RICCI, Marco
– Pittore, scenografo, incisore e disegnatore di finissima qualità, Marco Ricci nacque a Belluno, in località Campitello, il 5 giugno 1676 da Girolamo e da Girolama Trevissoi. La sua numerosa famiglia contava altri dodici figli, dei quali non tutti raggiunsero l’età matura. Fratello di suo padre era Sebastiano, destinato di lì a breve a divenire uno dei più famosi artisti del continente, colui che seppe traghettare la pittura veneziana secentesca da un certo accademismo post-palmesco, che sopravviveva ribadendo moduli oramai ripetitivi, verso un rinnovato linguaggio ricco di stimoli nuovi che portarono al trionfo tiepolesco. Attento alla lezione dei Carracci, soprattutto di Annibale, come a quella di Luca Giordano, Sebastiano elaborò un vocabolario inedito agli albori del Settecento riscattando la pittura veneziana alla luce di un ricorso veronesiano prodromo di esaltanti soluzioni. Marco, fin dalla sua prima maturità, fu accanto a lui, divenendo abilissimo nel comporre magistrali fondali architettonici e teatrali alle rappresentazioni dello zio.
Le fonti narrano che Marco «fin da fanciullo fu con lo zio a Venezia» (Ticozzi, 1818, p. 240); tuttavia, poiché la gioventù di Sebastiano fu piuttosto turbolenta, risulta difficile collocare cronologicamente il trasferimento veneziano del nipote, e quindi il suo alunnato, presso di lui. Sebastiano, infatti, si era trasferito a Venezia, dodicenne, nel 1671, ma nell’autunno 1682 documenti d’archivio lo danno residente in Bologna già «da tempo» (Moretti, 1978, p. 97). Pare fosse fuggito da Venezia a causa di problemi con la giustizia, ma, dopo i primi successi bolognesi, entrò nelle grazie del duca Ranuccio II Farnese e lavorò proficuamente per lui, prima a Parma e poi a Roma. In Laguna non rientrò prima del 1796, dopo una lunghissima assenza, e a quell’epoca Marco era già ventenne e questo contraddirebbe il suo alunnato ‘da fanciullo’ presso lo zio. Si narra inoltre che anche Marco in gioventù fosse incappato in un fatto di sangue che lo costrinse a fuggire lontano da Venezia: secondo Tommaso Temanza, che pur doveva avere notizie relativamente fresche, «in sul bollor degli anni suoi era uomo rissoso e dato alla cattiva vita, né si vergognava di frammischiarsi nella taverna alla vile plebaglia», finché una notte «si chiamò offeso […] di certe parole dettele da un gondoliere, onde prese un boccale e lo spezzò sul capo a quell’infelice e lo uccise. Per lo che suo zio lo mandò a Spalato in Dalmazia, e lo raccomandò a un valente pittore paesista, sotto il quale apprese molto. Stette colà circa quattro anni e poi ritornò a Venezia avendo suo zio acquetata la giustizia» (Temanza, 1738, 1963, p. 70). Il manoscritto del Temanza suggerisce anche un’eventuale cronologia di questi fatti, dal momento che, dove parla dell’omicidio, egli scrive, e poi cancella, «circa l’anno 1705 fece un certo crimine a Venezia» (ibid., p. 71). Di là dal fascino romanzesco di questa fuga dalla città, che fa da pendant a quella di Sebastiano, nessun’altra fonte conferma autonomamente questi rocamboleschi spostamenti, così come nessun’altra prova evidente suggerisce quali siano stati i prodromi della formazione di Marco presso l’improbabile maestro spalatino che, con più concretezza si è voluto identificare con il ramo anconetano della famiglia dei Peruzzini, paesaggisti ben noti alla fine del Seicento. Tuttavia, piuttosto che una radice peruzziniana, i primi dipinti documentati di Marco mostrano una netta attenzione a Salvator Rosa, a Johann Anton Eismann e al Cavalier Tempesta, come il Paesaggio con temporale monogrammato MR e datato 1701 (già Roma, collezione Morandotti; ora ubicazione sconosciuta). Un paesaggio corrusco, ancora prepotentemente secentesco, ma già acceso da luci potenti ed emotive, foriere d’interessanti soluzioni future: alberi secchi e contorti, rocce e torrioni, nuvolaglia cumuliforme che si squarcia all’improvviso in vaghi sprazzi d’azzurro, un repertorio complesso che trasfigura la natura in una rappresentazione drammatica e inquieta. Ma non furono certo solo il Rosa e i suoi coevi a stimolare l’attenzione del giovane Ricci: un artista colto e bizzarro, Alessandro Magnasco, dalla personalità innovativa e dirompente seppe stimolare la sua creatività e innescare in lui la tensione verso formule originali e di incredibile modernità. L’incontro di Marco con Magnasco dev’essere stato più precoce di quanto non sia documentato e da ricondurre quindi alla metà degli anni Novanta del Seicento, quando Sebastiano, reduce dai successi farnesiani e romani, lavorò in Lombardia a importanti commissioni, nella chiesa di S. Bernardino alle Ossa, a Milano, e a Monza, al duomo. Ci sono, infatti, opere ancora tardo-secentesche del Ricci maggiore dove già si possono intravvedere premesse dell’intervento del nipote, come nella pala dell’Angelo custode (Pavia, chiesa di S. Maria del Carmine), con uno sfondo paesaggistico dai toni cupi, illuminati a effetto da improvvisi lampi di luce. A Milano, in quegli anni, era di casa anche il Magnasco, che, per i fondali, si serviva spesso della collaborazione di Clemente Spera e di Antonio Francesco Peruzzini, quel pittore che si è ipotizzato sia stato originario maestro di Marco Ricci. Anche Sebastiano non disdegnava la collaborazione di entrambi questi artisti, com’è evidente nel Gesù tentato nel deserto (Casale Monferrato, collezione privata), dove le rovine rivelano la mano del primo, o come nelle Tentazioni di s. Antonio Abate, dipinto commissionato dal marchese Cesare Pagani, notissimo politico del tempo e grande collezionista, dove l’intero paesaggio è opera dell’anconetano. Forse fu proprio la frequentazione di tali personalità artistiche che fece crescere in fretta Marco e che gli permise di sviluppare, con un linguaggio sempre più autonomo, il proprio indubbio talento per la raffigurazione naturalistica e architettonica. Fin dagli albori del Settecento lo si vede quindi attivissimo e stretto collaboratore dello zio, con la realizzazione di emozionanti fondali scenografici che abbracciano e integrano le invenzioni di Sebastiano contestualizzandone il vivacissimo e dinamico racconto figurativo. Nello stesso tempo, si sperimentò in curiosi giochi a più mani con altri artisti, assai di moda all’epoca, come testimonia l’iscrizione apposta sul retro di un Paesaggio con anacoreti, più noto come Tebaide (già Bolgheri, collezione Della Gherardesca) che recita: «Paese del Bianchi di Livorno; figure di Alessandro Magnasco di Genova; l’erbe di Nicola van Oubrachen; l’acqua e i sassi di Marco Ricci veneziano». Il dipinto, datato 1705, è riferibile al tempo di una stretta frequentazione fiorentina che vedeva Sebastiano Ricci figurista impegnato nelle decorazioni di palazzo Marucelli e di palazzo Pitti, alle quali affiancava una stretta frequentazione del gran-principe Ferdinando, collezionista e mecenate tra i più illuminati delle ultime generazioni medicee. è probabile che tramite di questo rapporto sia stato Niccolò Cassana, artista assai accreditato presso la corte fiorentina, procacciatore di dipinti per il principe e suo agente a Venezia fin dal 1698 (Fogolari, 1937). Il rapporto di Sebastiano si fece più personale a partire dalla metà del 1704, quando egli consegnò una Crocefissione con la Madonna, s. Giovanni e s. Carlo Borromeo (Firenze, Galleria degli Uffizi) destinata alla chiesa delle monache di S. Francesco de’ Macci, la cui consacrazione avvenne il 4 ottobre di quell’anno. Da questo momento cominciò un carteggio e un rapporto diretto tra i due, nel quale s’inserì anche la figura di Marco, cui lo zio fece da validissimo sostenitore. Infatti, il 1° maggio 1706 Sebastiano scrive al suo blasonato interlocutore: «Ecco […] due cassette, una con due paesi di mio nipote umilissimo servitore di V.A.R.S. e l’altra con li due sfondi del sig. canonico Marucelli. Li due paesi e un altro picciolo nella cassetta delli due sfondi […], le figurine del picciolo sono fate da me, e l’altre dal paesista» (Firenze, Archivio di Stato, Mediceo del Principato, 5903, n. 197). La risposta di Ferdinando è inequivocabile e dimostra come, già in quegli anni, il talento di Marco fosse noto e apprezzato: «li due paesi del suo nipote […] son ben degni del gradimento ch’io ne ho a lui» (Firenze, Archivio di Stato, Mediceo del Principato, 5903, n. 500). Fu già in questi primi anni del Settecento che lo stile di Marco assunse una propria fisionomia, più strutturata e autonoma e assolutamente innovativa rispetto al paesaggismo veneto del secolo precedente: i cieli si schiariscono, le atmosfere si fanno più palpitanti, la figura umana assume un ruolo non più marginale e ben più carico di valenza narrativa. La strettissima collaborazione che s’instaurò con Sebastiano fu di certo foriera per Marco di una rapida rivoluzione sintattica. I suoi interventi nei dipinti dello zio elaborano delicati paesaggi collinari in perfetta sintonia con la narrazione dei primi piani, come nel Cristo consegna le chiavi a s. Pietro della chiesa parrocchiale di Trescore Balneario, nel Bergamasco, o scenografici fondali architettonici che chiosano ritmicamente la scena principale, come nella Continenza di Scipione o nella Famiglia di Dario davanti ad Alessandro (Raleigh, North Carolina Museum of Art). Ma nell’orbita del Ricci maggiore un altro promettente pittore instaurò un apporto collaborativo con Marco, Gian Antonio Pellegrini; l’armonica simbiosi che nacque da tale sodalizio è evidente nel Serpente di bronzo della chiesa di S. Moisé a Venezia, ma forse dovette essere altrettanto proficuo nei perduti affreschi di villa Giovannelli a Noventa Padovana.
Fu assieme a Pellegrini che Marco Ricci affrontò un’avventura d’indubbio prestigio internazionale. Nel 1707 Charles Montague, quarto conte di Manchester, giunse a Venezia come ambasciatore straordinario d’Inghilterra; l’anno successivo, alla vigilia del ritorno in patria, sedotto dalla creatività artistica veneziana, trascinò con sé a Londra Marco e il Pellegrini. Quest’ultimo aveva sposato nel 1704 Angela Carriera, sorella di Rosalba, una delle pittrici più amate dai raffinati collezionisti del Grand Tour. Le numerose lettere tra le due sorelle sono la fonte più attendibile e illuminante sugli accadimenti del soggiorno inglese dei due artisti e sui loro rapporti interpersonali (Rosalba Carriera, 1985). L’immediato, prestigioso primo incarico affidato ai due artisti riguardò le scenografie del Pirro e Demetrio di Alessandro Scarlatti e Niccolò Heym per il Queen’s Theatre di Haymarket, tempio dell’opera italiana nella capitale, dove il dramma andò in scena il 2 aprile 1709 sul libretto inglese dell’opera era di Owen McSwiny, a quell’epoca impresario del teatro. Protagonista ne fu Catherine Toft, futura moglie di Joseph Smith, console onorario inglese a Venezia. Il 4 aprile 1709 andò in scena la Camilla di Antonio Maria Bononcini e Silvio Stampiglia; il 23 marzo dell’anno seguente l’Idaspe fedele di Francesco Mancini, ma in questo caso le scenografie vennero firmate solo da Marco.
In parallelo con l’attività teatrale i due pittori veneti furono impegnati nella decorazione della residenza di Lord Manchester in Arlington Street, intervenendo sia nel salone che nelle pareti dello scalone, con opere di cui ora non rimane più traccia. Nello stesso 1709 entrambi si trasferirono nello Yorkshire, dove Charles Howard, terzo conte di Carlisle, commissionò loro la decorazione di Castle Howard, imponente residenza progettata da John Vanbrugh, che vi lavorò dal 1699 e il 1712. A Castle Howard, tra il 1709 e il 1710, Ricci e Pellegrini realizzarono un ciclo stupefacente, ricco di ben quaranta dipinti, «un repertorio poetico e fantasioso» fatto di vedute, paesaggi, capricci, spaccati della società del tempo (Delneri, 1993, p. 82): un campionario seducente, esemplificativo della loro perfetta collaborazione. Ma di lì a breve, nonostante altre importanti commissioni, come quella di Richard Boyle, terzo duca di Burlington, questa simbiosi era destinata a guastarsi travolta da dissapori non chiari, ma forse dovuti a Marco, la cui indole era di certo più bizzarra di quella del Pellegrini.
Nell’estate del 1711 il giovane Ricci lasciò Londra, diretto in tutta fretta a Venezia, accompagnato da Catherine Toft. Quella di Marco a Venezia appare quasi una spedizione punitiva nei confronti del Pellegrini, che, a Londra, era stato tra i pochi artisti invitati a partecipare al prestigioso concorso per la decorazione della cattedrale di Saint Paul. Quella di Marco a Venezia fu una breve comparsa: nei primi mesi dell’anno seguente egli era di nuovo in viaggio per l’Inghilterra, accompagnato da quello che era il più famoso pittore veneziano del tempo, suo zio Sebastiano. Le commissioni non tardarono ad arrivare, ed ecco i due Ricci impegnati nella decorazione del palazzo del duca di Buckingham, John Sheffield, perduta durante la ristrutturazione dell’edificio realizzata da John Nash agli inizi del XIX secolo. Ma il rapporto più proficuo in questo secondo soggiorno inglese fu certamente con Lord Burlington, Richard Boyle, al quale Marco era già ben noto: la presenza di Sebastiano accanto al nipote dovette sedurre il giovane lord, la cui formazione culturale era stata indirizzata, per volontà della madre Juliana, verso l’amore e la comprensione per l’arte e l’architettura italiana. Tra il 1713 e il 1714 i due Ricci realizzarono per lui alcune delle opere più eleganti e raffinate del loro repertorio: Sebastiano tele di decisa reminiscenza veronesiana, Marco fondali scenografici, a completamento delle tele dello zio, e suggestivi Capricci architettonico-paesaggistici, che ben sottolineano il suo talento di scenografo. Contemporaneamente, dalla Presentazione al Tempio alle Nozze di Cana alle mitologie di Burlington House in Piccadilly, la collaborazione di Marco arricchiva e completava i racconti testamentari o mitologici di Sebastiano con invenzioni architettoniche o paesaggistiche di sublime armonia. In dipinti come il Porto di mare o il Paesaggio con rovine, collocati originariamente nella Blue Velvet Room di Chiswick House e ora Chatsworth House (collezione del duca di Devonshire), il talento di Marco si esprime in tutta la sua autonoma creatività, manifestando la libertà espressiva che tanto conquistò il collezionismo inglese del tempo. In quegli stessi anni i due Ricci lavorarono anche nella residenza in St. James Square di Sir Henry Bentinck, che di lì a poco divenne il primo duca di Portland. Stando alle fonti, la decorazione, perduta nel 1936, si estendeva in tre stanze, nello scalone e in uno dei soffitti. Il fatto che i pagamenti di impegnativi complessi decorativi venissero quasi sempre intestati a Sebastiano non deve far ipotizzare che l’opera di Marco fosse in questi anni poco considerata, come farebbe pensare un accenno di Angela Carriera, moglie di Antonio Pellegrini, in una lettera alla sorella Rosalba all’inizio del luglio 1714: «Di Marco non se ne parla, come non fosse al mondo» (Rosalba Carriera, 1985, pp. 282 s., n. 237). I dissapori tra il giovane Ricci e il Pellegrini erano stati tali che certamente non sarebbe stato possibile un accenno benevolo al nostro artista. Di contro, altre fonti testimoniano quanto i suoi dipinti, soprattutto quelli a tempera su pelle di capretto, «a gara dai signori d’Europa gli venivano ricercati» (Orlandi - Guarienti, 1753, p. 363).
Nel 1715 i due Ricci fecero ritorno a Venezia. I guadagni accumulati grazie alle commissioni anglosassoni consentirono a Sebastiano di acquistare una splendida abitazione a ridosso di piazza S. Marco, in Calle del Salvadego. Loro compagna nel viaggio di ritorno fu Catherine Toft, che Marco aveva più volte immortalato in quelle scene di genere che si ricordano come Prove d’opera, ritratti di gruppo, a metà tra il serio e il faceto, che aveva eseguito durante il suo primo soggiorno inglese quando gravitava così intensamente attorno al mondo dell’opera italiana. A Venezia la Toft divenne poi la moglie del console onorario inglese Joseph Smith, mercante e collezionista, editore e patrono delle arti, intrigante e fondamentale figura del mondo artistico veneziano e del suo mercato, grande sostenitore di Sebastiano e Marco, come di molti altri pittori del tempo, in primis Canaletto e Zuccarelli. Altro legame fondamentale per Marco fu con Anton Maria Zanetti, uomo di profonda cultura e di grande ironia, deuteragonista perfetto di un carattere caustico e ombroso al tempo stesso com’era il suo. Fu proprio lo Zanetti a spronare Marco verso l’arte incisoria, con risultati sublimi: attualmente ci sono note 33 sue acqueforti: 20 furono pubblicate da Carlo Orsolini nel 1730 subito dopo la morte del pittore; una, lasciata inedita dall’Orsolini fu successivamente pubblicata da Marco Pitteri, che la dedicò a Giambattista Piazzetta; e infine 12, prove di stampa inedite, vennero rinvenute presso la collezione Remondini di Bassano (Bassano, Museo civico). Lo Zanetti fu anche, con lo Smith, tra i maggiori collezionisti di tempere su pelle di capretto realizzate da Marco, tecnica raffinata, che consentiva all’artista una più delicata espressione del proprio sentire, una maggiore morbidezza e liquidità d’impasti che giungevano a esaltare la sua straordinaria capacità di modulare luci ed atmosfere. La conferma di ciò viene già da una lettera del 10 agosto 1726 nella quale il nobile veneziano scriveva a Francesco Maria Gabburri, appassionato estimatore dei due Ricci fin dai primi anni del secolo, narrandogli di possedere a quell’epoca 24 tempere di Marco e ben 200 dei suoi disegni. Nel 1743 poi, a tredici anni dalla morte dell’artista, venne pubblicato un elegante volume dal titolo Catalogo delle ventiquattro acqueforti incise da D.A. Fossati da opere di Marco Ricci di proprietà di Joseph Smith e di Anton Maria Zanetti, che conferma la passione dei due collezionisti per questa particolare tecnica adottata da Marco.
Gli anni successivi al ritorno a Venezia dall’Inghilterra furono estremamente proficui per il Ricci. Intorno al 1718 egli realizzò, in collaborazione con Sebastiano, la decorazione ad affresco di villa Belvedere, residenza estiva nel bellunese del vescovo Giovanni Francesco Bembo, opera perduta nell’Ottocento, ma della quale ci resta testimonianza grazie ad alcuni acquerelli di Osvaldo Monti custoditi nel Museo di Belluno. Poco tempo dopo collaborò con lo zio per un altro prestigioso committente, il romano Pietro Gabrielli, sposo a Venezia di Maria Teresa, figlia di Ludovico di Valvassone. Gli splendidi otto dipinti del ‘cammarone nobile’ di palazzo Gabrielli a Monte Giordano a Roma, ora palazzo Taverna, arricchiscono i racconti mitologici e biblici di Sebastiano con fondali naturalistici, archeologici e architettonici che si integrano alla perfezione con gli episodi narrati in primo piano, dando ulteriore prova dell’armonica simbiosi artistica tra i due pittori.
Intensa fu per Marco in quegli anni anche l’attività scenografica: Sebastiano, nel 1719, divenne «conduttore sive patrone», cioè gestore, del teatro di S. Angelo (Moretti, 1978, p. 111), uno dei più prestigiosi della città. Fin tanto che durò questa gestione Marco ne fu l’unico scenografo, scalzando altri professionisti ben accreditati del settore, come Bernardo Canal, padre del Canaletto, che, vistosi messo in secondo piano, cercò maggior fortuna a Roma, recando con sé il figlio. È documentato che nelle due stagioni teatrali del 1718 e del 1719 Marco realizzò le scene per L’amor di figlia di Giovanni Porta, per il Pentimento generoso di Stefano Andrea Fioré e per l’Amalasunta di Fortunato Chelleri; successivamente, nel 1726, quelle per il Siroe re di Persia, con musiche di Leonardo Vinci, e per la Siface di Niccolò Porpora. Grande acquirente di gran parte dei disegni preparatori di tali scenografie fu il console Joseph Smith, che forse ebbe come suggeritrice la moglie, Catherine Toft, soprano di spicco, presentatagli proprio dai due Ricci.
Durante il terzo decennio del secolo importanti commesse coinvolsero l’artista. A partire dal 1723 l’architetto Filippo Juvarra, direttore artistico della casa reale sabauda, affidò ai due Ricci la realizzazione di svariate tele, alcune di assai grandi dimensioni, destinate alla Reggia di Venaria, ma nel contempo, tra il marzo del 1723 e l’agosto del 1724, commissionò specificatamente a Marco una grande Veduta del Salone del Castello di Rivoli (ora Racconigi, Castello). Il dipinto faceva parte di una serie di sei che dovevano documentare gli imponenti interventi juvarriani nella precedente struttura secentesca del castello e vennero commissionati ad alcuni dei più validi specialisti dell’arte prospettica del tempo, come Giovanni Paolo Pannini e Andrea Locatelli. Tutte le vedute vennero realizzate sulla base di disegni dello stesso Juvarra, e a Marco venne affidata quella che doveva raffigurare uno dei capolavori dell’architettura da interni juvarriana e che poi non venne mai realizzato, l’imponente salone da ballo (Scarpa Sonino, 1991, pp. 34, 61 s., 130 s.).
In quegli stessi anni entrambi i Ricci vennero coinvolti in una bizzarra operazione ideata da Owen McSwiny, ambizioso imprenditore teatrale a loro ben noto fin dal periodo londinese e perennemente in odore di fallimento, che, inseguito dai creditori, si era rifugiato in Italia riuscendo anche ad entrare in contatto con l’ambiente del console Smith. McSwiny pensò di sfruttare l’orgoglio patriottico anglosassone ideando un ciclo di dipinti che, sotto forma di ‘tombe ideali’, celebrassero i personaggi più illustri della storia recente inglese, a partire dalla rivoluzione del 1688: tale progetto interessò come esecutori i più noti artisti veneziani e bolognesi del tempo, da Canaletto a Donato Creti, da Giovan Battista Cimaroli a Giovan Battista Pittoni (Knox, 1983; Weinshenker, 2016). I dipinti avrebbero dovuto essere ventiquattro, e per ciascuno di essi vennero coinvolti tre pittori, uno per la parte paesaggistica, uno per quella architettonica, uno per quella figuristica; unicamente due tele videro l’intervento di due soli pittori, quelle affidate ai due Ricci (Scarpa Sonino, 2006), la Tomba allegorica del Duca di Devonshire e la Tomba allegorica di Sir Cloudesley Shovell, ora rispettivamente al Barber Institute of Art di Birmingham e alla National Gallery of Art di Washington. Nel medesimo lasso di tempo e sull’onda di questa esperienza, ma autonomamente e senza la collaborazione di Sebastiano, Marco realizzò una delicatissima gouache raffigurante un Capriccio con un monumento a Newton il cui destinatario fu il suo appassionato collezionista Joseph Smith. La tempera, che appartiene ora alle collezioni reali inglesi come gran parte dell’eccezionale raccolta del console onorario, fu preparata da un disegno di Sebastiano che evidenzia il solo elemento funerario, letteralmente trascritto da Marco (Windsor Castle, The Royal Library). L’ammirazione dello Smith per entrambi i Ricci è testimoniata dal gran numero di loro opere che compaiono nel suo inventario, ma non solo: oltre che possederne, egli fu tramite di vendita verso altre figure di spicco del collezionismo internazionale del tempo, come Samuel Hill, Henry Hoare e John Strange. Sempre per lo Smith i due Ricci realizzarono uno splendido ciclo di sette tele sui temi del Nuovo Testamento (ora Windsor Castle, The Royal Collection); in esse emerge palese la stupefacente intesa tra zio e nipote, il connubio perfetto che s’instaura tra il narrato, cioè le figure storiche o mitologiche di Sebastiano, e le architetture o i paesaggi, cioè le scenografie ideate da Marco. Se nel ciclo del Nuovo Testamento è predominante la parte dello zio figurista, sono numerosi in questo decennio i dipinti paesaggistici di Marco, spesso di dimensioni non contenute, ai quali alcune ‘macchiette’ di Sebastiano fanno da raffinatissimo decoro, animando la scena con inserti di grande vivacità e grazia. Tra essi basti ricordare alcuni assoluti capolavori, come quelli delle collezioni reali inglesi, già appartenuti a Smith, o i due raffinatissimi Capricci del Museo di Vicenza e già in collezione Barilla e soprattutto il Capriccio con rovine (Windsor Castle, The Royal Collection), firmato e datato 1729, che si può considerare l’ultima opera nota di Marco.
Fu in questo estremo terzo decennio del secolo, così ricco per l’espressione artistica del pittore, che Ricci si dedicò, con molta passione e cura, all’attività incisoria alla quale si è accennato; in questi suoi esperimenti grafici pare quasi che egli voglia creare un diario a posteriori delle tematiche e tipologie che lo ispirarono nel corso di tutta la carriera. Già lo si conosceva come ottimo disegnatore e geniale e caustico caricaturista, ma nelle incisioni egli trasfonde una raffinatezza e un’attenzione alla valenza del tratteggio che si tramuta in un segno vibrante e ricco di valenze atmosferiche.
Il 21 gennaio 1730 (1729 more Veneto), in circostanze non chiare, Marco Ricci morì. Aveva 56 anni e le fonti narrano versioni diametralmente opposte: il registro dei morti della chiesa di S. Moisè, chiesa nei cui pressi egli abitava con lo zio Sebastiano, attesta laconicamente la morte dopo otto giorni di febbre; il Temanza nel suo Zibaldone (1738) racconta invece che egli morì suicida, avendo volutamente alterato le dosi di una medicina prescrittagli da un medico. Per come lo narra il Temanza – «le saltò in capo di voler morire, ma voleva morire da cavaliere. Per tanto una mattina si vestì bizzarramente e si mise la spada al fianco. Poi si chiuse nella sua stanza e così vestito con la spada si coricò sul letto» (Temanza, 1738, 1963, p. 72) – tutto il racconto della sua fine ha un sapore romanzesco, del resto ben in linea con i vari episodi che, stando alle fonti, costellarono la vita di Marco: dall’uccisione di un uomo durante una rissa in una bettola, ai colpi di testa che lo portarono a precipitarsi da Londra a Venezia per convincere lo zio a seguirlo nuovamente in Inghilterra, pur di contrastare Gian Antonio Pellegrini, con il quale aveva avuto feroci screzi. Definito alternativamente dai contemporanei «rissoso e dato alla cattiva vita […], ma cortese e onorato nel conversare» (ibid., p. 70), ma anche «bizzarro e allegro di temperamento […], cortese ed onorato nel conversare» (Gherardi, 1749, p. 108), Marco appare caratterialmente contraddittorio; eppure la stupefacente serenità e il delicato equilibrio delle sue composizioni sembrano sconfessare un tale squilibrio: raramente un artista del suo tempo ha saputo comunicare una così totale empatia con il dato naturalistico e con l’apparato scenografico che egli crea nelle sue tele. La delicatezza dei toni, la sublime armonia nel rendere il paesaggio, la cultura profonda che egli sa trasmettere nell’accostare gli elementi dell’antico con una fantasia mai ripetitiva, e la sapiente abilità nel giocare con gli elementi atmosferici, fanno di lui un maestro nei confronti del quale molti altri grandi, da Canaletto a Guardi, per non dire di altri minori, furono totalmente debitori.
Fonti e Bibl.: Firenze, Archivio di Stato, Mediceo del Principato, 5903, n. 197; Firenze, Archivio di Stato, Mediceo del Principato, 5903, n. 500.
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