PALMEZZANO, Marco
PALMEZZANO (Palmegiani, Palmegiano), Marco. – Nacque a Forlì verosimilmente nel 1459, figlio di Antonio, membro di una famiglia di notabili, e di Antonia Bonvicini (Tumidei, 2005, p. 31).
Come evidenziano alcune opere firmate «Marchus de Melotius», la sua formazione si svolse a contatto con Melozzo degli Ambrosi detto Melozzo da Forlì, del quale Palmezzano fu il principale seguace, come già lo definisce Luca Pacioli nella Summa de arithmetica… (Venezia 1494). Da Melozzo, soprattutto nelle prime pale d’altare, egli riprese la costruzione prospettica, il senso di immota spazialità e la salda impostazione monumentale delle figure rese con forme nitide. La sua attività, documentata già nel 1484 (Grigioni, 1956, p. 309), fu assai lunga e lo impose in Romagna come indiscusso protagonista della più matura pittura prospettica, che egli coniugò con gli insegnamenti della scuola umbro-romana e di quella veneta.
La successiva assenza di documenti fino al 1492 ha fatto supporre che in tale lasso di tempo Palmezzano sia stato con Melozzo a Loreto e a Roma, probabilmente come collaboratore più che come allievo.
A Loreto, già con Cavalcaselle (1864), si era pensato a un intervento del pittore nella sacrestia di S. Marco, ipotesi confermata da Gnudi (1938, p. 11) in particolare per l’unico affresco parietale compiuto da Melozzo, l’Entrata di Cristoin Gerusalemme, ma esclusa da Grigioni (1956, pp. 9-11, 724-735) e poi definitivamente da Tumidei (1994, p. 62). A Roma, secondo Longhi (1927), avrebbe lavorato negli affreschi dell’abside della basilica di S. Croce in Gerusalemme, come suggeriscono i richiami all’opera di Antoniazzo Romano presenti nelle sue opere successive. Evidenziano invece l’influenza dei pittori umbri all’epoca attivi nei cantieri papali, in primis Perugino, i ritmi compositivi più leggeri e le dolci espressioni delle figure presenti nelle opere eseguite al rientro in patria, nonché le decorazioni a grottesche spesso utilizzate come rivestimento decorativo delle sue architetture dipinte.
La prima opera nota è la pala, commissionata e conclusa nel 1492, con la Madonna con il Bambino in trono tra s. Giovanni Battista e s. Margherita, dipinta per la cappella di S. Margherita nella chiesa di S. Maria AssuntaaDozza (Imola), con cornice architettonica progettata, come spesso avvenne, dallo stesso Palmezzano.
Di origine melozzesca sono la composizione monumentale, con il deciso primo piano delle figure, il controllo prospettico dello spazio, sottolineato dall’uso sottile delle ombre, e il disegno del cielo solcato da nuvole arricciate. Altri dati rinviano al supposto soggiorno romano, come il motivo del velo trasparente attorno al Bambino, presente in opere di Antoniazzo alla cui maniera va riferita anche l’attitudine pensosa della Vergine (Ceriana, 1997, p. 34), riproposta da Palmezzano nella Sacra Famigliacon s. Giovannino e s. Maria Maddalenadel Walters Art Museum di Baltimora databile al 1493-94. Emergono pure, nella pala di Dozza, riferimenti alla scuola umbra, nella definizione di alcuni dettagli, come le splendide spille-gioiello, ma anche avvisaglie, soprattutto nella figura del Battista, della conoscenza di capisaldi della pittura veneta, appresa attraverso il contatto con i capolavori pesaresi di Giovanni Bellini e di Marco Zoppo.
Del 1492 è anche l’affresco (trasportato su tela; Forlì, Musei S. Domenico), con la Crocifissione,la Madonna e santi, già nell’abside della chiesa di S. Maria della Ripa, fatta erigere da Caterina Sforza, signora di Forlì.
L’opera richiama l’affresco lauretano con l’Entrata di Cristo sia nell’impostazione spaziale, resa con un punto di fuga molto alto, sia nell’apertura dell’arco a tutto sesto delimitato da due lesene ornate da candelabre. Riferimenti ai modi di Perugino sono riconoscibili nell’altissima Croce e nelle dolci espressioni delle figure astanti, come pure si rinvengono richiami ad Antoniazzo e alla cultura del grande affresco absidale di S. Croce di Gerusalemme.
Datata1493 è la Sacra Conversazione (Milano, Pinacoteca di Brera), un’opera con la quale Palmezzano diede avvio al suo periodo migliore.
Iniziando a reinterpretare la lezione di Melozzo, intraprese quel percorso evolutivo che lo avrebbe portato alla solidità spaziale e al pieno dominio dei mezzi espressivi. La costruzione prospettica di origine melozzesca, la metrica dolcemente ritmica di matrice umbro-romana e i grafismi di sapore antoniazziano sono qui resi in una scena di nuova complessità, vivacizzata dalla cura dei dettagli e dalla preziosità dei colori (ibid., pp. 17, 19).
Fra il 1493 e il 1494, a fianco di Melozzo, definitivamente tornato in patria nell’ultimo anno di vita (morì nel 1494), Palmezzano lavorò alla decorazione della cappella Feo nella chiesa di S. Biagio in S. Girolamo a Forlì (distrutta nel 1944 durante un bombardamento, poi ricostruita). Degli affreschi (documentati da foto Alinari del 1938), alla morte del maestro, come ha precisato Grigioni (1956, pp. 43, 45), rimaneva da dipingere, insieme ad altre minori decorazioni, la grande scena con le Storie e il martirio di s. Giacomo Maggiore.
Se nella cupola dipinta ‘all’antica’ la mano di Palmezzano si rinviene in alcune figure pensose di profeti, nella lunetta con Ilmiracolo dell’impiccato sono attribuibili al pittore alcuni personaggi di sapore melozzesco ma già rivelatori di ricerche accessorie, come evidenziano la mimica, la ricchezza e l’esotismo dei costumi (Coletti, 1935). Nella scena inferiore, con il Martirio del santo, che Palmezzano eseguì da solo probabilmente nel 1495 – con una presumibile interruzione vista la sua presenza a Venezia in tale anno – il solenne portico a due luci richiama certe simmetrie melozzesche, ma già emerge il debito verso modelli veneti, in particolare nei confronti delle ricerche spaziali e coloristiche condotte dai maestri di terraferma. Qualche incertezza nella distribuzione delle figure in primo piano tradisce la scarsa inclinazione per la pittura di storia da parte dell’artista che, però, ben imposta quel rapporto del tutto nuovo in Romagna fra architetture e ampio paesaggio (Tumidei, 2005, pp. 42 s.).
Documentato, come si accennava, al 1495 è il soggiorno, non fugace, dell’artista a Venezia, città nella quale forse per un breve periodo ebbe anche bottega (Grigioni, 1956, pp. 28, 56). Dall’esperienza lagunare Palmezzano trasse influssi soprattutto dall’arte di pittori quali Cima da Conegliano e Bartolomeo Montagna che lasciarono traccia indelebile nella sua arte: nel tratteggio più fuso e nella stesura pittorica più smaltata e compatta, nella tersa luminosità delle scene, nonché nelle architetture formate da marmi mischi e nei paesaggi umanizzati e riconoscibili.
Da questo momento l’artista visse in patria concentrando la sua attività per i centri romagnoli e diventando il pittore di riferimento dell’aristocrazia locale. Frutto della raggiunta sintesi artistica è la grandiosa pala con l’Annunciazione (Forlì, Musei S. Domenico), datata al 1495-96 circa (ibid., pp. 400-410). Commissionata per la cappella dell’Annunziata nella chiesa del Carmine a Forlì, la tavola, in origine centinata (fu decurtata nel Seicento), si impose in Romagna come la più innovativa dell’epoca.
Ritenuta forse il capolavoro di Palmezzano, per il solenne equilibrio e l’ampio respiro della scena, l’opera si contraddistingue per il linguaggio figuraleancora legato a Melozzo, di cui il pittore, dopo la cappella Feo, rinsaldò la sintassi. Ma l’idea monumentale del portico abitabile e aperto sullo splendido paesaggio centrale risente delle soluzioni di Cima, del cui linguaggio vengono riproposti anche i tondi dorati nei pennacchi, mentre le colonne di marmo mischio e i capitelli pseudo-compositi rinviano a modelli belliniani.
Il riuscito innesto di caratteri veneti nel linguaggio di origine melozzesca contrassegnò le opere successive. Tra il 1496 e il 1497 (ibid., pp. 421-425) l’artista dipinse, sempre per la chiesa del Carmine, un’altra pala, destinata alla cappella Ostoli, raffigurante S. Antonio Abate in trono tra s. Giovanni Battista e s. Sebastiano (Forlì, Musei S. Domenico), firmata, secondo una frequente invenzione dell’artista, conunpolizzinodipinto.
Nella pala, in cui l’artista mise a fuoco quel rapporto fra figure, architettura e paesaggio, divenuto il suo tipico schema compositivo, la rappresentazione, impostata simmetricamente, è contenuta entro uno spazio architettonico strutturato su pilastri tuscanici decorati da grottesche, un motivo ornamentale che compare qui per la prima volta. Echi della scuola veneta, specialmente belliniani e cimeschi, si rinvengono nella figura del Battista (mutuata dalla pala di Dozza), mentre emergono anche elementi stilistici di matrice ferrarese.
Di poco successiva è la grande pala detta delle Micheline (Faenza,Pinacoteca comunale) raffigurante la Madonna con il Bambino in trono tra s. Michele Arcangeloes. Giacomo Minoree, nella lunetta, il Padre Eterno fra cherubini. Commissionata nel 1497 ed eseguita entro il 1500(ibid.,pp. 415-421) per l’altare maggiore della chiesa della Compagnia di S. Michelino di Faenza, l’opera, uno dei massimi capolavori del pittore per nobiltà espressiva e intensità cromatica, riscosse un notevole successo e favorì all’artista altri incarichi in ambito faentino.
Tra questi, i perduti affreschi e la pala, eseguita entro il 1505 e identificabile con quella descritta da Luigi Crespi (in Bottari - Ticozzi, 1822) nella collezione Hercolani di Bologna (Tumidei, 2005, p. 56), per la cappella di Mazone Morini nella chiesa di S. Girolamo all’Osservanza.
L’elaborazione di modelli stilistici e di iconografie di origine veneta proseguì nelle opere eseguite durante l’attività sempre più intensa di questi anni: nell’aulica e raffinata pala per la chiesa dei Minori Osservanti di Cotignola, ovvero l’Incoronazione della Vergine (1498-99 circa; Milano, Pinacoteca di Brera), riproposizione quasi integrale della pala pesarese di Giovanni Bellini; nella Testa mozzatadi s. Giovanni Battista(Milano, Pinacoteca di Brera),probabile frammento della predella della pala di Cotignola; nell’elegante Ritratto di uomo (1495-98 circa; Vienna, Gemäldegalerie der Akademie der bildenden Künste); nell’Imbalsamazione di Cristo morto (1500 circa; Vicenza, Pinacoteca di Palazzo Chiericati), forse cimasa della medesima pala di Cotignola (ibid., p. 46), e nel Cristo sul sarcofago (1500 circa; Vienna, Liechtenstein Museum), entrambi di evidente origine belliniana.
La personale ripresa di motivi e atmosfere lagunari suggerì la raffigurazione dell’abside a mosaico del trittico Becchi-Acconci nella citata cappella di S. Biagio in S. Girolamo (1495-1505), l’immersione veneto-belliniana nel paesaggio della Crocefissione e santi della Galleria degli Uffizi (inizi del XVI secolo) e l’impianto a spazio aperto, ancora a suo modo cimesco, della pala con la Madonna con il Bambino in trono tra s. Giovanni Evangelista e s. Caterina d’Alessandria nella cappella di S. Caterina dell’abbazia di S. Mercuriale (inizi del XVI secolo; M. P., 2005, p. 258), ambiente per il quale eseguì anche gli affreschi (di cui rimangono lacerti) a decoro dell’invaso architettonico; per una vicina cappella, ora distrutta, ma l’opera è presente ancora nell’edificio sebbene in diversa collocazione, eseguì poi la pala con S. Giovanni Gualberto in adorazione del Crocifisso e la Maddalena (1502 circa; Gnudi, 1938, p. 107) che si distingue per la preziosa gamma cromatica.
Nella pala Corbici con la Madonna in trono che allatta il Bambino tra s. Antonio da Padova e s. Agostino, nellachiesa dei Ss. Nicolò e Francesco a Castrocaro (1500), l’esecuzione risulta tuttavia un po’affrettata e la sagoma di S. Antonio appare ripetuta, ma dipinta a rovescio, in quella di S. Francesco, di buona fattura, appartenente a un’anta laterale (Vaduz, coll. dei principi di Liechtenstein; dove si conserva anche l’altra anta con S. Girolamo).Si tratta di uno dei primi segnali di allentamento della ricerca figurativa dell’artista e di oscillazioni stilistiche tipiche di una pittura ormai collaudata che, anche per la collaborazione della bottega necessaria per far fronte alle numerose richieste, iniziò ad adottare ripetizioni iconografiche e montaggi esecutivi con passi differenziati fra le diverse parti.
Dopo gli affreschi, perduti, eseguiti per la cappella maggiore del duomo di Forlì, nel 1501 l’artista eseguì per la chiesa di S. Francesco a Matelica la Madonna con il Bambino in trono tra s. Francesco d’Assisi e s. Caterina d’Alessandria con, nella lunetta, la Pietà e santi e, nella predella, l’Ultima Cena, santi e Storie francescane.
Anche questa pala rimanda all’opera pesarese di Bellini da cui l’artista riprese l’impianto, con i santi ospitati nei pilastri laterali, il gradino sagomato e l’iconografia della cimasa.
Richiamano l’ancor florida umanità della pala di Matelica il Cristo risorto (già in coll. Serristori; Arte emiliana…, 1989, p. 23), la Sacra Famiglia con s. Giovannino (Phoenix Art Museum), firmata con caratteri ebraici, e la lunetta con Dio padre benedicente e i ss. Filippo Benizi e Valeriano (già Firenze, Sotheby’s, maggio 1980), forse coronamento della perduta pala Numai del 1502, eseguita per l’omonima cappella della chiesa dei Servi di Forlì (Tumidei, 2005, pp. 50 s.).
Confermò in patria il ruolo di primo pittore la grande Comunione degli Apostoli (Forlì, Musei S. Domenico) del 1506, con la lunetta raffigurante la Pietà, poi tagliata in forma rettangolare (Londra, National Gallery; perduta è la predella). Dipinta per l’altare maggiore del duomo di Forlì, la pala fu esposta per la prima volta in occasione della venuta in città di papa Giulio II, nell’ottobre 1506.
L’importanza dell’opera è dimostrata dalla ricca bibliografia che la riguarda avviata in primis da Vasari (1568) che nella Vitadi Jacomo Palma e Lorenzo Lotto riferì la pala a Nicolò Rondinelli, restituendola poco dopo a Palmezzano nella Vitadi Girolamo e Bartolomeo Genga. A lungo il dipinto è stato ritenuto l’opera più significativa del pittore, ma la critica moderna è ormai concorde nel considerarlo uno degli esiti meno convincenti della sua maturità. L’insieme, monumentale, risulta compromesso da una spazialità angusta, resa dal faticoso accordo tra le figure, fra loro simili e assemblate a ginocchioni sul lato inferiore della tavola, e l’edificio retrostante che dovrebbe contenerle.
Nel linguaggio dell’artista l’ispirazione a modelli illustri si trasformò sempre più, con il passare del tempo, in un indifferente eclettismo, contrassegnato da formule cristallizzate che si espressero, pur con cura esecutiva, in figure dai caratteri uniformi e ripetitivi, in rapporti tra luci e ombre oramai schematici, in contesti architettonici e paesaggistici poco variati, anche attraverso l’ideazione di una serie di prototipi proposti spesso impiegando il medio formato.Spicca tuttavia per la complessa impostazione della scena e per l’innovativa iconografia legata al simbolismo della Concezione, la maestosa Immacolata con il Padre Eterno in gloria e santi (1510 circa), conservata, con cornice originale, nella cappella Ferri dell’abbazia di S. Mercuriale. Richiesta dall’abate di S. Mercuriale insieme ai priori della Confraternita del Corpus Domini e dell’Immacolata, la pala è composta dalla grande tavola centrale e dalla lunetta con il Cristo risorto, affiancata da due piccoli tondi con Profeti (la predella è stata trafugata nel 1985).
Ormai priva di aneliti di ricerca e sperimentalismi fu la produzione successiva, scandita da opere quali la Madonna con il Bambino in trono tra i s. Giovanni Battista e s. Filippo Benizi (Cesena, Galleria della Cassa di risparmio di Cesena) del 1510 circa; la Pietà (1510; Parigi, Louvre); la Madonna con il Bambino in trono tra s. Bartolomeo e s. Antonio da Padova (1513; Forlì, Musei S. Domenico), dipinta per la cappella Denti nella chiesa della Ss. Trinità di Forlì (agli inizi del Settecento rimpicciolita e sagomata in sommità); la Visitazione nella chiesa di S. Antonio Abate in Ravaldinoa Forlì (secondo decennio del XVI secolo); le figure di S. Rocco (1516 circa) nella cattedrale di Forlì e di S. Elena con la Croce (1516; Forlì, Musei S. Domenico), per la chiesa di S. Domenico a Bertinoro.
Si distingue, per la solennità della scena e il vigore delle figure, la Sacra Conversazione (1513; Monaco, Alte Pinakothek), commissionata da Vincenzo Naldi per la chiesa di Pergola, nel Faentino; l’invenzione della Vergine, in leggero scorcio e con la falda del mantello ricadente, riappare nella pala con la Madonna con il Bambino in trono tra s. Girolamo e s. Giovanni Battista (Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana), di esecuzione meno eletta, eseguita entro il 1516 (Tumidei,2005, p. 60) per la cappella Lombardini nella chiesa (distrutta) di S. Francesco Grande a Forlì.
Datata 1514 è la tavola con l’Adorazione dei magi e, nella lunetta, la Disputa di Gesù fra i dottori, voluta da Naldo Naldi per la pieve di Rontana e ora nella collegiata di S. Michele Arcangelo a Brisighella.
Schematica e scarsamente espressiva nel suo insieme, nonostante la fastosità della decorazione, l’opera riprende i repertori figurativi della cappella Feo, confermando il ruolo del pittore, depositario di un’identità artistica locale sostanzialmente impermeabile alle novità emerse nel corso del primo decennio del secolo nelle vicine corti principesche.
Il primato di Palmezzano, fino ad allora intatto, iniziò a incrinarsi solo con l’avvento della maniera raffaellesca, nel secondo decennio del Cinquecento. Primo smacco alla sua autorità fu, nel 1518, l’assegnazione a Girolamo Genga, da parte dei Monsignani, dell’esecuzione degli affreschi per la decorazione della cappella Lombardini, nella citata chiesa di S. Francesco Grande. La pala Naldi si era posta però all’origine di una reiterata presenza dell’artista nella valle del Lamone dove è ancora in situ la grande ancona con la Madonna con il Bambino in trono fra angeli e santi (nella lunetta Dio Padre benedicente) dipinta per l’altare maggiore della chiesa di S. Maria degli Angeli o dell’Osservanza di Brisighella (1520), opera stanca, dalla composizione affastellata.
La persistenza di moduli stilistici quattrocenteschi permea la Madonna con il Bambino in trono tra s. Severo e s. Valeriano e angeli musicanti (Forlì, Musei S. Domenico) dipinta dopo il 1520 per la cappella di S. Valeriano nel duomo di Forlì, con i due santi eseguiti secondo tipologie più volte riproposte dal pittore. Con modalità quasi industriali furono eseguite del resto le numerose repliche di temi già da tempo proposti, come il S. Girolamo nel deserto, il Cristo portacroce e la Sacra Famiglia.
Uno sforzo di aggiornamento nei confronti di episodi più recenti della cultura figurativa emiliana e veneta rivela la piccola Sacra Famiglia con s. Giovannino e s. Caterina d’Alessandria (Forlì, Collezione Fondazione Cassa di risparmio di Forlì), della fine terzo decennio, ma solo tardivamente, e soprattutto con poca convinzione, l’artista tentò un adeguamento a modelli genghiani: nel modo di coordinare le figure, come si osserva nella Strage degli innocenti (già Firenze, coll. priv.; Tumidei, 2005, p. 61), o nelle immagini maggiormente stondate della Vergine e di alcune figure di Giuditta. Si ricordano, in particolare, la Natività di Grenoble (1530; Musée de Grenoble), la Madonna con il Bambino in trono e santi datata 1537 della Pinacoteca Vaticana, la Giuditta e Oloferne(1536; Berkeley Castle, Gloucestershire).
L’artista si cimentò anche come architetto: nel 1506 fornì i disegni per tre cappelle, oltre alla cappella Lombardini, nella chiesa di S. Francesco Grande a Forlì (Grigioni, 1956,pp. 327 s.); nel 1517 progettò l’ospedale dei Battuti Rossi, sempre a Forlì (ibid., p. 135).
Morì a Forlì entro il 25 maggio 1539 (ibid.,p. 374).
Il 29 marzo 1539 aveva steso il testamento in cui, oltre a nominare eredi la moglie Maria e i nove figli, chiedeva di essere sepolto nella chiesa di S. Domenico a Forlì (ibid., pp. 371-374).
Fonti e Bibl.: G. Vasari, Le vite… (1568), a cura di G. Milanesi, Firenze 1906, V, p. 253; VI, p. 323; G. Bottari - S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura…, VII, Milano 1822, pp. 97 s.; J.A. Crowe - G.B. Cavalcaselle, A new history of painting in Italy…, II, London 1864, p. 563; R. Longhi, In favore di Antoniazzo Romano (1927), in Id., Opere complete, II, Firenze 1967, pp. 245 s.; G. Gronau, M. P., in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXVI, Leipzig 1932, pp. 181-183; L. Coletti, P. M., in Enciclopedia Italiana, XXVI, Roma 1935, pp. 141 s.; C. Gnudi, Melozzo da ForlìeM. P., in Mostra di Melozzo e del Quattrocento romagnolo, a cura di L. Becherucci - C. Gnudi (catal., Forlì), Bologna 1938, pp. 3-57, 99-110; C. Grigioni, M. P., pittore forlivese: nella vita, nelle opere, nell’arte, Faenza 1956 (con documenti e bibliografia); M. Lucco, M. P., in La pittura del Quattrocento, a cura di F. Zeri, Milano 1986, II, p. 723; Arte emiliana dalle raccolte storiche al nuovo collezionismo, a cura di G. Manni - E. Negro - M. Pirondini, Modena 1989; S. Tumidei, Melozzo da Forlì. Fortuna, vicende, incontri di un artista prospettico, in Melozzo da Forlì (catal., Forlì), a cura di M. Foschi - L. Prati, Milano 1994, pp. 19-81; G. Toscano, M. P., in The dictionary of art, XXIII, New York 1996, p. 889; M. Ceriana, in M. P. La pala del 1493, a cura di M. Ceriana, Vigevano 1997, pp. 9-43; E.M. Dal Pozzolo, P. a Venezia, in Paragone, s. 3, XLVIII (1997), 15-16, pp. 47-57; M. P.: il Rinascimento nelle Romagne (catal., Forlì), a cura di A. Paolucci - L. Prati - S. Tumidei, Cinisello Balsamo 2005; S. Tumidei, ibid., pp. 27-70; U. Tramonti, M. P.: itinerari nelle Romagne: guida storico-artistica, Cinisello Balsamo 2005; F. Russell, M. P.: Forlì, in The Burlington Magazine, CXLVIII (2006), 1237, pp. 294 s.; D. Tosato, Note veneziane a margine della mostra su M. P., in Venezia arti, XXI (2007), pp. 124-128; E. Righini, La musica ‘immaginata’: i segni del suono nei dipinti di M. P., in Romagna arte e storia, XXX (2010), 89, pp. 19-32.