse la vita.
Risposatosi assai presto con Dorotea Isengard, sorella di Luigi, il F. nell'estate del 1796 si trasferì a Livorno al seguito delle truppe francesi, entrate in quella Città il 27 giugno.
"In paese ci sono grandissime nuove della tua persona - gli scriveva l'8 luglio la moglie Dorotea - e per fino quella che tu sei fatto governatore di Livorno" (Cart. Federici, n. 76). Si trattava in realtà di un incarico meno prestigioso - il F. era "employé pour l'arrangement en magasins des marchandises anglaises, ainsi que pour la formation des inventaires préalables à la remise de ces marchandises à la conipagnie Flachat, Laporte et Castelin" (Du Chanoy, I, p. 65) -, ma assai delicato, e tale anche da consentire qualche buon affare a chi si fosse comportato con una certa disinvoltura. Non per nulla un suo cognato, Giovanni Isengard, che lo sostituiva come viceconsole alla Spezia, gli dava consigli in tal senso: "Quello che ti prego caro Marco è di non trascurare il tuo interesse con approfittarti giustamente di quel tutto che ti possa spettare. Ricordati di acquistare almeno quello che perdi costì non essendoci.... Ricordati che hai la tua casa alla Spezia e a Arcola che han bisogno di moltissime cose, come sai, ... e ricordati che un'occasione come questa non sai più quando ti possa capitare" (Cart. Federici, n. 86). In effetti il F., preso dalla passione rivoluzionaria, aveva assai trascurato i propri interessi. Mentre come s'è visto spendeva generosamente per la causa francese, si disinteressava delle sue terre di Arcola e per patriottismo ometteva di farsi pagare i diritti consolari, tanto che il suo superiore FranQois Lachèze doveva esortarlo a riscuotere quanto gli era dovuto. Così la famiglia viveva in relativa ristrettezza ed i suoi figli dovevano rimandare da un anno all'altro il rinnovo del guardaroba.
A Livorno, dove rimase sei mesi, il F. ebbe comunque un ragguardevole compenso in denaro e, ciò che più conta, si guadagnò la stima di due personaggi importanti: il console Charles-Geoffroy Redon de Belleville, che sarebbe divenuto l'anno dopo chargéd'affaires pressola Repubblica Ligure; ed il commissario dell'Armée d'Italie, Cristoforo Saliceti - eminenza grigia di Bonaparte ed uomo influentissimo nei destini di Genova tra il 1796 ed il 1805 - il quale nel settembre del 1796 lodava del F. "la conduite qu'il a toujours tenu àl'égard des Français, le zèle infatigable qu'il a toujours montré dans toutes les affaires où il s'est agi de la gioire de la République" (Du Chanoy, I, p. 67). Nel contempo la missione a Livorno ed i contatti con lo stesso Bonaparte aumentarono enormemente il suo prestigio presso i patrioti della Liguria, della Lunigiana, di Massa e di Lucca, che a lui si rivolgevano per averne consiglio ed appoggio.
Non c'è dunque da stupirsi se nel giugno del 1797, quando Bonaparte provocò la nascita della "democratica" Repubblica Ligure, il F. si trovò a far pane del governo provvisorio genovese: tuttavia la sua nomina fu contrastata e ci volle un atto d'imperio del nuovo ambasciatore francese, Guillaume Faypoult, perché egli venisse accettato in un organismo nel quale gli elementi moderati erano prevalenti. Di lui spiacevano, ai democratici più cauti ed agli aristocratici riformatori, le idee avanzate, nonché i fieri propositi di tutelare i diritti della sua città contro ogni prevaricazione genovese: il 9 giugno, alla vigilia del mutamento di regime, proprio a casa sua si era tenuta "un'adunanza di più persone compresi i primari di questa città, ove si era stabilito di mandar lettera al generale Bonaparte instando che ... si avesse riguardo a questo golfo e adiacenze, con farle godere i diritti di cittadinanza, franchiggie e libero commercio" (Arch. di Stato di Genova, Rep. Ligure, 494). Si temeva anche, a Genova, che i giacobini spezzini mirasseroad unire il Levante figure alla Lombardia, ma erano timori infondati: proprio in quei giorni, il 13 giugno, Faypoult riferiva a Bonaparte che il F. era contrario a staccare La Spezia dalla Liguria. In realtà il gruppo giacobino ed in particolare gli amici del F. erano semmai partigiani della "unione in grande", cioè della fusione della Liguria con il resto dell'Italia "rigenerata".
Del governo provvisorio il F., che nel frattempo aveva rinunciato al proprio incarico consolare, venne nominato vicepresidente; in tale veste il 25 luglio 1797 insediò i "missionari nazionali", cioè quei preti spediti nelle campagne a predicare la felice coincidenza di democrazia e cattolicesimo, con un discorso d'occasione forse concordato col giansenista Eustachio Degola, certo strano nella bocca di chi, come il F., si atteggiava ad anticlericale. I missionari nazionali non riuscirono però a mitigare l'opposizione contadina al nuovo regime, e questa nel settembre 1797 si tradusse in una furiosa insorgenza sanfedista. Il F., spedito come commissario del governo nel Levante, in un rapporto del 2 settembre affennava di scorgere nel territorio di Sarzana "i semi d'una piccola Vandea" che si potevano estirpare solo "coll'adoprare la mano di ferro ... sopra molti individui specialmente del clero" (Arch. di Stato di Genova, Rep. Ligure, 492). Fu di parola: organizzò milizie popolari, arrestò molti sobillatori tra i quali numerosi ecclesiastici, mise sotto sequestro i beni del vescovo di Sarzana, Vincenzo Maggioli, lo costrinse a rifugiarsi a Carrara e poi lo condannò a morte in contumacia, istruì numerosi processi. Insomma schiacciò sul nascere l'insorgenza, mentre nel resto della Liguria essa seguitava a divampare, e perciò si meritò i complimenti anche di coloro che nel provvisorio avevano posizioni più moderate, come Luigi Corvetto e Luigi Carbonara.
Il moto sanfedista parve rafforzare nel F. le idee radicali ed unitarie, in accordo con l'amico Mariani che da Parigi gli scriveva: "Non avremo mai una tranquillità vera fino a che la Liguria non sia riunita al resto dell'Italia" (Cart. Federici, n. 166). Ma il trattato di Canipoformio rappresentò, per lui come per tutti i giacobini italiani, una delusione cocente. Ancora Mariani, al quale egli si sentiva assai vicino, gli scriveva che Bonaparte meditava di riunire la Repubblica Ligure alla Cisalpina, ma che era ormai il caso di opporsi a quella manovra, perché essa non andava più nel senso dell'unità e dell'indipendenza nazionale ("la maschera è caduta, non dobbiamo più lusingarci di formare dell'Italia una sola repubblica"), e allora tanto valeva far da soli, non permettere "che né il generale Buonaparte, né altri c'imponghino la legge", essere "un popolo felice nella sua piccolezza" (ibid., n. 197).
Nel gennaio 1798 le elezioni per il Corpo legislativo ebbero un esito contrario alle speranze dei giacobini liguri e lo stesso F. non riuscì a farsi eleggere nella circoscrizione della Spezia. Si puntava però a farlo entrare nel Direttorio esecutivo; anzi, stando alla testimonianza dell'inviato cisalpino Gaetano Porro, il "partito dei patriotti" era pronto, in caso di insuccesso, "a levarsi la maschera" e a fare un colpo di mano (Arch. di Stato di Milano, Arch. Testi, 273). In realtà quel partito era ormai troppo debole per imporre le proprie scelte. Si illuse ancora per poco di dare al F. il ministero della Polizia; ma il F., adducendo motivi di salute, se ne stava rintanato alla Spezia ed era sordo alle invocazioni dei vecchi compagni, di Benedetto Boselli, di Giacinto Ruffini, della bella dama Teresa Durazzo, i quali tutti facevano a gara per smuoverlo. Né mostrò maggiore entusiasmo quando, di li a poco, si trattò di accettare il ministero di Guerra e Marina. Se infine il F. disse di sì, fu solo per obbedire al Faypoult; ma non tardò a pentirsene. Quella carica, in uno Stato che era ormai asservito agli interessi militari della Francia, finiva per risultare la più odiosa e la più vacua. Inoltre essa era stata conferita al F. non per volontà del suo partito, ma per un'intesa tra G.B. Roggieri, rappresentante genovese a Milano, e L. Corvetto: il 26 febbraio, infatti, il primo aveva suggerito al secondo che il miglior modo per parare le mire espansionistiche cisalpine sulla Spezia fosse la partecipazione al governo del F. il quale, pur essendo filocisalpino, era "onesto e patriota" e non avrebbe permesso la secessione spezzina (Arch. di Stato di Genova, Rep. Ligure, 177).
Tenne il ministero con gran pena sino al gennaio 1799, quando finalmente riuscì a far accettare le proprie dimissioni, e subito si ritirò nella sua villa di Arcola: "per vivere da saggio filosofo", come gli diceva l'amico Assereto, leggendo Machiavelli. Ma in quei giorni non era facie trovare un rifugio tranquillo, perché gli eserciti austro-russi avanzavano verso l'Appennino. A maggio il F. aveva pensato bene di partirsene con la famiglia da Arcola - dove nella sua villa si erano acquartierati i soldati francesi - ed ai primi d'agosto era certamente a Genova, proprio nel momento in cui le bande sanfediste capitanate da Andrea Doria detto Rodomonte arrivavano alla Spezia e saccheggiavano la sua casa.
Riparato in Francia al tempo dell'assedio di Genova, ne ritornò dopo Marengo, quando ormai per i giacobini liguri i giochi si erano chiusi. La seconda Repubblica Ligure, Stato fantoccio nel sistema italiano del primo console, liquidò entro i primi mesi del 1801 ogni forma di opposizione democratica. Ma il F. non aveva da temere epurazioni, perché si teneva in disparte.
L'inviato cisalpino a Genova, G. C. Tassoni, in un preciso rapporto sui partiti in Liguria redatto nel novembre 1800, mentre ricordava molti vecchi compagni del F. come i Boccardi o l'Assereto, neppure menzionava l'ex ministro di Guerra (Arch. di Stato di Milano, Arch. Testi, 240). Un anno dopo il plenipotenziario francese Dejean inserì il suo nome in una lista di eleggibili a cariche pubbliche, avvertendo Talleyrand che il F. era sì legato a circoli estremistici, ma meritava considerazione per i grandi servizi resi alla Francia; tuttavia non ottenne alcuna nomina (Parigi, Arch. nationales, AF, IV, 1681a). Egli viveva ritirato a casa propria, conducendo una lunga battaglia legale per ottenere il risarcimento dei molti danni inferti alle sue proprietà nel 1799-1800: una battaglia resa particolarmente difficile ed amara dalle molte inimicizie ch'egli si era procurate al tempo della sua missione nel 1797, e che infine poté vincere solo grazie all'interessamento di Cristoforo Saliceti, giunto come plenipotenziario a Genova nel luglio 1802.
Ottenuta soddisfazione grazie al nuovo padrone della Liguria, il F. non era certo più in grado di fare l'oppositore, e si disponeva semmai a raccogliere i frutti di una lunga fedeltà. Quando la Repubblica Ligure fu annessa all'Impero francese nel giugno 1805, egli ottenne subito la nomina ad ufficiale della Legion d'onore e la relativa pensione. Ed i suoi affari andavano bene, se si deve credere al prefetto del Dipartimento degli Appennini, il quale in un documento del 13 febbr. 1806 lo qualificava "ricco proprietario"; mentre in una lista dei collegio elettorale del dipartimento, datata 12 nov. 1807, veniva accreditato di un patrimonio di 200.000 franchi, e nello stesso 1807 risultava tra i 550 maggiori contribuenti del dipartimento (Parigi, Archives nationales, F1e III Apennins1). Era peraltro in buona compagnia, trovandosi insieme con amici ex giacobini che avevano messo la testa a posto e si erano trasformati in ossequienti funzionari napoleonici: Giuseppe Assereto, divenuto maire di Rapallo; Giulio Torre, sottoprefetto di Sarzana; Giuseppe Bertuccioni, vicepresidente del tribunale di Genova.
Il F. non ebbe più cariche, ove si eccettuino quelle, del tutto onorifiche, di presidente del Consiglio di circondario della Spezia nel 1805 e nel 1807, di consigliere municipale della stessa città nel 1809, di membro del collegio elettorale di dipartimento nel 1812. Era in compenso un notabile riverito nella sua circoscrizione, invitato alle cerimonie pubbliche, alla festa di s. Napoleone o ai Te Deum per le vittorie dell'imperatore. Ed era, di conseguenza, un destinatario di suppliche, di richieste di raccomandazione, di domande per schivare la coscrizione militare. La caduta di Napoleone non gli procurò fastidi: dopo l'unione della Liguria al Piemonte gli intendenti del governo sardo gli si rivolgevano con formule non meno rispettose di quelle usate dai prefetti napoleonici.
Il F. mori ad Arcola (La Spezia), nella villa dove si era da tempo ritirato, l'iI genn. 1824.
Fonti e Bibl.: Numerosissime sono le fonti archivistiche - genovesi, parigine e milanesi - relativi al periodo della Repubblica Ligure e della dominazione napoleonica in Liguria in cui sono contenuti riferimenti al F.; nell'impossibilità di compilarne una lista esauriente, ci siamo limitati a citare nel testo alcune delle più significative, e tra queste anche il Carteggio Federici conservato presso la Biblioteca universitaria di Genova. Le principali opere a stampa utilizzate per la ricostruzione della biografia del F. sono le seguenti: Correspondance inédite officielle et confidentielle de Napoléon Bonaparte, IV, Paris 1819, p. 344; H. Du Chanoy, Notes et correspondance du baron Redon de Belleville consul de la Rèpublique Française à Livourne et à Gênes, I, Paris 1892, pp. 65-68, 147, 312 ss., 320, 337 s.; G. Serra, Memorie per la storia di Genova dagli ultimi anni del secolo XVIII alla fine dell'anno 1814, a cura di P. Nurra, in Atti della Soc. ligure di storia patria, LVIII (1930), p. 59; Il Risveglio, n. 35, 20 nov. 1898; A. Neri, L'occupazione austro-anglo-russa del golfo della Spezia, in Giorn. stor. della Lunigiana, V (1913), pp. 72, 80, 82; Id., Notizie e documenti per servire alla biografia di Luigi Isengard seniore, ibid., IX (1918), pp. 88, 90, 163 s., 167; Id., Un incidente a proposito di M. F., ibid., pp. 131-137; Carteggi di giansenisti liguri, a cura di E. Codignola, I, Firenze 1941, pp. CXXV, CXLVIII s., CLVI, CLXVIII, 659; A. Colletti, La Chiesa durante la Repubblica Ligure, Genova 1950, pp. 63 s.; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, pp. 464 s., 471, 484, 497; M. T. Ruggeri, La Spezia tra la Repubblica aristocratica e il governo provvisorio, 1797-1800, in Genova la Liguria e l'oltremare tra medioevo ed età moderna, I, Genova 1974, pp. 382 s., 389; G. Assereto, La Repubblica Ligure, Torino 1975, ad Indicem.