CATONE, Marco Porcio (M. Porcius M. f. M. n. Cato, detto anche Censorius, Sapiens, Orator, Priscus o Superior, per distinguerlo dall'Uticense)
Una delle più singolari figure dell'antica Roma. Nato a Tuscolo nel 234 a. C. da una famiglia di agricoltori di media agiatezza, trascorse la sua adolescenza semplice e attiva lavorando di sua mano i campi lasciatigli dal padre nella Sabina e pascendosi delle memorie dei grandi Romani del tempo antico, specialmente di Manio Curio. Nel 216, dopo la battaglia di Canne, giovinetto diciassettenne fu arruolato e combatté in Campania; dal 214, col grado di tribuno militare, fu per qualche anno in Sicilia nell'esercito di Marcello, e infine nel 207 ebbe parte importante nella battaglia del Metauro; molte gloriose cicatrici riportate in queste campagne facevano fede del suo valore.
Alla prima giovinezza di C. risale anche l'attività sua di giureconsulto e di avvocato. Attivo, tenace, parlatore caustico e incisivo, egli trattava con successo cause dinanzi ai tribunali locali. L. Valerio Flacco, un patrizio proprietario di terre contigue al fondo di C. e ammiratore del costume antico, notò questo giovane di buon ceppo e le sue non comuni qualità e lo persuase a presentarsi nel foro di Roma per darsi alla carriera politica. Fattosi subito largamente conoscere, C. fu eletto a trent'anni questore (nel 204; Cic. Br., 60; Cato m., 10; la data del 205 di altre fonti è errata), e destinato al pretore della Sicilia; e cooperò al trasporto in Africa dell'esercito del proconsole P. Scipione. È probabile che a questa epoca risalga la sua avversione per Scipione, uomo, per lui, di costumi troppo moderni e liberi; ma è inverosimile quanto Plutarco (Cato, 3) racconta della parte che egli avrebbe avuto negli attacchi di Fabio Massimo a Scipione. C. tornò nel 203 a Roma, e, passando per la Sardegna, condusse a Roma Ennio, il poeta destinato ad aprire alla letteratura latina la vie dell'ellenismo. Perché C. abbia fatto ciò non sappiamo; ad ogni modo il fatto è significativo.
C. rivestì l'edilità plebea nel 199 e la pretura l'anno successivo; ed ebbe per provincia la Sardegna, dove gli abusi e gli sperperi erano divenuti consuetudine per opera di governatori avidi e dissipatori e di usurai; egli espulse questi ultimi e ridusse al minimo le spese per il mantenimento del governatore e del suo seguito, dando esempio d'austerità e di parsimonia. Perciò si attribuisce da alcuni a C., e a questo tempo, una lex Porcia sulle forniture ai magistrati citata nella lex Antonia de Termessibus, II, 16. Anche quella delle tre leggi Porcie sulla provocazione che par rogata dal nostro C., e che vietava ai magistrati d'infliggere la pena umiliante delle verghe a cittadini romani, è probabilmente da ascriversi alla pretura.
La posizione politica di C. si venne così precisando. Non vi erano in Roma allora veri e proprî partiti politici con programmi definiti; ma la profonda crisi che la società romana stava attraversando dopo la guerra annibalica veniva più decisamente contrapponendo la parte maggiore della nobiltà, proclive ad accogliere costumi grecizzanti e a creare nuove forme di vita pubblica e privata, a quella minoranza di nobili tradizionalisti e conservatori, la quale s'appoggiava specialmente alla classe rurale, che dalla crisi era più fortemente minacciata economicamente e moralmente. La nobiltà nuovo stile, per quanto divisa in varie fazioni e gruppi, riconosceva come suo capo il vincitore di Zama, mentre C. divenne presto il capo di quella che si potrebbe chiamare fino a un certo punto la democrazia rurale e tradizionalista. E come tale egli fu portato al consolato per il 195, con il suo amico e protettore Flacco. Subito egli si oppose fieramente, per quanto inutilmente, in nome della severità del costume, alla proposta di abrogare la lex Oppia, che nel 215, durante la guerra annibalica, aveva posto dei limiti al lusso femminile; ma le donne, scese in piazza, ebbero ragione della opposizione del duro console (Livio, XXXIV, 1-8, dove il discorso di C. è però opera dello storico). La sorte poi lo favorî facendo toccare a lui la provincia della Spagna Citeriore. La rivolta degli Spagnoli, scoppiata nel 197, era divenuta così grave nel 196, che si ritenne necessario d'inviare per l'anno seguente nella penisola un esercito consolare in aggiunta alle due legioni dei pretori ordinarî delle due provincie spagnole. C. poteva così ripromettersi di cogliere nella Spagna allori in copia, da contrapporre a quelli dei grandi generali dell'aristocrazia.
La flotta da guerra e da trasporto si riunì nel porto di Luna, e, imbarcato l'esercito, fece vela verso la Spagna. Lo sbarco avvenne a Emporiae (Ampurias), dinnanzi alla quale città si concentrò il grosso dei ribelli della valle dell'Ebro. C. in un primo tempo volle abituare i soldati al paese e al nemico, ordinando scorrerie e razzie nei dintorni; l'esercito doveva vivere sul paese (bellum se ipsum alet, Livio, XXXIV, 9, 12) e C. licenziò e rimandò a Roma fornitori e incettatori. Giunto il momento opportuno, egli condusse con una marcia notturna l'esercito alle spalle degli Spagnoli, li vinse in un'aspra battaglia e prese il loro campo. Le tribù a nord dell'Ebro si sottomisero, e C. avanzò sino a Tarracona; ma, secondo l'uso spagnolo, la ribellione si riaccese tosto qua e là alle sue spalle ed egli dovette dare qualche esempio di severa repressione e imporre il disarmo di tutta la regione di qua dall'Ebro. I due pretori erano intanto gravemente impegnati nella provincia Ulteriore, ove i Turdetani avevano assoldato un grosso corpo di bellicosi Celtiberi; C. si recò in loro aiuto e tentò di indurre i Celtiberi a staccarsi dai Turdetani senza peraltro riuscirvi. Passando vicino a Numanzia, che i Romani videro allora per la prima volta (è attribuito a C. un campo romano del quale si esplorarono gli avanzi alla Gran Atalaya presso Numanzia e un altro ad Aguilar presso Sigüenza), C. ritornò con un distaccamento nella valle dell'Ebro, ove ebbe ancora da reprimere qualche moto di ribellione. Ordinò quindi la provincia, regolando specialmente i ricchi proventi delle miniere d'argento e di ferro, e compiuto l'anno di carica, ritornò a Roma dove trionfò nella primavera del 194. Di questa sua campagna C. lasciò una vivace relazione, decisamente apologetica, in un suo discorso in difesa del proprio consolato (v. sotto), che fu usato dalla fonte di Livio, XXXIV, 9-31, il cui racconto ha perciò un carattere particolare.
L'aristocrazia riprese il dominio dello stato nel 194 con il consolato dell'Africano; C. rispose con una guerra di accuse e di processi politici contro aristocratici. Robustissimo e infaticabile, brutto, rossiccio di pelo e con gli occhi chiari, la voce sonora, la parola pronta, mordacissimo, senza riguardi, egli era un lottatore nato e un avversario implacabile. I suoi nemici cercavano di restituirgli i colpi, e l'accusarono 44 volte, l'ultima volta ottantenne; ma fu sempre assolto. Sono giunti a noi molti titoli di suoi discorsi d'accusa o in difesa di sé stesso o d'altri; di alcuni processi più famosi abbiamo anche sufficienti notizie. Così nel 190 egli accusò Q. Minucio Termo, un protetto di Scipione, già console nel 193, vincitore di battaglie mentite contro i Liguri e autore di crudeltà ignominiose, le cui pretese al trionfo furono respinte dal senato. L'anno precedente, allo scoppio della guerra contro Antioco, C. e il fido Flacco, già consolari, rivestirono il tribunato militare (altri li dicono legati) nell'esercito del console Glabrione, una creatura degli Scipioni, che doveva condurre la guerra in Oriente; pare che fra i loro scopi, oltre che quello di mietere allori, ci fosse anche l'altro di sorvegliare il console e l'andamento delle cose in Grecia. Alle Termopili C. si distinse in modo particolare; alla testa di un distaccamento, egli marciò nella notte tenebrosa per le montagne che sovrastano al passo, sorprese i presidî nemici, e riuscì alle spalle di Antioco, il cui esercito si diede alla fuga. E francamente C. esaltava la sua gesta e si vantava d'aver vinta lui la guerra (Jordan, p. 36, fr. 26). Durante questa campagna, e prima della battaglia alle Termopili, C. fu inviato in varie città greche per metterle in guardia contro Antioco, e fra le altre ad Atene, ove fu ammirata la sua concisione, pur sapendo il greco, parlò in latino, e un interprete traduceva. In premio fu inviato a Roma a portarvi la notizia della vittoria.
Dopo tante benemerenze del suo capo, la democrazia rurale credette giunto il momento di dare la scalata alla censura per il 189; gli ultimi collegi di censori, invece di custodire la purezza del costume patrio, erano stati di una scandalosa mitezza! Si presentarono quindi candidati C. e Flacco, e poiché il competitore più pericoloso era lo scipioniano Glabrione, popolare per la recente vittoria e per elargizioni, C. gli suscitò contro due tribuni, che l'accusarono d'aver sottratto parte della preda fatta su Antioco, e sostenne con la sua testimonianza e con un discorso l'accusa contro il suo ex-generale, che sdegnato ritirò la sua candidatura ed ebbe aspre parole di protesta per C. (Liv., XXXVII, 57, 9 seg.). La mossa giovò però ad altri due candidati, Flaminino e Marcello, che riuscirono eletti censori. Nel 189 C. fu inviato come legato in Etolia al console Nobiliore (Jordan, p. 44, fr. 3), un aristocratico di costumi moderni; e quivi egli raccolse informazioni che gli serviranno per attaccarlo più tardi.
Nello stesso anno 187, C. decise di colpire direttamente il capo dell'aristocrazia, Scipione Africano. L'attacco cominciò con una richiesta di resa dei conti di una parte dell'indennità di Antioco, fatta nel senato, ad istigazione di C., da due tribuni a Lucio Scipione, fratello dell'Airicano; questi intervenne e la respinse sdegnosamente, ma C. fece allora intentare un processo comiziale contro Lucio Scipione e nel 185 un processo allo stesso Africano per i fatti della guerra siriaca, in seguito al quale l'Africano lasciò Roma e si ritirò nella sua villa di Literno, ove morì nei primi mesi del 184 (v. scipione africano). Sotto l'impressione della sconfitta politica dell'Africano si svolsero le elezioni censorie per il 184, che diedero la vittoria a C. e al suo fido Flacco contro una coalizione di altri sette candidati aristocratici. La censura fu famosa (tristis et aspera in omnes ordines censura, Liv., XXXIX, 44,1) e C. fu da essa chiamato Censorius per antonomasia. Egli colpì gli oggetti di lusso, che furono nel censo computati, per l'imponibile, trenta volte il loro valore. La revisione della lista del senato fu severa; sette senatori furono espulsi e fra essi, clamorosamente, il consolare L. Flaminino, fratello di Tito, per atti di crudeltà commessi da console nel 192 in Gallia. Un pretorio fu espulso per aver baciato la moglie in presenza della figlia! Princeps senatus fu posto da C. il collega Flacco, saltando Tito Flaminino. Nella rassegna della cavalleria cittadina, che C. avrebbe voluto portare da 1800 a 2200 cavalieri, egli tolse il cavallo all'Asiatico e ad altri cavalieri. Con inusitato rigore C. tutelò poi gl'interessi del popolo, suscitando aspre lotte, delle quali sono tracce anche nei frammenti dei suoi discorsi, e che ebbero strascichi per lunghi anni. Le aree pubbliche indebitamente usurpate da privati furono fatte sgombrare, repressi gli abusi sulle acque pubbliche. Le locationes censoriae, gli appalti, che involgevano grandi interessi, furono conclusi da C. a tutto vantaggio dello stato, così che gli appaltatori ricorsero al senato, che, per influenza dell'offeso Flaminino, ordinò il rinnovo delle aste. C. rispose escludendo dalle aste gli appaltatori che avevano protestato, e i contratti furono conclusi a condizioni di poco diverse. Invano alcuni tribuni intentarono allora a C. un processo. I censori costruirono varie opere di pubblica utilità, restaurando le antiche cloache e facendone di nuove, per una somma di 24 milioni di sesterzî, ed erigendo la Basilica Porcia sul Comizio.
D'ora innanzi, C. fu uno dei più influenti, se non il più influente uomo di stato in Roma. A lui si deve attribuire probabilmente l'importante mutamento avvenuto in questi anni nella politica coloniale romana; nel 183 infatti ha inizio la serie delle colonie cittadine non più di carattere esclusivamente militare e di 300 cittadini, ma a scopo sociale e agricolo e con parecchie migliaia di coloni, in sostituzione delle colonie latine. Si adempiva così uno dei postulati della democrazia rurale, che voleva le assegnazioni di terre e la fondazione di colonie, senza che i coloni perdessero, come avveniva nella deduzione di colonie latine, la cittadinanza romana. Anche le vaste assegnazioni viritane di terre nella valle del Po, che ebbero luogo in questi anni, rispondevano a quest'ordine di idee, contribuendo molto alla romanizzazione del paese. Dobbiamo in queste misure riconoscere una grande benemerenza di C. e della sua parte. E nessuna questione importante si dibatté nella curia in quest'epoca senza l'intervento di C. Nella politica interna, la sua parola era sempre ispirata ai criterî del più rigoroso tradizionalismo. Così nella famosa questione dei Baccanali sorta nel 186; e nel sostenere o combattere le varie leggi che vennero in questo periodo in discussione. La legge Bebia sul broglio elettorale lo ebbe favorevole quando fu presentata (181), difensore quando si volle in parte abrogarla (179 o 178); raccomandò caldamente nel 179 la legge Voconia, che limitava la capacità delle donne a ereditare (la ricchezza in mano delle donne lo spaventava: v. il fr. in Gellio, XVII, 6,1); s'oppose (dopo il 161) alla deroga dalla legge Orchia suntuaria che aveva limitato il lusso dei banchetti; sostenne la legge che vietava di rivestire due volte il consolato (151). I fr. dei suoi discorsi testimoniano il suo intervento in molte altre questioni di diritto pubblico. Criticò aspramente la scandalosa censura di Fulvio Nobiliore e M. Emilio Lepido nel 179, nella quale si erano confusi gl'interessi dello stato con quelli privati dei censori (Liv., XL, 51. 2). Odiava fanaticamente i Greci, e il suo soggiorno in Grecia nel 191 aveva dato nuova materia al suo odio; bisognava, egli diceva, conoscere (ed egli li conosceva) i loro scritti, ma non apprenderli (inspicere non perdiscere); la letteratura greca avrebbe corrotto i Romani nello spirito, così come i medici greci erano per lui congiurati a far morire tutti i barbari (famoso fr. di C. in Plinio, Nat. Hist., XXIX, 14). Perciò nel 155 egli fece cacciare da Roma la famosa ambasceria dei tre filosofi ateniesi, che avevano destato con le loro disquisizioni un pericoloso entusiasmo fra i giovani romani.
Nella politica estera, C., come in genere i Romani fedeli alla tradizione, fu contrario all'espansione territoriale extra-italica, quando non fosse necessaria per ragioni di sicurezza, come nel caso della Spagna. Così egli sostenne. dopo Pidna, che la Macedonia doveva essere lasciata libera (fr. del suo discorso in Jordan, p. 55), e nella questione dei Rodî, che dopo la guerra perseica un partito in Roma voleva punire per la freddezza dimostrata verso i Romani durante il conflitto, egli prese risolutamente e con successo la loro difesa, con un discorso in cui erano espressioni di ammirabile franchezza (framm. m Gellio, VI, 3; Jordan, p. 21). Gli atti d'inutile crudeltà e di slealtà di taluni governatori romani verso i provinciali e gli stranieri, che sempre più frequentemente macchiavano il buon nome romano, ebbero sempre in Catone un fiero avversario. Così egli attaccò violentemente, come abbiamo visto, Q. Termo e L. Flaminino per gli atti di crudeltà da loro commessi nella Gallia; scelto nel 171 a patrono dagli Spagnoli, che si lagnavano delle concussioni dei governatori romani a loro danno, egli perseguì uno di essi, P. Furio Filo, che dovette andare in esilio; nel 154, egli, spregiatore e odiatore dei re, prese posizione in favore di Tolomeo Filometore contro Tolomeo minore e il suo protettore L. Termo e la politica sleale del senato nei riguardi del primo; e ottantenne, nel 149, sostenne con ardore, per quanto invano, la rogazione del tribuno Scribonio Libone contro Sulpicio Galba, che, pretore nel 150 nella Spagna Ulteriore, aveva accettato la resa dei Lusitani, e poi, tradendo i patti, li aveva massacrati o venduti schiavi. Implacabile C. fu invece contro Cartagine: l'impressione che l'invasione annibalica fece su di lui giovanetto non si cancellò mai dalla sua mente, ed egli non si sentiva sicuro sinché Cartagine esisteva. E quando, inviato nel 157 come legato in Africa per dirimere le contese fra Cartagine e Massinissa, vide l'antica rivale ritornata florida e forte, la sua preoccupazione divenne ossessione; dal 153 al 150 le perioche di Livio ricordano ogni anno discorsi di C. per la guerra a Cartagine, ed è celebre il ritornello con il quale egli conchiudeva ogni suo discorso su qualsiasi argomento: "Inoltre, io credo che Cartagine debba essere distrutta". (Plutarco, 27, 2; nella sua forma tradizionale: ceterum censeo Carthaginem esse delendam, il motto pare sia stato foggiato sul De viris ill., 48, 8: Carthaginem delendam censuit). E nonostante l'opposizione di una parte dell'aristocrazia, specialmente di Scipione Nasica, egli riuscì nel 150 a far dichiarare la guerra a Cartggine e a far respingere poi la dichiarazione di resa dei Cartaginesi. Non vide però la distruzione dell'odiata città, ché egli morì nel 149 in età di 85 anni. La sua maschera di cera fu posta nella curia del Senato, nella quale per tanti anni aveva dominato.
Dalla prima moglie Licinia, C. ebbe un figlio, M. Catone Liciniano, che egli istruì personalmente e che fu dotto giureconsulto; morì pretore designato nel 152. Rimasto vedovo, C. sposò, ottantenne, la figlia del suo cliente Salonio, da cui ebbe un figlio, M. Catone Saloniano, che morì pretore e fu nonno di Catone Uticense.
C. fu un uomo di primo ordine, non però un grande. Saldo d'animo come di corpo, mente lucida e volontà risoluta, rappresentante genuino dei vecchi contadini romani del buon tempo antico, egli lottò senza posa per difendere i costumi aviti fino all'ultimo respiro, anche quando egli stesso riconosceva di essere ormai un sopravvissuto. Non ebbe riguardi per nessuno, e grandi e mediocri provarono i suoi attacchi e gli strali della sua aggressiva eloquenza. Si attirò così innumerevoli inimicizie, che egli affrontò senza mai vacillare. Ma la sua battaglia non fu condotta secondo un piano di generale restaurazione politica e sociale e di soppressione delle cause remote e vicine della dissoluzione del costume antico, fu una battaglia che si esaurì negli episodî dell'attacco a un uomo, della proposta di una legge restrittiva, della repressione di un abuso o di un singolo malefatto. Tuttavia la dirittura, l'onestà e la saldezza di convincimenti di C. s'imposero all'ammirazione della posterità (Cicerone lo esalta come uno dei più grandi Romani, e commosso è l'elogio di Livio, XXXIX, 40, 4 seg.) e fecero passare nell'ombra i difetti dell'uomo, alcuni dei quali tipici del contadino d'ogni tempo: mancanza di riguardo e di tatto, facilità a giustificare astutamente alcune azioni in contrasto con i principî professati, avarizia alle volte sordida con traffici d'ogni sorta egli accumulò una grossa sostanza; v. Plut., 21), avversione testarda e rabbiosa agli uomini di signorile elevatezza d'animo e di cultura, fanatismo e pregiudizî tenaci, come il suo odio contro i Greci. La Roma di Manio Curio e di Fabio Massimo ebbe in C. il suo ultimo assertore; ma il destino volle che egli vecchio la vedesse sprofondarsi, sorda ai suoi richiami, nell'abisso del passato.
Lo scrittore. - Huic versatile ingenium sic pariter ad omnia fuit, ut natum ad id unum diceres, quodcumque ageret, dice di C. Livio (XXXIX, 40), e infatti nei suoi scritti noi troviamo un'espressione così viva e immediata della sua singolare personalità di uomo privato e pubblico, che essi sono fra i più originali della letteratura latina, sebbene di quasi tutti non siano giunti a noi che frammenti. Delle sue orazioni, alle quali egli diede per primo in Roma forma letteraria, la più antica databile risale al suo consolato, 195 a. C., e al tempo di Cicerone se ne conoscevano circa centocinquanta (Cic., Brutus, 65). Egli le componeva con cura e le conservava in codices lignei nel suo archivio. Alcune pubblicò immediatamente come libelli politici, per influire più durevolmente e su un pubblico più largo che non fosse il Senato o la cerchia di coloro che assistevano ai processi: ebbe cioè la stessa idea di Demostene; altre invece egli inserì nella sua opera storica Origines, come l'orazione per i Rodî (essa correva però anche a parte) e quella contro Galba: e qui egli fu originale per un certo tempo. Non furono però molto lette e Cicerone solo nel Brutus mostra di conoscerle adeguatamente; forse Attico ne aveva pubblicato, a sua istanza, un'edizione completa, e dopo d'allora esse furono largamente studiate (v. M. O. Baumgart, Untersuch. zu den Reden des M. Porcius Cato Censorius, I, Breslavia 1905, e Leo, Gesch. d. röm. Lit., I, p. 284).
Le principali orazioni di Catone a noi note sono (i rimandi si riferiscono all'edizione del Jordan): la oratio quam habuit Numantiae apud equites (i cavalieri del suo esercito in Spagna nel 195; 2 fr., or. V J.); l'orazione de sumtu suo, la serie delle orazioni censorie, con frammenti del più grande interesse: le più notevoli quella sulle misure da lui prese contro il lusso (in censura de vestitu et vehiculis; XXI J., e forse anche de signis et tabulis, LXXII J.); quelle contro personaggi da lui notati d'ignominia, L. Quinzio Flaminino (XVII J.), un L. Veturio (XVIII J.), un Claudio Ner0ne (XX J.); quelle di carattere amministrativo, ad litis censorias (XXIII J.), in L. Furium de aqua (XIX J.), uti basilica aedificetur (XXII J.), e in fine sulla felicitas del lustrum da lui celebrato (XXIV J.). Abbiamo poi frammenti di suasiones di leggi (lex Voconia, XXXII J.; cfr. anche LXXIV-LXXV J.) o dissuasiones (lex Junia, VI J.; contro l'abrogazione delle leggi Baebia e Orchia, XXV e XXVII J.; cfr. anche LXXVIII, LXXX J.), di un discorso de ambitu (XXVI J.), di orazioni sulla politica estera: de re Histriae militari (XXVIII J.), de Macedonia liberanda (XXXIII J.), pro Rhodiensibus (XXXIV J.), de Achaeis (XXXV J.), de bello Karthaginiensi (XXXVII J.); o su questioni di diritto pubblico e amministrativo: ut plura aera equestria fierent (LXIV J.), de aedilibus vitio creatis (LXV J.), aediles plebis sacrosanctos esse (LXVI J.), de tribunis militum (XXX J.), de auguribus (LXVII J.), sulla successione dei magistrati (LXIX J.), contro l'iterazione del consolato (XXXVI J.), sulle prede e le spoglie (LXX, LXXI, LXXIII J.). Ora egli interviene in difesa dei provinciali, in P. Furium pro Hispanis (XXXI J.), contra Ser. Galbam pro Lusitanis (XXXVIII J.), o difende sé stesso: dierum dictarum de consulatu suo (I J.), de sumtu suo (II J., ampio e caratteristico frammento), pro se contra C. Cassium (LIV J.), de innocentia sua (LVI J.), o accusa i suoi avversarî: almeno cinque orazioni contro Q. e L. Minucio Termo (VIII-XII J.), quattro contro Glabrione (XIII J.), contro M. Fulvio Nobiliore (XIV J.), in Lentulum apud censores (XLI J.), contra Ser. Galbami ad milites (XXXIX J., cfr. anche le oraz. XLII-L J.), o difende altri accusati (LI-LIII, LV J.), o tratta cause private (orazioni LVII-LXII J.) e disserta di diritto privato (de dote, LXVIII J.). Tutti gli aspetti della vita pubblica e privata di un personaggio romano dei più influenti e attivi si riflettono nelle orazíoni di Catone.
Cicerone, grande assertore delle glorie dell'eloquenza patris, lo paragona a Lisia, lo esalta (Brutus, 65) e ne scusa i difetti, specialmente la dizione rude e antiquata, la mancanza del numerus, cioè dell'armonia della prosa, e la struttura grossolana dei periodi, attribuendoli all'età che non aveva ancora sviluppato la tecnica artistica. E dopo Cicerone, la fama di C. oratore rifiorì; storici e giuristi, grammatici e antiquarî lo citano. Seguisse o no C. i precetti della retorica greca, ciò che alcuni negano, e abbia più o meno derivato da esemplari greci, non v'è dubbio però che egli aveva il senso della solennità oratoria e coscienza dell'effetto artistico di certi atteggiamenti stilistici, come dimostrano la scelta accurata delle parole, la ricchezza del lessico, che egli accresce con formazioni nuove d'ogni genere, la predilezione per le serie di sinonimi e per le distinzioni, per le paronomasie e le anafore, la costruzione logica e subordinata di certi periodi. Se si aggiunge la calda passione che animava, l'altezza morale dei suoi concetti, la ricchezza e l'arguzia dei suoi motti e delle sue osservazioni, la drastica evidenza del suo linguaggio e la concisione, si capisce il grande effetto che le sue orazioni ottennero sui contemporanei e l'ammirazione dei posteri anche per noi molti suoi frammenti vanno posti fra quanto di più altamente e autenticamente romano ci sia pervenuto.
C. lasciò poi una grande orma nella storiografia romana. Per l'educazione del figlio, che egli non volle affidare a schiavi letterati, scrisse di suo pugno (intorno al 185) un compendio di storia romana. Nel relativo otium della seconda parte della sua vita, dopo la censura, e forse anche dopo il 168, egli si accinse a scrivere la sua opera storica Origines, alla quale lavorò sino alla morte.
In Roma, sino allora s'era scritta storia romana solo in greco, e in latino solo poemi storici in versi; i libri giuridici erano pure raccolte di leggi, di formule e di responsi. C. osò per primo scrivere la storia di Roma in prosa latina, e anche per questo, oltre che per le orazioni, egli si erge nella storia della letteratura come il fondatore della prosa letteraria latina. E originalissima era anche la sostanza dell'opera. Il titolo Origines, applicato a un'opera storica, è unico nella letteratura repubblicana. Egli dichiarava esplicitamente di non voler seguire, come i suoi predecessori, l'arido schema annalistico della tavola dei pontefici (fr. 77 Peter), ma, si sottintende, trattare solo dei fatti importanti (capitulatim dice Nepote), che potevano insegnare le grandi virtù dei maggiori. Il contenuto e la disposizione della materia sono brevemente accennati da Nepote, Cato, 3, 2-4. Le origines sono le κετίσεις dei Greci, la storia delle fondazioni e dei primordî delle città. Quindi un libro era destinato all'epoca regia, cioè all'origo di Roma, per la quale egli risaliva agli Aborigeni e alla venuta in Italia di Enea (fr. 4, 5 P.), e due alle origines delle città italiche; anche questa una novità, o meglio una singolarità, perché il concetto che la storia antica di Roma è la storia dell'Italia divenuta poi romana non ricorre né prima né dopo di lui: tutte le altre storie sono soltanto storie di Roma. Quale ordine C. tenesse nell'esporre le origini delle cittâ italiche, non sappiamo con certezza. È difficile poi vedere come si collegassero coi primi tre libri i quattro ultimi: difficoltà notata già dagli antichi. Infatti i quattro ultimi libri contengono una storia in ordine cronologico, dal principio delle guerre puniche al 149, che non poteva essere detta origines, e che è condotta su un piano tutto diverso da quello dei primi tre libri. Si congetturò da molti, a questo proposito, che essa sia stata edita postuma, aggiungendo ai tre libri compiuti delle origines, editi già prima a parte da C. stesso, i quattro libri di un'altra opera che egli stava scrivendo secondo un piano diverso, una storia cioè del suo tempo, ma che aveva inizio dalla prima punica, premessa necessaria della seconda; se pure le origines non sembrarono a C. la novità più importante dell'opera, che egli volle quindi designata tutta con quel titolo, o noi pretendiamo da lui nel titolo e nella distribuzione della materia un nostro rigore logico che era lontano dalla sua mente. Dello stile delle origines non possiamo dare un giudizio fondato, perché abbiamo solo frammenti brevi, e l'unico ampio (83 P. in Gellio, III, 7) non è interamente letterale. Quanto al contenuto, C., industrioso e curioso, non trascurò di attingere a tutte le fonti che gli potevano dare informazioni: cita iscrizioni (fr. 58 P.), e cronache locali (fr. 40, 45 e 49 P.). La geografia lo interessa molto (fr. 38, 85, 97, 110 P., ecc.), e in modo particolare i dati di economia agricola (fr. 39, 43, 57, 67, 74, 75 P.). Certamente egli usò anche fonti greche. Tratto caratteristico dell'opera era che essa non dava i nomi dei capitani. Essi erano tralasciati per i tempi più antichi anche negli annalisti, ma C. conservò il sistema anche per i tempi recenti. Con ciò C. voleva esprimere il suo pensiero, che le gesta compiute erano gesta del popolo romano e protestare contro l'invadente alla scarsa fortuna dell'opera, per quanto essa sia citata, specie da Gellio, dai grammatici e dai commentatori di Virgilio.
C. è poi l'autore del più antico libro di prosa latina giunto sino a noi, il De agri cultura (il titolo De re rustica è meno autorevole), l'unica opera catoniana che abbiamo intera. È un manuale pratico, nel quale un esperto parla in prima persona a un principiante, e la materia è desunta dall'esperienza, non da fonti letterarie; si può tutt'al più far questione di qualche rapporto generico con Senofonte. È perciò un libro prezioso, che ci rivela la vita, la mentalità, i procedimenti tecnici e i criterî economici di un agricoltore romano del sec. II a. C.
Il contenuto del libro è complesso, e non si riferisce solo all'agricoltura, ma a tutto il governo della casa, dall'acquisto del fondo alla costituzione degli edifici; e vi figurano ricette mediche, culinarie, rituali religiosi e formule magiche, schemi di contratti, ecc.; tutto ciò insomma che poteva essere utile a sapersi per un agricoltore. Il proemio è pervaso da un alto concetto della nobiltà dell'agricoltura. C. non è però un esteta dell'agricoltura; in essa, da vero romano, egli vede solo la fonte più sicura e onorevole di guadagno, e il fondo è per lui un piccolo mondo che si governa come uno stato. Il sistema agricolo che si rispecchia nel trattato è quello del periodo dopo la guerra annibalica, che vide la decadenza rapida della granicoltura, sostituita dalla coltura dell'olivo, della vite e degli ortaggi e dal pascolo: il grano veniva coltivato solo per l'uso domestico o poco più, e nel libro prevalgono quindi i consigli per la vigna e l'oliveto e per la confezione del vino e dell'olio.
Più si procede nella lettura dell'opera, più è difficile trovare nel manuale un ordine: si possono tutt'al più isolare alcuni gruppi di precetti o notare la relazione fra precetti collocati in punti diversi. Il disordine è così grave, che si suppose che il libro, essendo rimasto lungo tempo in uso come manuale pratico, abbia subito delle modificazioni e delle interpolazioni, finché fu poi edito prendendo per base una delle copie più arricchite, ma appunto perciò più interpolata e disordinata. Altri invece pensano che il disordine risalga allo stesso C., che avrebbe arricchito di note e appunti il suo libro; ma a questa ipotesi sembra contrastare il proemio, il quale mostrerebbe che C. intese dare una forma letteraria al suo libro e non potrebbe quindi averlo composto così senza ordine. C'è infine chi crede che C. abbia cominciato a scrivere il libro ma l'abbia poi lasciato allo stato di abbozzo; vi sarebbero state fatte poi da altri delle aggiunte e sarebbe stato pubblicato postumo.
Lo stile è quello delle leggi, brevi massime all'imperativo o al congiuntivo esortativo, staccate fra loro o anaforicamente disposte: tuttavia vi si sente spesso l'unghia del leone. La lingua fu certo rammodernata.
C. compose anche scritti per l'educazione del figlio, Ad Marcum filium, vademecum del padre al figlio, nei quali egli parla da veggente (et hoc puta vatem dixisse; Plinio, Nat. Hist., XXIX, 14).
Si pensò che questi varî scritti formassero un complesso unico, una specie di enciclopedia romana. Abbiamo citazioni generiche di questi libri e citazioni con indicazione del contenuto di libri singoli: uno sull'agricoltura (Servio, Ad Georg., II, 412: in libris ad filium de agricultura), dal quale derivano per citazione o per riferimento congetturale detti famosi (Jordan, p. 78 seg.): Vir bonus, Marce fili, colendi peritus, cuius ferramenta splendent. - Laudato ingentia rura, exiguum colito (in Virgilio, Georg., II, 412, ma da C., secondo lo scoliaste), uno forse di medicina: Plinio (Nat. Hist., XXIX, 15) cita una raccolta di ricette mediche di C. (commentarium quo medeatur filio servis familiaribus), e una funzione così importante del capofamiglia non poteva non essere trattata nei libri Ad filium. Non era però scienza greca, ché anzi C. odiava, come abbiamo detto, i medici greci. Si congettura poi un altro libro sull'eloquenza (v. Quintiliano, III, I, 19: Rhet. lat. min., p. 308 Halm). Ne deriva forse la celebre definizione dell'oratore (vir bonus dicendi peritus) e il detto (praeceptum paene divinum, in Rhet. lat. min., p. 374 H.) rem tene, verba sequentur: cfr. anche il detto in Plutarco, 12, che i Romani parlavano col cuore, i Greci con le labbra. Al figlio C. aveva scritto anche delle lettere (Jordan, p. 83). È citato anche un liber de re militari (Jordan, p. 80), che egli stesso pubblicò (fr. 1) e che pare non fosse compreso fra i libri ad filium; in esso C. si rivolgeva ai capitani in prima persona (fr. 9, 11, 13). C. scrisse anche di diritto: Commentarii iuris civilis, Festo, p. 144 L. (cfr. Cicerone, De orat., III, 135; Pomponio, De orig. iuris, 38); altre citazioni è verosimile si riferiscano a un'opera giuridica del figlio Catone Liciniano (v.); alcuni pensarono che fosse uno dei libri ad filium, ma pare a torto.
Infine è testimoniato un carmen de moribus (Jordan, p. 82), nel quale egli specialmente descriveva gli antichi costumi dei maggiori. La parola carmen, che vale anche serie di sentenze, di proverbî, non deve far supporre, come alcuni pensarono, che esso fosse in versi. Motteggiatore argutissimo, molti dei suoi detti erano assai diffusi nell'antichità, e ci sono riferiti da Cicerone e Plutarco; egli stesso ne raccolse per suo conto di altri, e la raccolta fu poi pubblicata e Cicerone se ne servì (cfr. De orat., II, 271; De off., I, 104).
Come si vede, C. non fu un grandissimo scrittore, ma uno scrittore vario, fecondo e originalissimo. La sua voce poi è pressoché l'unica espressione a noi giunta genuina e autentica dell'anima di quelle generazioni romane rurali, ancora quasi incontaminate, che fecero cose immense: che difesero l'Italia contro Annibale, che conquistarono la Cisalpina e la Spagna, che umiliarono i re dell'Oriente, che fondarono l'Impero. Perciò quello che di C. ci rimane è venerando monumento della nostra storia.
Fonti: Le principali sono i fr. degli scritti di C., Cicerone, specie nel Cato Maior, le biografie di Cornelio Nepote, di Plutarco e dell'autore del De viris illustibus, 47, e Livio dal libro XXIX alla perioca del L., passim.
Edizioni: La migliore raccolta dei frammenti di Catone è ancora quella di H. Jordan, M. Catonis praeter librum de re rustica quae extant, Lipsia 1860. Per i fr. delle orazioni ha scarso valore H. Meyer, Oratorum romanorum fragmenta, 2ª ed., Zurigo 1842, p. 11 seg. (una nuova collezione dei fr. degli oratori latini è in corso di stampa nel Corpus script. latinorum Paravianum a cura di E. Malcovati); cfr. L. Müller, in Rhein. Museum, XXIII (1868), p. 541 e XXIV (1869), p. 331. La raccolta migliore dei fr. delle Origines, in H. Peter, Historicorum romanorum reliquiae, I, 2ª ed., Lipsia 1914, pp. cxxv11 e 55 seg. L'edizione fondamentale del De agricoltura è quella di H. Keil, Catonis de agricultura Varronis rerum rusticarum libri, Lipsia I, fasc. 1°, 1882 (Catone, testo), II, fasc. 1°, 1894 (commento a Catone), III, fasc. 1°, 1897 (index verborum in Catonem, di R. Krumbiegel); l'ultima edizione nella bibl. teubneriana è di G. Goetz, 1922. Per le opere giuridiche di Catone o a lui attribuite, V. F. P. Bremer, Iurispritdentiae antehadriamie quae supersunt, Lipsia 1896, I, p. 16 seg.
Bibl.: La più completa biografia moderna di Catone è in W. Drumann e P. Groebe, Geschichte Roms, V, Lipsia 1912, p. 102 segg. V. inoltre: Vollertsen, Quaest. Catonianarum seu de vita Catonis, ecc., Kiel 1880; G. Cortese, De M. Catonis vita, operibus et lingua, Savona 1885; P. Fraccaro, Sulla biografia di Catone maggiore sino al consolato e le sue fonti, in Atti Accad. Virgiliana di Mantova, 1910, p. 99 seg.; id., Le fonti per il consolato di M. Porcio Catone, in Studi storici per l'antichità classica, III (1910), p. 129 seg.; id., Catoniana, ibid., p. 241; id., Ricerche storiche e letterarie sulla censura del 184-183, ibid., IV (1911), p. 1 seg.; id., I processi degli Scipioni, ibid., p. 117 seg.; F. Del Pozzo, Il console M. Porcio Catone in Spagna, Vicenza 1921; A. Schulten, Numantia, I, Monaco 1914, p. 322; IV, 1929, pp. 37 e 191; Th. Mommsen, Geschichte Roms, trad. ital. di L. di S. Giusto, I, Roma 1902, p. 764 (a proposito dei giudizî del M. su Catone cfr. A. Grandis, in Atene e Roma, XX, 1917, p. 203); O. Jäger, M. Porcius Cato, Gütersloh 1892; A. Besançon, Les adversaires de l'Hellénisme à Rome pendant la période républicaine, Parigi 1910, passim; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, ii, Torino 1917 e IV, 1923, i, passim (spec. IV, i, p. 579 seg.); Th. Birt, Röm. Charakterköpfe, 6ª ed., Lipsia 1924, p. 35.
Per le opere di C. v. in generale F. Leo, Gesch. der röm. Literatur, I, Berlino 1913, p. 265 segg.; E. Norden, Die antike Kunstprosa, I, Lipsia 1923, p. 164; M. Schanz e C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed., Monaco 1927, p. 178 seg. (vi è indicata la letteratura speciale). Per le orazioni: A. Cima, L'eloquenza latina prima di Cicerone, Roma 1903, p. 17 seg.; P. Fraccaro, gli studî citati sopra e L'orazione di C. de sumtu suo, in Studi Storici, III (1910), p. 378; C. Cichorius, Röm. Studien, Lipsia 1922, p. 91 (oraz. ad milites contra Galbam); E. Weiss, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung f. Rechtsgesch., Roman. Abt., XLV (1925), p. 97 (oraz. in L. Furium de aqua). Sul De agri cultura, v. E. Hauler, Zu Catos Schrift über das Landwesen, Vienna 1896; H. Gummerus, Der röm. Gutsbetrieb als wirtschaftl. Organ. nach den Werken des Cato, ecc., in Klio, suppl. V, Lipsia 1906; W. E. Heitland, Agricola, a study of agriculture and rustic life in the greco-roman World from the point of view of labour, Cambridge 1921; J. Hörle, Catos Hausbücher. Analyse seiner Schrift de Agri cultura nebst Wiederherstellung seines Kelterhauses u. Gusthofes, Paderborn 1929; A. Arcangeli, I contratti agrari nel de agricultura di Catone, in Studi dedicati alla memoria di P. P. Zanzucchi, Milano 1927; G. Curcio, La primitiva civiltà lat. agricola e il libro dell'agricoltura di M. Porcio Catone, Firenze 1929.