CATIZONE, Marco Tullio
Nacque a Magisano, un casale di Taverna in provincia di Catanzaro, in data imprecisata nella seconda metà del sec. XVI, da Ippolito e Petronia Cortes. Non è noto se appartenesse alla nobile famiglia dello stesso nome originaria di Taverna e presente allora anche a Magisano.
Ebbe una certa istruzione e si trasferì dalla natia Calabria a Messina, dove sullo scorcio del secolo risulta risiedere insieme con la moglie, Paola Gallardeta, e una figlia di cui si ignora il nome. Professione e condizione sociale restano oscure, ma non doveva essere privo di mezzi se nel 1598 poteva intraprendere un lungo viaggio che da Messina lo portò a Roma, Loreto, Verona, Ferrara ed infine a Venezia. Qui un soldato italiano, che aveva combattuto in gioventù in Africa al seguito del re Sebastiano del Portogallo, lo convinse della sua somiglianza con il defunto sovrano, non senza il concorso di altri improvvisati testimoni e di alcuni portoghesi che non esitarono a finanziarlo.
Caduto in battaglia nell'ormai lontano 1578, il re Sebastiano era divenuto per i Portoghesi, soggetti in conseguenza della sua morte all'odiata dominazione spagnola, il simbolo della perduta indipendenza nazionale e il pegno di un riscatto politico che secondo un tipico procedimento della coscienza mitica si prospettava come attesa messianica del principe redivivo. Ben tre persone si erano lasciate irretire fino ad allora in questa trappola, pagando sempre un prezzo piuttosto salato al mito nazionale portoghese. Quarto fu il C. che, diversamente dai suoi assai più sprovveduti predecessori, aveva stoffa di impostore e fondate speranze di riuscire a condurre un gioco più attendibile e magari prodigo di personali vantaggi. A tale scopo si procurò adeguata informazione delle più recenti vicende della storia portoghese e adattò il suo aspetto (si fece allungare un braccio e gonfiare una caviglia non senza sofferenze) a quello del defunto re.
Le autorità venete seppero presto che a Padova, dove il C. si era trasferito, qualcuno si spacciava per il re Sebastiano e gli intimarono lo sfratto, ma senza successo. Il C. si nascose, riapparve poco dopo a Venezia e poi di nuovo a Padova, mentre l'eco delle sue millanterie arrivava alle orecchie dell'ambasciatore spagnolo don Enrico de Mendoza, che il 7 nov. 1598 si presentò al Collegio per sollecitarne l'arresto, accertarne l'impostura e infliggergli il meritato castigo. L'ambasciatore si mostrò bene informato delle ciance del C. e a riprova addusse la circostanza decisiva che egli non mostrava di conoscere una sola parola della lingua portoghese, cosa che assai difficilmente poteva convenirsi al re del Portogallo. L'intervento del diplomatico spagnolo non valse tuttavia ad ottenere l'arresto del C., che, come denunciò in una seconda memoria l'ambasciatore, godeva a Venezia della protezione di nobili influenti e prelati maneggioni. Venuto "mezzo ignudo et senza nessun seguito, adesso si trova regiamente vestito con robbe di martori et frangie di oro, magna et beve opulentemente et mena seco una buona compagnia di altri furfanti". Il rischio che i riconoscimenti ottenuti a Venezia dal sedicente don Sebastiano avessero spiacevoli ripercussioni in Portogallo era sicuro. Occorreva quindi agire con tempestività. Le autorità veneziane si decisero allora a passare a vie di fatto e, dopo avere messo le mani su alcuni suoi complici e protettori, arrestarono il 26 novembre il Catizone.
Nelle more del processo, la notizia dell'avventura veneziana del C. giunse intanto in Portogallo e vi provocò tumulti popolari. Due frati furono inviati a Venezia con il compito di accertare l'identità del prigioniero, presunto re. I due si presentarono al savio di Terraferma, esibendo lettere di raccomandazione nientemeno che del re di Francia. Enrico IV in effetti aveva dato incarico al suo ambasciatore a Venezia di interessare alla liberazione del C. lo stesso doge. L'impostura del C. coinvolgeva così l'equilibrio europeo, diventava un vero affare di politica internazionale: altri due ecclesiastici portoghesi si recarono infatti a Roma per implorare un intervento pontificio, mentre a Venezia un emigrato portoghese, Sebastiao Figuera, portava dalla Francia lettere degli Stati generali dei Paesi Bassi, del conte Maurizio di Nassau e di don Manuel, primogenito di don Antonio priore di Crato, pretendente al trono di Portogallo. Da ultimo giunse a Venezia il secondogenito di don Antonio, don Cristovao, che l'11 dic. 1599 fu ricevuto in Collegio. Egli lamentò che le autorità veneziane non avessero permesso agli inviati portoghesi di accertare l'identità del prigioniero, avallando così il sospetto che si trattasse veramente del re don Sebastiano. Questo passo, al quale sicuramente non venne meno l'autorevole appoggio della diplomazia francese, risultò decisivo. La sentenza tuttavia fu emessa un anno dopo, il 15 dic. 1600: il C. veniva rimesso in libertà con un decreto di espulsione da tutto il territorio della Repubblica, sotto pena di incorrere in dieci anni di galera.
Travestito da pellegrino, il C. abbandonò Venezia in compagnia di un frate portoghese, per dirigersi verso Livorno e imbarcarsi alla volta della Francia. Nel corso del viaggio fece una sosta a Firenze dove commise l'imprudenza di rivelarsi come re del Portogallo. Fu arrestato e della sua prigionia fu data immediata comunicazione al re di Spagna, Filippo III, e al viceré di Napoli, conte di Lemos. Luno e l'altro si premurarono di chiederne la consegna, mentre Enrico IV inoltrava una risentita protesta presso la corte granducale. Ferdinando de' Medici era però troppo strettamente legato alla politica spagnola per dare ascolto alle proteste francesi. Fece tradurre il C. ad Orbetello dove una nave spagnola lo rilevò per condurlo a Napoli. Vi giunse il 1ºmaggio 1602, e l'astuto, viceré venne a capo rapidamente della sua impostura. Di lui fece fare il ritratto dal pittore Fabrizio Santafede per inviarlo insieme con una dettagliata relazione a Filippo III. Processato e riconosciuto reo confesso, fu condannato il 20 maggio 1602 alla galera a vita. Il re, tuttavia, volle che fosse tradotto in Spagna, dove mise piede allinizio del 1603. Benché detenuto, il C. ebbe modo di riallacciare i suoi antichi rapporti con i portoghesi ostili alla dominazione spagnola. Tanto bastò per essere processato di nuovo a Sanlucar de Barrameda e condannato questa volta a morte. Nel frattempo si era scoperta infatti una vasta congiura portoghese con ampia partecipazione di nobili e prelati che tentava di far leva sulla prigionia del falso re don Sebastiano per sollevare il popolo contro la Spagna. La sentenza contro il C. fu eseguita il 27 sett. 1603 nella pubblica piazza di Sanlucar.
Bibl.: U. Caldora, Il calabrese M. T. C., falso re Don Sebastiano del Portogallo (1598-1603), in Arch. stor. per la Calabria e la Lucania, XXVI (1957), pp. 421-448.