SCIARRA, Marco
SCIARRA, Marco. – Conosciuto anche con il cognome di Sciarpa, sembra che fosse chiamato Sciarra dai suoi compagni per il significato dialettale del termine – rissoso, sbaragliatore – o per aver assunto tale soprannome dal nobile Sciarra Colonna. Questa ipotesi avrebbe anche fatto erroneamente individuare in Marco Sciarra un esponente della nobiltà romana ribelle al papa (Delumeau, 1959, pp. 556-561). Incerti sono sia la data sia il luogo di nascita. Secondo Niccola Palma (1892, III, p. 74) sarebbe originario di Castiglione (o Castaglione), piccolo paese di Rocca Santa Maria, nel Teramano; secondo il diario dell’arcivescovo di Lanciano Paolo Tasso (1588-1607) sarebbe invece nato a Lanciano (Carosi, 1992, p. 50).
Fu certamente di umili origini, come rilevato da scrittori suoi contemporanei: «Uomo, benchè di vil condizione, d’animo e di spirito elevato», scriveva infatti Tommaso Costo (Del Compendio dell’Istoria del Regno di Napoli [...] Aggiuntovi in questa ultima edizione il quarto libro che supplisce per tutto l’anno 1610, Venezia 1613, cit. in Villari, 1976, p. 84), o Giulio Cesare Capaccio che definiva Sciarra «homo basso, diventato un altro Spartaco» (p. 84 nota 147), cogliendo già un aspetto fondamentale che avrebbe fin dall’inizio alimentato leggende intorno alla sua figura e alle sue azioni e si sarebbe poi tradotto nell’immagine di «bandito sociale» proposta da Eric Hobsbawm (1959, 1971) e accolta anche dalla storiografia italiana (Villari, 1976). Secondo una tradizione, in cui non è difficile rintracciare stereotipi, Sciarra sarebbe stato messo al bando dopo aver compiuto un delitto per amore: invaghitosi di Camilla Riccio e scoperto il suo tradimento con Matteo de Lellis, avrebbe ucciso la donna e l’amante a pugnalate e sarebbe stato poi bandito per questo crimine. Il suo nome compare con quello di altri fuorilegge attivi in Abruzzo nell’editto emanato a Chieti, sede della Regia Udienza, da Carlo Gambacorta, regio consigliere, il 28 ottobre 1584.
L’azione di Gambacorta e la politica di repressione più incisiva attuata dal viceré, Juan de Zúñiga y Avellaneda, conte di Miranda, fece spostare anche la banda di Sciarra verso la Campagna romana e la Marca. Le capacità di comando permisero a Sciarra di unire sotto di sé piccole compagini di banditi che già infestavano le campagne e di formare un vero e proprio esercito che si spostava con velocità fra il Regno e i domini papali, approfittando anche del favore e della complicità di contadini. Come riferivano gli avvisi, Sciarra si definiva «Flagellum Dei, et commissarius missus a Deo contra usurarios et detinentes pecunias otiosas», incarnando così il ruolo del vendicatore dei torti della popolazione, specie rurale, angariata dall’avidità dei governanti, dalla tassazione, dalle carestie che, soprattutto fra il 1590-92, flagellarono sia lo Stato pontificio sia il Regno di Napoli.
Durante il pontificato di Sisto V, quando iniziò una più marcata repressione del banditismo, Sciarra divenne il capo riconosciuto di una numerosa compagine banditesca che si muoveva fra l’Abruzzo, la Sabina e la campagna, aiutato anche dalla complicità di esponenti del baronaggio romano, come Orsini, Colonna e Caetani che ospitarono le bande nei loro feudi, protetti dall’immunità. Il 25 aprile 1588 la banda di Sciarra, ormai simile a una formazione militare che marciava con insegne, fu respinta a Trasacco, sul Fucino, con grave danno per gli abitanti; nella primavera del 1589 sconfinò nel territorio della Repubblica di Venezia, fermandosi in Schiavonia e a Sebenico. Fra il 1588 e l’anno successivo, Sciarra ricomparve nella Marca e in Abruzzo, dove era stato inviato da parte del viceré un contingente di 7000 soldati, in maggioranza spagnoli, al comando di Carlo Spinelli, la cui presenza fu avvertita da Sisto V come una pressione minacciosa della Spagna nei suoi confronti. Le azioni banditesche di Sciarra, che si definiva «Re della Campagna», come riferito negli avvisi, si intrecciarono in questi anni con le vicende europee, segnate dalle guerre di religione in Francia, che videro il reclutamento di numerosi banditi da parte del pontefice in cambio dell’indulto, e soprattutto con l’ostilità fra Sisto V e Filippo II.
Nel 1590, Filippo II fece pressione sul pontefice attraverso l’ambasciatore a Roma Enrique de Guzmán, conte di Olivares, e il partito spagnolo nel S. Collegio, perché sostenesse le pretese spagnole in favore della Lega cattolica, servendosi delle formazioni banditesche e soprattutto di quella di Sciarra, che aveva fra le sue file anche il fratello Luca, Battistello da Fermo e altri «famosi» banditi. Nella primavera del 1590 Sciarra fece la sua comparsa nella Marca, per poi rientrare nel Regno; tra il 15 e il 20 luglio giunsero nei territori pontifici due compagini, guidate una dallo stesso Sciarra e l’altra da Battistello da Fermo, dirette una verso Norcia e l’altra verso Bracciano, dove – si diceva – si sarebbe unita a quella di Alfonso Piccolomini per assalire Roma. Gli uomini di Sciarra si erano radunati presso il possesso farnesiano di Castro, posizione strategica per minacciare sia il papa sia il granduca di Toscana, Ferdinando I, che da tempo dava la caccia a Piccolomini. Da Castro si ritirarono a Oriolo, sui monti Sabini, e, divisi in tre compagini, arrivarono a Prima Porta il 27 luglio 1590. Sisto V aveva inviato Ottavio Cesi contro le bande di Sciarra, ma i risultati furono scarsi.
Dopo la sua morte (29 agosto 1590) la pressione della Spagna sul S. Collegio per ottenere l’elezione di un papa filospagnolo si fece più forte e le compagini banditesche divennero un’efficace arma di pressione. Sciarra cercò di mantenere il favore della popolazione delle campagne anche grazie al controllo dei non rari eccessi compiuti dai suoi compagni. Come si desume infatti dalle testimonianze rese nei processi dagli abitanti di comunità vittime delle azioni del bandito, questi agiva talvolta secondo una confusa logica di ridistribuzione della ricchezza che permetteva di conservare il favore degli abitanti e di entrare comunque in possesso di denaro e di oggetti preziosi sottratti a persone ricche. Nell’aprile del 1591 Sciarra saccheggiò Montopoli, vicino Fara in Sabina, non risparmiando la vicina abbazia di Farfa; diversi religiosi si unirono ai banditi in questa impresa: alcuni massari e altre persone facoltose furono catturati e fu chiesto un riscatto per la loro liberazione, poi fu dato l’assalto al Monte di pietà. Ma anche in questa occasione, furono risparmiate persone povere impossibilitate a pagare i riscatti. Nello stesso periodo continuarono le incursioni nella valle dell’Aniene.
Con la cattura di Piccolomini il 5 gennaio 1591 e la sua esecuzione (16 marzo 1591), si fece più difficile la situazione anche per il fuorilegge abruzzese. I banditi più noti, fra i quali figurava Sciarra come primo firmatario, presentarono nel 1591 al papa Gregorio XIV un documento – «Capituli, patti e conditioni che se domanda a S. Beatitudine dalli retroscritti capi banditi» – chiedendo la grazia o l’indulto anche per i crimini di lesa maestà e impegnandosi a servire la S. Sede nelle guerre in Francia. Con l’elezione di Clemente VIII, il 30 gennaio 1592, cambiò la politica di repressione del banditismo, mentre stava mutando anche lo scenario internazionale. Nel Regno il comando delle truppe contro i banditi fu affidato nel 1592 ad Adriano Acquaviva, conte di Conversano, dopo i ripetuti insuccessi di Carlo Spinelli, e nello Stato pontificio il contingente fu guidato da Flaminio Delfino e da Giovanfrancesco Aldobrandini. Clemente VIII, pur riproponendo ai fuorilegge la prospettiva di andare a combattere in Francia per la Lega cattolica e ottenere l’indulto, adottò sistematicamente la politica delle taglie per sgominare dall’interno le bande e rompere anche la solidarietà o quanto meno l’assenza di collaborazione della popolazione.
Mentre si faceva più stringente l’attacco delle truppe pontificie, che non risparmiavano le comunità e gli abitanti sospettati di connivenza con i banditi, Sciarra alla fine del marzo del 1592 attaccò il convento di frati zoccolanti di S. Maria presso Monte Brandano vicino ad Ascoli, dove un compagno cercò di avvelenarlo per guadagnare la taglia. Sentendosi braccato e sospettando tradimenti dei suoi seguaci, il bandito non risparmiò violenze agli abitanti delle comunità assalite: i misfatti erano puntualmente riferiti dagli avvisi che, in tal modo, diffondevano e rafforzavano un’immagine negativa del fuorilegge, completamente opposta a quella fino ad allora ben nota. Dall’Ascolano Sciarra si diresse a Subiaco per vendicarsi del cardinale Marcantonio Colonna, abate del monastero che aveva respinto i banditi dai suoi feudi. Nell’aprile del 1592 era stata emanata dal viceré una nuova prammatica De exulibus che prevedeva una taglia di 4000 ducati sulla testa di Sciarra.
Le violenze e gli assalti alle comunità si concentrarono, nella primavera del 1592, nella valle dell’Aniene e del Giovenzano: fu distrutta Rocca d’Elce e gli abitanti uccisi; fu poi la volta di Cerreto, assalito da 300 banditi, che oppose una forte resistenza, e di Cervara, paese «di cento fuochi, presso Subiaco, 60 tra huomini et donne et poi datole fuoco et abbrugiato fino li putti nelle culle», come riferiva un avviso del 18 aprile 1592; il villaggio La Prugna fu completamente distrutto. All’inizio di maggio Sciarra si era avvicinato con i suoi a Subiaco, ma fu messo in fuga dalle truppe di Marzio Colonna e di Aldobrandini.
Dopo queste incursioni, Sciarra fu visto verso il 20 aprile a Campo Morto, vicino a Roma, ma da qui si spostò a sud, nei feudi dei Caetani di Ninfa, Norma – che saccheggiò, uccidendo 48 persone –, Sermoneta e Cisterna. Da qui si diresse verso Giuliano, feudo del cardinale Anton Maria Salviati, che guidava la congregazione per la repressione del banditismo: era un palese atto di vendetta. Ferito per una caduta da cavallo, fu portato a Tagliacozzo dai compagni ai quali aveva dato ordine di ucciderlo e di bruciare il suo corpo per non farlo cadere nelle mani pontificie. La banda si stava disgregando: dopo il sacco di Lucera nel maggio del 1592, durante il quale fu ucciso anche il vescovo, le compagini di Sciarra si divisero in due nuclei, uno attivo in Abruzzo e l’altro nella Campagna romana.
Comprendendo le difficoltà, Sciarra accettò di recarsi con quaranta compagni nel territorio della Repubblica di Venezia. Clemente VIII chiese la consegna del bandito, ma l’opposizione della Repubblica fu ferma e il papa minacciò di avvalersi dell’Inquisizione contro Venezia, perché «havendo li banditi tra li molti atti heretici da lor fatti, dato da mangiare la SS.ma Eucarestia alli lor cavalli, conseguentemente quelli che li hanno aiutati et salvati vengano ad esser incorsi nell’Inquisitione» (Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat., 1060, c. 336v). Fu inviato a Roma Leonardo Donà per mediare le posizioni e nel febbraio del 1593 si consigliò di trattare con prudenza la questione dei banditi e «di troncare con destrezza simile trattatione» (Fosi, 1999, p. 219).
D’altra parte, per Venezia l’arruolamento di banditi risultò problematico: nel marzo del 1593 alcuni di questi fuggirono in Dalmazia, ribellandosi al capitano di Arbe; altri, fra cui Sciarra, tornarono nei domini pontifici. Inviato con altri banditi a Candia e non a combattere gli Uscocchi come era stato loro promesso, Sciarra sbarcò di nascosto nei pressi di Ascoli e, mentre stava fuggendo verso il confine con il Regno, fu ucciso nel marzo del 1593 dal suo seguace Battistello che ottenne per sé e per tredici compagni la remissione della pena.
Fonti e Bibl.: G. Accolti, Raguaglio della morte di M. S., famosissimo bandito, et del successo de’ suoi seguaci, Roma, 1593; N. Palma, Storia ecclesiastica e civile della Città di Teramo e Diocesi Aprutina, III, Teramo 1892, pp. 74-81; J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, II, Paris 1959, ad ind.; E.J. Hobsbawm, Primitive rebels. Studies in archaic forms of social movement in the 19th and 20th, New York 1959 (trad. it. I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino 1966, p. 40); G. Morelli, Contributi a una storia del brigantaggio durante il vicereame spagnolo. M. S., in Archivio storico per le Province napoletane, s. 3, VII-VIII (1968-1969), pp. 293-328; E.J. Hobsbawm, Bandits, London 1969 (trad. it. I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Torino 1971, pp. 124, 129); R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari 1976, ad ind.; P. Benadusi, Un bandito del ’500: M. S. Per uno studio sul banditismo al tempo di Sisto V, in Studi romani, XXVII (1979), 2, pp. 176-188; R. Villari, Ribelli e riformatori dal XVI al XVIII secolo, Roma 1979, ad ind.; I. Fosi, La società violenta. Il banditismo nello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985, ad ind.; G.B. Carosi, Cerreto Laziale. Cenni storici e appendici, a cura di F. Pelliccia, Cerreto Laziale 1992, pp. 50-66: I. Fosi, I Caetani ed il banditismo nel territorio di Sermoneta, in Sermoneta e i Caetani. Dinamiche politiche, sociali e culturali di un territorio tra medioevo ed età moderna, Roma 1999, pp. 213-225; Ead., Banditismo, nobiltà e comunità rurali nello Stato Ecclesiastico fra Cinque e Seicento, in Banditismi mediterranei. Secoli XVI-XVII, a cura di F. Manconi, Roma 2003, pp. 23 s.