RONCIONI, Marco
– Nacque a Prato da Emilio di Luca di Giovan Battista. Secondo Sebastiano Nicastro (1919, p. 52) la nascita si deve collocare nel 1596. L’indicazione viene da una lettera di Francesco Cicognini, gesuita pratese contemporaneo di Roncioni, conservata nell’archivio del convitto Cicognini di Prato. In realtà, come risulta dall’elenco dei battesimi della collegiata di S. Stefano di Prato, Marco di Emilio Roncioni fu battezzato il 28 dicembre 1600 ed è quindi in questo anno che va collocata la sua nascita. Sicuramente ebbe due fratelli e una sorella: Guasparri, canonico, nato nel 1602 e morto nel 1660, che gli lasciò una piccola eredità; Lorenzo, nato nel 1605 e morto senza discendenza, e Olimpia, monaca, che viene ricordata nel testamento di Marco redatto nel 1676.
La famiglia discendeva da una nobile stirpe pisana, ma nel 1498, durante la guerra tra Pisa e Firenze, Girolamo di Iacopo si schierò dalla parte dei fiorentini e fu quindi dichiarato ribelle ed esiliato insieme con la madre, i fratelli e i figli. Mentre Girolamo passò poi al servizio del duca Cesare Borgia, il resto della famiglia si stabilì a Prato (Luzzati, 1973, pp. 34-36), dove nel 1512 Giovan Battista, fratello di Girolamo, ottenne la cittadinanza pratese grazie all’interessamento di Giuliano de’ Medici. È a questo ramo – che si costruì una discreta posizione economica con attività di lanaioli e rigattieri – che appartenne Marco (Fiumi, 1968, p. 471).
Sempre secondo Nicastro (1919, p. 52), la giovinezza di Roncioni passò tra banchetti e divertimenti e solo negli anni Trenta cominciò a pensare a una sistemazione. Fallito il tentativo di sposare una ricca vedova, nel 1637 si recò a Roma con il canonico Francesco Migliorati, appartenente a un’antica e ricca famiglia pratese. Roma, a partire dal Cinquecento, era divenuta meta di molti pratesi in cerca di sistemazione; alcuni erano rimasti, trovando collocazioni più o meno remunerative nella Curia e dando vita a una rete di contatti per gli arrivi successivi. A Roma Roncioni rimase alcuni anni, ma nel 1647 tornò a Prato in vista di un possibile matrimonio; svanita anche questa opportunità così come quella di una carica pubblica, si trasferì di nuovo a Roma, al seguito del marchese fiorentino Giovanni Corsi. Ma ai primi del 1650 era a Prato, dove nel 1655 (e non nel 1657, come indicato da Nicastro) ottenne la carica di provveditore della Grascia, che mantenne fino alla morte. Fu grazie all’eredità del fratello Guasparri che finalmente ottenne una certa agiatezza, cosa che gli permise nel 1663 di contrarre matrimonio con Anna di Francesco Bizzochi, appartenente a un’altra ricca famiglia pratese, che portò in dote 1400 scudi ( pp. 53-56). Dal matrimonio con Anna, vedova e non più giovane, non nacquero figli e il 30 agosto 1676 Roncioni dettò le sue ultime disposizioni (Badiani, 1949).
In definitiva, è alle clausole di questo testamento che Roncioni deve la sua notorietà. In esso infatti, dopo l’indicazione del luogo di sepoltura (la chiesa di S. Agostino, dove già riposavano i suoi antenati), il lascito per la celebrazione di una messa in perpetuo per la sua anima, i donativi alla sorella e alla moglie (alla quale doveva essere restituita anche la dote), seguivano una serie di disposizioni che stanno a indicare il suo attaccamento alla città e a quel nucleo di famiglie benestanti, più o meno antiche, delle quali faceva parte. Testò infatti che l’arredamento della casa, compresi i suoi libri e i prodotti alimentari conservati nelle cantine, fosse venduto e il ricavato investito in luoghi di monte. In questo modo si doveva assicurare il pagamento di due lasciti perpetui di 60 scudi annui da assegnare a due dottori in legge da scegliersi tra i membri delle famiglie Roncioni, Vai, Organi, Gini, Novellucci e Bocchineri, affinché soggiornassero per cinque anni a Roma per praticare la professione legale o all’«onorevole servizio» di cardinali, prelati o grandi personaggi, per progredire «nello spirito e nelle lettere». Roncioni indicò come erede dei beni stabili (la casa di abitazione e due poderi) il figlio di un cugino, Adriano di Luca Roncioni, e la sua discendenza; in caso di estinzione di quel ramo della famiglia – cosa che avvenne già con Adriano (Casotti, 1721, 1931-1932, p. 68) –, si dovevano usare i detti beni per il pagamento, ogni anno, di una dote di 100 scudi per una ragazza appartenente a una delle sei famiglie sopra indicate. Infine, «desideroso del bene et avanzamento della sua Città nel Santo Amore del Signore Iddio e nelle lettere», Roncioni stabilì che si aprisse una «pubblica libreria», nella canonica della cattedrale di Prato, o in altro luogo scelto dal vescovo. Per il finanziamento della biblioteca e del suo mantenimento – in presenza di un patrimonio di modesta entità – venivano destinati le caducazioni dei sussidi e delle doti e i beni lasciati ad Adriano, con il quale si estingueva la famiglia Roncioni a Prato. Il rispetto di queste volontà era affidato al vescovo pro tempore di Prato e l’amministrazione dei beni al capitolo della cattedrale, che avrebbe designato un depositario, mentre perpetui esecutori testamentari dovevano essere gli anziani, i seniori delle sei famiglie sopra ricordate, che, in caso di estinzione, avrebbero indicato la famiglia che doveva subentrare. Un meccanismo quindi abbastanza complicato, ma come nota Angiolo Badiani (1949, p. 21), ben congegnato dal notaio Domenico Novellucci, che aveva redatto l’atto. Nel 1722 fu così possibile l’apertura al pubblico della biblioteca in una stanza del vescovado, mentre nel 1751 fu trasferita in un palazzo appositamente costruito, che è tuttora la sua sede.
Roncioni morì a Prato il 31 luglio 1677. La data si ricava dal Lunario istorico pratese del 1721, che indica il giorno in cui viene celebrata la messa in suffragio.
In ottemperanza alle sue volontà fu subito redatto un inventario degli oggetti presenti nella sua abitazione, nonché dei suoi libri, in previsione della vendita. Quest’ultimo elenco, comprensivo di circa settecento titoli, permette di aggiungere qualche tassello alla ricostruzione di questo personaggio un po’ sottovalutato dai suoi storici: Nicastro infatti aveva ironizzato sui suoi trascorsi giovanili e sul fatto che non avesse lasciato libri alla biblioteca. In realtà, come evidenziato dal testamento, i libri erano stati venduti per incrementare le risorse per i lasciti e il loro inventario è di un certo interesse. Le opere degli autori latini, poeti, storici e prosatori, sono numerose (Ovidio, Sallustio, Giovenale, Orazio, Virgilio, Lucrezio, Cicerone), ma non mancano gli autori italiani: Boccaccio, presente sia con il Decameron sia con la Vita delle donne illustri, Guicciardini, Tasso, il poema Firenze di Gabriello Chiabrera, I ragguagli del Parnaso di Traiano Boccalini, le Epistole di Bruni (probabilmente Antonio, vista la propensione di Roncioni per la poesia); alcuni manuali di greco, di fisica, di procedura civile, alcuni libri di devozione, come la vita di s. Caterina de’ Ricci, fiorentina ma monaca a Prato, e il Martirologio, ma non mancano testi in odore di eresia o comunque non proprio allineati con la dottrina ufficiale della Chiesa, come il Malleus maleficarum, Il trionfo della croce di Savonarola, i Dialoghi di Leone Ebreo. Una biblioteca quindi che disegna un profilo culturale del suo proprietario interessante e che forse fu venduta anche perché non avrebbe incontrato molto favore nell’ambiente vescovile.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Prato, Comune di Prato, Stato civile, 2968, c. 92v; Magistrato di Grascia, 3964, c. 57r; 3972, c. 29r; Prato, Biblioteca Roncioniana, Mss. Roncioni, 785 (copia settecentesca del testamento); 1006, ins. 7 (inventario dei libri).
S. Nicastro, Il fondatore della Biblioteca Roncioniana, in Archivio storico pratese, II (1919), pp. 51-57; G.M. Casotti, Lunario istorico pratese (1721), a cura di R. Nuti, ibid., X (1931-1932), 2, p. 68; A. Badiani, Il testamento di M. R., ibid., XXV (1949), pp. 21-28; E. Fiumi, Demografia, movimento urbanistico e classi sociali in Prato dall’età comunale ai tempi moderni, Firenze 1968, p. 471; M. Luzzati, Una guerra di popolo. Lettere private dal tempo dell’assedio di Pisa (1494-1509), Pisa 1973, pp. 34-36.