GRIMANI, Marco
Nacque a Venezia da Girolamo di Antonio e da Elena di Francesco Priuli "scarpon", probabilmente nel 1494. La data si ricava dai Diarii del Sanuto (fonte principale per la biografia del G.), il quale il 29 marzo 1522 afferma che il G. aveva ventott'anni, mentre qualche mese prima, il 26 ag. 1521, con formula forzatamente ambigua aveva annotato l'ingresso anticipato del G. in Senato, "havendo la prova per danari di anni 30" (XXXI, col. 295).
La famiglia era da poco uscita dall'anonimato e, proprio con il nonno del G., il futuro doge Antonio (1435-1523), stava per giungere ai vertici del governo marciano; arricchitosi con la mercatura, costui aveva acquistato il cappello cardinalizio al primogenito Domenico (1493), ma qualche anno dopo (1499) si era reso responsabile della sconfitta subita dai Veneziani allo Zonchio. Incarcerato, era stato poi graziato dopo Agnadello e sarebbe addirittura divenuto doge, fra il 1521 e il 1523: furono lui e il figlio Domenico i fondatori delle fortune domestiche.
Nulla sappiamo della giovinezza del G.; è probabile che abbia avuto buoni maestri così come il fratello Marino, sul quale lo zio cardinale esercitò un'influenza decisiva; tuttavia non ne trasse gran giovamento, almeno non sul piano dell'educazione letteraria: gli scritti del G., infatti, appaiono disadorni e alquanto colpevoli verso la grammatica.
è probabile, invece, che dall'ambiente che lo circondava traesse la convinzione di una presunta superiorità sociale, di una sorta di diritto naturale al comando e all'esercizio del potere, unitamente alla disponibilità verso gli agi, i piaceri e le sontuosità che l'ambiente veneziano ben conosceva. Donde il gusto per le feste, i balli, le commedie, le liete brigate, che a lungo lo videro presente anno dopo anno nei carnevali veneziani; donde, anche, l'amore per il vestire sfarzoso, per le scenografie tipiche del rituale civico, delle cerimonie ducali, delle processioni che scandivano il fitto calendario liturgico, ma anche l'ansia di bruciare le tappe della carriera politica o ecclesiastica che fosse, il pungolo ad affermarsi, a giungere subito nei centri decisionali del potere. Per questo, un ulteriore tratto della personalità del G. appare la forte impronta decisionista, l'impulso ad agire d'istinto e senza indugi e senza consigliarsi con nessuno: in questo, forse, simile al grande nonno piuttosto che allo scialbo padre.
La prima notizia certa che abbiamo sul G. riguarda l'ingresso anticipato nel Maggior Consiglio, avvenuto per denari il 18 sett. 1514. Non avendo ancora i venticinque anni prescritti, non poteva esservi eletto ad alcuna carica, ma probabilmente la cosa non gli dispiaceva, dato che ciò che lo interessava era l'accesso al palazzo, la frequentazione del gran mondo, comode incombenze diplomatiche e mondane, piuttosto che amministrative. Così, il 10 nov. 1515 è fra i gentiluomini che accompagnano il nonno procuratore a Milano, a congratularsi con il giovane re di Francia, Francesco I, della brillante vittoria congiuntamente riportata a Marignano; il 18 genn. 1517 figura tra i testimoni che giurano con il doge la tregua che pone fine all'interminabile guerra con l'imperatore Massimiliano I.
Qualche mese dopo, l'8 giugno 1517, sposò Bianca Foscari del cavaliere e procuratore Francesco, del ramo a S. Simon, e di Elisabetta Vendramin, nipote del doge Andrea. Sono nozze prestigiose e sontuose, come riporta il Sanuto (XXIV, col. 339). La morte del padre, avvenuta l'anno seguente, accrebbe di colpo le già notevoli disponibilità economiche del G. e, con esse, la sua libertà di iniziativa. Divenne uno dei più attivi protagonisti delle Compagnie della calza, che raggruppavano i più brillanti e ricchi rampolli del patriziato; in tale veste, nel gennaio 1521 accompagnò a Correzzola, nel Padovano, Pietro Antonio Sanseverino, principe di Bisignano, che come membro della Compagnia degli ortolani aveva pensato bene di celebrare in laguna le festività del carnevale.
Il 6 luglio 1521 il nonno del G., Antonio, divenne doge, a quasi ottantasette anni. Per il G. e i suoi fratelli l'evento costituì una straordinaria sanzione di prestigio sociale e, nel contempo, la premessa per ulteriori occasioni di affermazione politica ed economica.
Il G. sfruttò da par suo il vento favorevole: accorse subito a S. Marco e, con il fratello Vettore, si presentò al popolo accompagnando il nonno nel tradizionale giro della piazza nel "pozzetto", sorta di bigoncia dalla quale i parenti del neoeletto buttavano monete alla folla; il G. ne elargì moltissime e continuò a dar prova della sua prodigalità anche quando la cerimonia ebbe termine, come ci informa il Sanuto (XXX, col. 482). L'indomani, poi, si trasferì a palazzo ducale, prontamente imitato dal fratello Vettore, che due mesi dopo sposò la bellissima Elisabetta Giustinian di Girolamo; gli altri fratelli, invece, non poterono traslocare nella prestigiosa residenza in quanto ecclesiastici: Marino era patriarca di Aquileia, Giovanni vescovo di Ceneda.
A fine anno (1° dic. 1521) morì papa Leone X e tre giorni dopo il G., insieme con il fratello Vettore, accompagnò a Roma lo zio Domenico, il quale, pur essendo ammalato, non intendeva disertare il conclave, poiché aveva buone speranze di uscirne quale nuovo pontefice. Le cose, invece, andarono diversamente, e il collegio elesse Adriano di Utrecht; se ne dolse il G., accusando l'ostilità di un altro veneziano, il cardinale Marco Corner, che si era espresso pubblicamente contro il Grimani: c'era antica ruggine, infatti, fra i Grimani e i Corner.
La delusione patita a Roma non impedì al G. di trascorrere al meglio l'imminente carnevale. Il 2 febbr. 1522 organizzò un festino nella sala d'oro di palazzo ducale, in onore del vescovo di Ivrea, Filiberto Ferreri, nipote del cardinale Bonifacio. Solo con l'arrivo della primavera il G. trovò modo di volgere la mente a cose più serie, cioè alla carriera politica. Approfittò della riapertura della vendita della dignità procuratoria, che la Signoria aveva deciso per far fronte alle urgenze finanziarie causate dalla guerra in Lombardia, e il 30 marzo 1522 risulta eletto procuratore di S. Marco de citra, con l'offerta di 20.000 ducati, dei quali ne versò subito 12.000, promettendo di consegnare il resto l'indomani di buon mattino.
Per celebrare l'avvenimento, il G. organizzò una bella festa con la Compagnia degli ortolani e si riconciliò con i Corner, dal momento che, insieme con lui, conseguì il titolo di procuratore anche Francesco Corner, fratello di quel cardinale Marco che tanto aveva nuociuto allo zio Domenico. Dopo di che, si recò in una sua villa a Este: lo faceva spesso, ma stavolta era per sfuggire alla vergogna di non poter fare l'ingresso ufficiale in Senato come procuratore, per non aver completato il versamento pattuito. A trarlo dall'imbarazzo provvide l'arrivo a Venezia del cardinale Domenico, al quale il doge riuscì a strappare l'impegno di sanare il debito del nipote: era il 19 apr. 1522, e il giovane procuratore ne fu a tal punto consolato, che il 5 maggio offrì un banchetto, allietato dalla recita di una commedia, ai suoi principali elettori.
Trascorse l'estate a riposarsi: il 10 giugno si trovava a Este con il fratello Marino, patriarca di Aquileia, "a piazer"; il 2 luglio era a Padova, dove la famiglia possedeva una casa in Prato della Valle. Feste, banchetti, saltuarie partecipazioni a pubbliche ricorrenze o cerimonie: il G. non ha una carriera politica. Proiettato d'un colpo ai vertici dello Stato, ricoprì solo ruoli di rappresentanza, fallendo puntualmente incarichi che comportassero l'assunzione di precise responsabilità: il 26 ott. 1524 mancò l'elezione ai Tre savi sopra le vendite; il 6 marzo 1525 quella ad ambasciatore presso Enrico VIII d'Inghilterra; il 9 giugno 1526 è la volta dei Savi sopra l'estimo; il 26 nov. 1526 quella di provveditore in campo; il 28 dicembre successivo e il 2 genn. 1527 di savio del Consiglio; ancora, tra luglio e ottobre del 1527 venne più volte ballottato, ma senza mai riuscire - e la cosa si ripete il 28 luglio 1528 -, provveditore in Campo nel corso della guerra della lega di Cognac.
All'inizio del 1523 anche il fratello Vettore acquistò la dignità procuratoria, nonostante l'opposizione del G., che in famiglia non intendeva spartire l'onore con nessuno; i due fratelli si ritrovarono però solidali qualche mese più tardi, allorquando (29 aprile) si prospettò l'abdicazione del doge, ormai decrepito e incapace di assolvere ai doveri della carica: "li do nepoti stanno in dogado, Procuratori, sier Marco et sier Vetor non voleno, perché stando in dogado ha la intrada etc. E cussì va le nostre cosse" (Sanuto, XXXIV, col. 116).
Antonio Grimani morì il 7 maggio, seguito nella tomba, di lì a poco (27 agosto) dal figlio cardinale, Domenico. D'un tratto venivano a mancare i pilastri e le guide della famiglia; in compenso, i superstiti si ritrovavano eredi di una favolosa fortuna divisa fra Roma (dove il cardinale Domenico aveva realizzato la splendida villa Grimani, l'attuale palazzo Barberini) e Venezia, benché il G. avesse partecipazioni mercantili e capitali investiti anche all'estero, a Londra per esempio (forse non a caso, nel 1523 l'ambasciatore inglese a Venezia, Richard Pace, alloggiava nel palazzo Grimani a S. Maria Formosa), e presso i Fugger.
Quando morì il nonno doge, il G. e suo fratello Vettore si limitarono alle cerimonie rituali e a scortarne il cadavere alla sepoltura, ma quando poi fu la volta dello zio cardinale, si precipitarono entrambi a Roma: sospinti - suggerisce candidamente il Paschini (1960, p. 18) - dal nobile fine di "proteggere in Curia i diritti della famiglia", laddove più realisticamente il Sanuto precisa che i due fratelli "andono per le poste, però che il dito cardinal ha con lui tutti li soi danari et arzenti" (XXXIV, col. 371).
Fino a questo momento i Grimani erano vissuti sulla scia della progressiva ascesa di Antonio e Domenico, ma d'ora in poi ognuno prese la sua strada, salvo a ritrovare una convergenza d'interessi nella trasmissione - che assunse connotati estremi - dei benefici ecclesiastici, al punto che nel 1533 lo stesso doge Andrea Gritti li avrebbe accusati di voler fondare uno Stato entro lo Stato, nel Friuli e nel Trevigiano. Il 14 dic. 1523 il figlio superstite del doge, Vincenzo, addivenne con il nipote Vettore a una divisione dell'eredità, ma il G. non volle accedere alla trattativa, dando origine, in tal modo, a una lunga serie di incomprensioni e dissapori, alimentati da reciproche accuse di essersi appropriati di gioielli e danari di famiglia. Nell'immediato, il G. sembrò trovare appoggio nel fratello Marino, patriarca di Aquileia, che accompagnò nel suo fastoso ingresso a Udine, nell'autunno del 1524, e di cui difese più volte i diritti giurisdizionali in Senato e in Collegio.
Nel frattempo, il G. continuava la vita di sempre: nel carnevale dello stesso 1524 lo vediamo partecipare a una festa a Murano (Sanuto, XXXV, col. 375), poi (26 febbraio) accompagna Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino, nell'udienza a palazzo, quindi si reca a Osoppo, con allegra brigata, da Girolamo Savorgnan. In agosto riesce a strappare con uno stratagemma alla moglie dello zio Vincenzo la confessione che il piissimo protettore dell'ospedale degli Incurabili (Vincenzo Grimani, appunto) pratica l'usura nei suoi confronti (la cognata si confida con un'amica, mentre nascosti dietro una lettiera, ascoltano tutto i "comici" Cherea e Ruzzante, con i quali il G. era in amichevoli rapporti).
Non è facile dar conto di questo comportamento di Vincenzo, che faceva parte della cerchia di Gaetano Thiene, Gian Matteo Giberti e Gian Pietro Carafa: tuttavia è probabile che costui non condividesse i troppo disinvolti costumi del nipote, involto in una piccola corte di prostitute e buffoni: nel corso poi dell'ennesimo convito che ebbe protagonista il G., nel carnevale del 1526, si superarono i limiti della decenza, e si vide un gallo con le penne e la cresta tagliata (pesante allusione agli insuccessi dei Francesi) girare per la stanza rovesciando vasi e bicchieri, sicché lo stesso giovane procuratore dovette balzare sulla tavola per calmare gli animi.
Tra la fine del 1525 e gli inizi dell'anno successivo, il patriarca Marino cominciò a pensare che una parentela con la famiglia pontificia avrebbe potuto agevolargli la nomina a cardinale; le trattative furono condotte a Roma da Gian Giorgio Trissino e prevedevano il matrimonio di un congiunto di Clemente VII, un Ridolfi o un Salviati, con l'unica femmina disponibile in casa Grimani: Elena, figlia appunto del G., che allora non poteva avere più di otto anni. La pratica fu suggellata l'8 genn. 1527, con un banchetto offerto da Marco Foscari (parente del G.) in onore del futuro granduca Cosimo de' Medici e di altri esuli toscani: nella circostanza, il nome del promesso sposo fu indicato in Alemanno di Giacomo Salviati. Qualche mese dopo, il 3 aprile, il G. partì a staffetta alla volta di Firenze per perfezionare le pratiche matrimoniali (era colà ambasciatore proprio Marco Foscari) e poi subito a Roma "per causa di ducati 14 milia" - riporta il Sanuto - "per far suo fratello […] cardinal" (XLIV, col. 418).
Si trovava ancora a Roma quando sopraggiunsero i lanzichenecchi. Cercò rifugio nel palazzo della marchesa di Mantova (la cui figlia, Eleonora Gonzaga, era allora ospite del G. a Venezia); dopodiché, travestito da mulattiere, montò in barca sul Tevere con la marchesa e raggiunse Civitavecchia, dove si trovava una squadra veneziana; però a causa dei venti contrari non gli riuscì di salpare e dovette riparare a Isola Farnese, nel campo di Francesco Maria Della Rovere, marito, appunto, di Eleonora Gonzaga. Oltre ai pericoli corsi, la disavventura procurò al G. un notevole danno economico, fortunatamente temperato da un breve pontificio (6 luglio 1527) che gli riconosceva un credito di 10.000 ducati.
A Venezia il G. riprese la solita vita, spendendosi tra feste, solennità, cerimonie e lunghi soggiorni in villa; poi, una volta riacquistata dal papa la libertà, toccò a lui l'onore di portare al fratello il cappello cardinalizio. Partì alla volta di Orvieto, dove soggiornava la corte pontificia, il 3 genn. 1528, in gran fretta secondo il suo solito, ed era di ritorno a Venezia il 15 febbraio, giusto in tempo per non perdersi gli ultimi appuntamenti del carnevale, che risultarono più sfarzosi del solito, nonostante la carestia che colpiva tutta l'Italia.
Naturalmente, aveva debiti, anche con la Signoria, per via di tasse non puntualmente versate; per questo, il 1° luglio 1528, si fece autore di una singolare proposta, dicendosi disposto a rinunciare per dieci anni alla procuratoria, se chi gli fosse subentrato pro tempore avesse accordato un prestito all'Erario; non se ne fece niente, ma forse l'offerta rientrava nel progetto, vagheggiato allora dal fratello Vettore, di affidare a Iacopo Sansovino la realizzazione di un grande palazzo "alla romana" sul Canal Grande, che avrebbe riunito sotto lo stesso tetto tutti i membri della famiglia.
All'inizio del 1529 il G. cominciò a pensare di abbracciare la carriera ecclesiastica. Erano più di due anni che era rimasto vedovo (Bianca era morta il 7 dic. 1526), e gli era nato un figlio naturale, Giulio (nome inconsueto a Venezia: forse un omaggio a Giulia Farnese, la defunta sorella del futuro papa Alessandro, cui i Grimani furono assai legati), che il G. allevò in casa propria. Era prassi consolidata in famiglia quella di mutare status e scambiarsi i benefici e le dignità: il 18 genn. 1529 si sparse dunque la voce che il G. avrebbe rinunciato alla veste procuratoria per subentrare nel patriarcato aquileiese, che gli avrebbe trasmesso il fratello cardinale, mentre l'altro fratello, Giovanni, avrebbe consegnato il ricco vescovato di Ceneda a Marino, e così avrebbe potuto maritarsi. Andò in porto solo la prima ipotesi. Quattro giorni dopo, il 22 gennaio, il G. accompagnò a Roma il cardinale Marino (sembrava che il papa fosse morente): non si tenne conclave, ma il G. riuscì comunque a ottenere il titolo di patriarca di Aquileia, che gli fu confermato nel concistoro del 18 apr. 1529. Ovviamente, Marino conservò per sé il diritto di regresso, la collazione dei benefici e il governo della diocesi; quanto al G., non ricevette mai gli ordini sacri e solo l'8 dicembre il Senato gli conferì il possesso temporale del patriarcato: con tocco squisito, l'indomani l'ex procuratore poneva fine al suo contenzioso finanziario con il pubblico Erario, versando annosi e cospicui arretrati.
In Friuli il patriarca eletto (questo era ufficialmente il suo titolo) si fece vedere pochissimo, affidando la cura del suo gregge ai vescovi suffraganei di Caorle; paradossalmente, la nuova dignità, sottraendolo all'occhiuta vigilanza che lo Stato marciano esercitava nei confronti dei suoi nobili, gli conferiva maggior libertà, gli apriva inusitati spazi di manovra nei quali poteva dispiegare appieno la sua indole dinamica, il suo attivismo insofferente di costrizioni e indugi. Se ne ebbe un avviso nella primavera del 1531; assolti a Venezia i doveri del carnevale, il 24 marzo il G. annunciò ai suoi canonici aquileiesi che di lì a due giorni sarebbe partito per la Terrasanta: un obbligo di coscienza gli imponeva di non differire ulteriormente il tanto bramato pellegrinaggio, per il cui buon fine si affidava alle loro preghiere. Non si conoscono esattamente le ragioni di questa improvvisa risoluzione del G.; quel che è certo, è che si recò a Gerusalemme e di lì a Costantinopoli. Forse, era proprio questa l'autentica sua meta. A Costantinopoli, infatti, toccava allora il culmine del prestigio Alvise Gritti, il beyoglu, figlio naturale del doge Andrea; questi introdusse a corte il G., lo presentò al visir e allo stesso Solimano, gli confidò anche che era imminente un attacco turco all'Italia, e segnatamente nelle terre di S. Pietro.
Il 7 dic. 1531 il G. era già di ritorno a Venezia, donde si recò subito a Roma, a riferire al papa. Clemente VII prese sul serio la presunta minaccia ottomana contro le coste adriatiche e invitò il G. a riferire quanto a sua conoscenza nel concistoro del 28 dicembre; dopo di che inviò lettere all'imperatore e ai re di Francia, d'Inghilterra, di Polonia e di Scozia, sollecitando un comune sforzo contro gli infedeli. Naturalmente Francesco I, che era in ottimi rapporti con Solimano, non gradì l'iniziativa del G., che però non desistette dalle sue manovre e inviò a Costantinopoli, per proseguire gli intrapresi contatti, il fidato segretario Montemerlo Montemerli. è possibile che, dietro tanto zelo, si celasse una manovra del beyoglu, nella quale il G. colse al volo l'occasione di inserirsi. Ma, di fatto, la cosa non ebbe seguito: nella primavera del 1532 i Turchi si limitarono a marciare contro Vienna e a metà giugno il G. ritornò a Venezia.
Si era fermato prima a Roma per sei mesi, verosimilmente anche per definire il progettato matrimonio della figlia.
Ancora nel marzo 1533 la pratica sembrava sul punto di concludersi, quando sopraggiunsero novità le cui motivazioni risultano tuttora oscure: quel che è certo è che nell'estate il presunto futuro marito Alemanno Salviati sposò Costanza Serristori, mentre un anno dopo (29 ag. 1534) Elena Grimani si unì in matrimonio con il figlio di Marco Foscari, Pietro.
Poche settimane dopo avere accasato la sua Elena, il G. intraprese un secondo viaggio in Palestina. Se ne andò all'improvviso, come era suo costume, senza neppur salutare la figlia e il genero (indirizzò a quest'ultimo una lettera dalle acque di Pola, il 25 ott. 1534), accampando motivi di coscienza, stimoli di una montante pietas religiosa.
Stavolta il soggiorno in Levante si prolungò per quasi due anni; il G. visitò l'Egitto (dove entrò nella piramide di Cheope, le cui misure avrebbe poi consegnato a S. Serlio), fu al monastero di S. Caterina nel Sinai, si trattenne presso il console veneziano a Damasco, a Gerusalemme ritrasse le tombe dei re e lasciò una breve descrizione della chiesa del S. Sepolcro, sottolineando l'urgenza di restauri, puntigliosamente elencati e descritti (anche la passione per l'archeologia era uno dei tratti distintivi dei Grimani).
Ritornato a Venezia nell'estate 1536, un anno dopo il G. si rese protagonista di un caso "disgustoso" (l'espressione è di Gasparo Contarini, che cercò di sopire il contrasto), intercettando alcune lettere del fratello cardinale e minacciando di rivelarne il contenuto alla Signoria: "Sua Santità" - così il segretario di Stato, Alessandro Farnese, al nunzio a Venezia, il 26 ott. 1537 - "è restata oltre modo stupefatta et admirata et s'accorge essersi grossissimamente ingannata del iuditio che haveva fatto del dicto patriarca"; ma forse si trattava di una manovra del G. per forzare la mano al papa, come dimostra la successiva sorprendente sua elezione a legato a latere, quale comandante della flotta pontificia contro i Turchi, nomina che gli venne conferita il 7 febbr. 1538.
Venezia era in guerra con gli Ottomani (Solimano aveva arruolato nelle sue forze navali Khair ad-dīn Barbarossa, il pirata sovrano di Algeri), e papa Clemente era riuscito a mettere in piedi una lega comprendente, oltre alla Repubblica e alla S. Sede, anche Carlo V, la cui flotta era comandata da Andrea Doria.
Il G. era stato procuratore di S. Marco ed era patriarca: quale esperienza poteva avere di guerre navali? Eppure si calò benissimo nel nuovo ruolo: a Venezia trascorse mesi febbrili per armare le 36 galere affidategli, dopodiché scortò i suoi equipaggi in pellegrinaggio a Loreto e si portò a Corfù, dove giunse il 15 luglio 1538. Avrebbe dovuto attendere la squadra del Doria, ma la naturale impazienza della sua indole e, forse, il desiderio di alleggerire la pressione ottomana su Candia, lo spinsero a tentare un colpo di mano contro la fortezza di Prevesa, sulla costa greca, l'8 agosto. Fu un insuccesso, presagio dell'infausta campagna navale fiaccamente condotta dagli alleati nei mesi a seguire. Il comando della flotta gli venne rinnovato l'anno seguente, ma ormai Venezia inclinava alla pace e, di fatto, le operazioni ristagnarono sino alla conclusione del conflitto.
Nuovamente in patria, il G. riprese la vita di sempre, fra conviti (splendido quello in onore del cardinale Ranuccio Farnese, nell'agosto 1542, che riscosse il plauso dell'Aretino) e cerimonie, interrotti però da replicati pellegrinaggi, segno di una più marcata sensibilità religiosa in un personaggio certamente complesso e contraddittorio. Nel 1542 fu a S. Antonio di Vienna e, qualche mese più tardi, a Santiago de Compostela.
Dopodiché tornò a rivestire i panni dell'uomo d'azione: il 25 marzo 1543 papa Paolo III lo nominò legato in Scozia, nella difficile congiuntura seguita alla morte del cattolico Giacomo V, sconfitto dagli Inglesi. Si trattava di impedire che anche il Regno scozzese finisse in mano protestante. Il G. partì immediatamente, e il 25 aprile si trovava già a Parigi; Francesco I era formalmente alleato con la Chiesa contro Enrico VIII, ma di fatto manovrava per ottenere l'appoggio pontificio contro Carlo V. Il G. dovette seguirlo al campo e assistere all'assedio di Arras, sicché soltanto il 27 settembre gli fu concesso di salpare per la Scozia. Trovò un paese indebolito e povero, tuttavia riuscì a ottenere la liberazione del cardinale Daniel Beaton e a consegnare alla reggente Maria di Lorena, regina madre, i proventi delle decime ecclesiastiche necessarie a organizzare la resistenza contro gli Inglesi.
Lasciò l'isola nel marzo 1544; il 25 era a Lione, un mese dopo a Brescia. Di qui spedì le sue robe a Venezia, mentre egli preferì recarsi direttamente a Roma.
Dopo tanto prodigarsi e tante promesse, si aspettava quell'affermazione così a lungo e per vie così diverse inseguita; invece morì a Roma, per cause ignote, nel mese di luglio 1544.
La salma fu portata a Venezia e sepolta nella chiesa di S. Francesco della Vigna, accanto allo zio Domenico e al fratello Marino. Tuttavia, neppure dopo la morte quest'uomo inquieto riuscì a trovar pace: nell'imminenza del pellegrinaggio a Santiago, il 31 ott. 1542, aveva disposto nel testamento di esser sepolto non a S. Francesco, ma a S. Antonio, e non dentro la chiesa, ma nel monastero: "perché né a me né ad altri si conviene sepelir l'ossa de peccatori, et massime le mia, in luochi simili, né voglio li sii altare, né se ne facci, né se ne possi fare, acciò non si celebrassi in alcun tempo ove riposasse l'ossa d'un peccatore".
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