Cicerone, Marco Tullio Scrittore e oratore latino (Arpino 106 a.C
Formia 43 a.C.).
Nato da agiata famiglia equestre, ebbe a Roma come maestri di diritto i due Scevola, l’augure e il pontefice, di filosofia l’accademico Filone di Larissa e lo stoico Diodoto, di eloquenza specialmente Apollonio Molone di Rodi. Iniziò la sua carriera politica nell’80 a.C. con la difesa (vittoriosa) di Sesto Roscio Amerino accusato di parricidio per un intrigo a sfondo politico. Nel 75 ottenne la questura per la Sicilia occidentale, durante la quale si guadagnò la gratitudine dei Siciliani, che lo vollero loro patrono nella causa da essi intentata contro Verre. Appena C. presentò i risultati della sua inchiesta, Verre partì volontariamente in esilio. Edile curule nel 69; pretore nel 66 sostenne la legge che dava a Pompeo il comando (Pro lege Manilia o De imperio Cn. Pompei) della guerra contro Mitridate, perché, nonostante i profili di illegalità, rispondeva alle necessità del momento. Questo suo pragmatismo, unito a un innato buonsenso e a un temperamento moderato, lo aveva inizialmente reso avverso all’oligarchia. Ma avversò anche con pari fermezza, nell’anno del suo consolato (63), quelli che riteneva eccessi dei popolari, opponendosi alla legge agraria di Servilio Rullo, difendendo Gaio Rabirio, e, dopo ave- re stroncato il tentativo di Catilina di giungere al potere per vie legali, reprimendo quello di conseguirlo con la violenza. La congiura nella quale si sapevano implicati personaggi come Crasso e Cesare fu scoperta e soffocata nel sangue, anche per vie illegali, ma certo con coraggio e decisione. Da allora la forza stessa delle cose lo spinse nel campo dei conservatori stretti attorno a Pompeo; divenuto un ostacolo fastidioso per i triunviri, Cesare si sbarazzò di lui provocandone l’esilio (58). Il raccoglimento in cui si chiuse negli anni successivi gli permise di comporre il De oratore e il De republica. Si adoperò vanamente per scongiurare la guerra civile, e dopo avere a lungo tergiversato si schierò dalla parte di Pompeo; dopo Farsalo (48) si riaccostò a Cesare tributando persino qualche elogio al dittatore (nel Brutus e nel Pro Marcello). Fu questo il periodo più tormentato della vita di C.; alle angustie politiche si aggiungevano quelle familiari: nel 47 il divorzio da Terenzia, nel 45 la morte della figlia Tullia, e poco dopo il divorzio dalla seconda moglie, la giovane Publilia. C. allora cercò rifugio negli studi: ed è a questo periodo che risalgono le sue principali opere filosofiche. Dopo l’uccisione di Cesare (44) C. abbandonò Roma, dove rientrò in agosto schierandosi contro Antonio (contro il quale compose le 14 Filippiche). Formatosi però il secondo triunvirato, C., sacrificato da Ottaviano alla vendetta di Antonio, fu il primo dei proscritti: venne ucciso dai sicari di Antonio nelle vicinanze della sua villa di Formia.
A eccezione del De officiis, le opere filosofiche furono scritte in forma dialogica. C. seguiva il modello dei dialoghi aristotelici, dei quali sono pervenuti solo pochi frammenti. Una delle più caratteristiche innovazioni apportate da Aristotele al dialogo platonico era la presenza del Prologo, che infatti ritroviamo in tutti i dialoghi ciceroniani. Nella prima opera, il De republica (iniziata nel 54 e, dopo vari rimaneggiamenti, compiuta nel 51; trad. it. Lo Stato), C. si occupa dello Stato e della migliore forma di governo; le dottrine platoniche e aristoteliche, che ne forniscono lo spunto, vengono qui rielaborate in funzione della realtà romana e si risolvono nella concezione secondo cui la forma mista di governo (monarchia, oligarchia e democrazia) è la migliore. Il 6° libro dell’opera, il cosiddetto Somnium Scipionis (trad. it. Il sogno di Scipione), che espone la dottrina dell’immortalità dell’anima, ha avuto enorme fortuna. Al De republica seguì il De legibus (scritto tra il 51 e il 50 o, secondo alcuni, nel 44; trad. it. Le leggi). Nel 46 scrisse i Paradoxa stoicorum ad Marcum Brutum (trad. it. I paradossi degli stoici), illustrazione di sei principi della dottrina morale stoica contrari all’opinione comune. Nel 45, morta la figlia Tullia, compose il De consolatione, di cui sono rimasti pochi frammenti, poi l’Hortensius (in memoria del grande oratore Quinto Ortensio Ortalo), oggi perduto, una sorta di introduzione ed esortazione allo studio della filosofia, che seguiva il modello del Protrettico aristotelico, e la cui lettura fu decisiva per Agostino. Del problema della conoscenza si occupò in due libri: Catulus e Lucullus, che poi rielaborò in 4 libri dedicati a Terenzio Varrone. Se ne conserva il primo libro della seconda edizione, Academica posteriora (trad. it. Le dispute accademiche), volgarmente detto Varro, e il Lucullus della prima edizione, Academica priora. Ancora nel 45 C. passò all’approfondimento del problema etico nei 5 libri del De finibus bonorum et malorum (trad. it. I termini estremi del bene e del male). Sulla fine del 45, mentre attendeva al Timaeus, libera traduzione dell’omonimo dialogo platonico, di cui sono giunti frammenti con l’introduzione, si volse a comporre le Tusculanae disputationes (trad. it. Le discussioni tusculane), 5 libri di dialoghi, sul problema della felicità, e il De natura deorum (trad. it. Sulla natura degli dei), in tre libri. Al principio del 44 compose il Cato Maior de senectute (trad. it. La vecchiaia); dopo la morte di Cesare pubblicò il De divinatione (trad. it. Sulla divinazione), in 2 libri, dialogo fra Cicerone e il fratello Quinto sulla mantica, e sempre nel 44 scrisse il De fato (trad. it. Sul destino) dedicato a Aulo Irzio, pervenutoci incompleto. Ancora del 44 è l’operetta Laelius de amicitia (trad. it. L’amicizia). Si sono perduti i due libri del De gloria scritti nel luglio 44, che Petrarca credette di possedere. L’ultima opera filosofica di C. è il De officiis (trad. it. Dei doveri), trattato di forma espositiva indirizzato al figlio, intorno ai doveri morali; seguiva un’appendice, De virtutibus, ora perduta.
L’importanza – anche sotto il profilo filosofico – di C. nella storia della filosofia era un dato acquisito fino a tutto il sec. 18° (basti pensare che Hume scrive il suo capolavoro postumo, i Dialoghi sulla religione naturale, ispirandosi direttamente al De natura deorum e riutilizzandone gli argomenti principali contro il finalismo). Le perplessità nei confronti del valore dell’opera filosofica di C. si manifestano nel sec. 19°. Si può anche indicare, a tale proposito, una data precisa: il 1839, anno in cui vede la luce l’edizione con il relativo commento del De finibus a cura di N. Madvig, che avanza sostanziali riserve sul valore dell’opera ciceroniana. Non va sottovalutato neanche il pesante giudizio di Th. Mommsen, che benché riguardasse soprattutto l’attività politica di C., non poteva non avere riflessi anche sulla sua attività filosofica. Sotto accusa non è naturalmente il ruolo di primo piano assunto da C. in qualità di innovatore del quadro filosofico romano prima, e di fonte primaria sulla filosofia antica in età medievale e rinascimentale. Per quanto riguarda il primo punto, basti pensare che C. inventò, praticamente dal nulla, il linguaggio filosofico latino. Un’operazione del genere, a Roma, trova un parallelo solo nel De rerum natura di Lucrezio (la cui conoscenza e il cui impatto sulla cultura romana sono tuttavia un fenomeno successivo, dal momento che nell’età di Cesare e di C. il poema di Lucrezio sembra essere ancora ignoto ai più). Per quanto riguarda il secondo punto, C. resta, per lungo tempo, praticamente l’unica fonte disponibile sulla filosofia greca. Ancora oggi, la nostra conoscenza della filosofia accademica, dell’‘Aristotele perduto’ o dello stoicismo poggia quasi interamente sulla sua testimonianza. I dubbi e le perplessità sorgono tuttora sul valore specificamente filosofico dell’opera di Cicerone. La difficoltà di identificare un percorso filosofico coerente ha dato origine alla nota accusa di «eclettismo», termine con cui si intende designare, sostanzialmente, un carattere filosoficamente ondivago, pronto a passare da una teoria filosofica a un’altra senza troppe difficoltà o addirittura a mescolarle assieme. In realtà un’attenta ricognizione dell’intera opera filosofica di C. non tarda a riconoscere un elemento di coerenza nel carattere scettico-accademico della stessa – carattere questo, sempre esplicitamente espresso da C. stesso. C. è stato un seguace di quella tendenza scettica dell’Accademia platonica che iniziata da Arcesilao, sviluppata al massimo grado da Carneade e terminata con Filone di Larissa, rappresenta il primo grande esempio di filosofia ‘critica’, e – al di là delle differenze di impostazione – il precedente immediato del neoscetticismo o neopirronismo di Enesidemo e Sesto Empirico. Il programma filosofico di C., da questo punto di vista, può ritenersi completamente delineato nel Proemio al De natura deorum e negli Accademici. In entrambe le opere viene messo in risalto il carattere incerto e provvisorio delle fonti della conoscenza umana, senso e intelletto, e quindi indicata la forma dialogica, nella quale si confrontano opinioni divergenti senza che nessuna risulti avere un peso maggiore delle altre, come la migliore espressione letteraria di questo stato di cose. Non bisogna dimenticare infatti che i dialoghi ciceroniani sono opera di filosofia e letteratura insieme, nella quale C. vuole creare dei personaggi che vivano di vita autonoma e che riversino quindi una dose di passionalità nell’esposizione del loro credo filosofico. Ciò può creare la falsa impressione che C. aderisca di volta in volta a tesi diverse, ma in realtà C., come il suo portavoce Cotta nel De natura deorum, non ha nessuna tesi da difendere, e non parteggia mai per una tesi a scapito di un’altra. La conclusione di tutti i dialoghi è sempre aporetica, ma questo non significa nemmeno che C. non sappia andare alla radice dei problemi. Testimonianza di ciò sono alcuni fra i dialoghi più belli, come il già citato De natura deorum o il De finibus. Nella prima opera C. avverte drammaticamente la difficoltà di dare una dimostrazione razionale della religione, e nello stesso tempo comprende la forza degli argomenti dell’epicureo Velleio contro il finalismo e il ‘disegno intelligente’, al punto di mettere in bocca a Cotta argomenti analoghi nel corso della replica allo stoico Balbo. Nel De finibus C. mette l’uno contro l’altro epicurei e stoici, senza che nessuno abbia il sopravvento, con una esatta distribuzione dei pesi rilevabile anche dall’estensione materiale dei loro interventi. C. sembra avvertire la maggiore aderenza alla natura umana delle tesi accademico-peripatetiche di Pisone (ossia di Antioco di Ascalona), ma poi ne rileva alcune difficoltà. La conclusione è ancora una volta aporetica. Anche nel De fato, sulla scorta di Carneade, C. discute un problema complesso – che sarà la croce della filosofia moderna – quello della causalità, mettendo bene in luce le difficoltà della posizione stoica. E tuttavia questo non implica mai, da parte di C., una piena adesione alla tesi che sembra meno esposta alle critiche. Nelle stesse Tusculanae, dove l’avvicinamento al platonismo sembra maggiore, tale impressione viene continuamente corretta da considerazioni che vanno in direzione opposta. Questa capacità di fornire a ciascuna delle tesi contrapposte gli argomenti migliori, senza che il peso dell’una sopravanzi quello dell’altra, deriva chiaramente anche dalla professione forense, che fornisce a C. gli strumenti adatti a tale scopo. Molto significativa, da questo punto di vista, è l’operetta sui Paradossi degli stoici, nella quale C. si impegna fino in fondo a difendere tesi nelle quali – come risulta dal 4° libro del De finibus – egli non crede affatto, e che sono fatte apertamente oggetto di una feroce ironia. Ma essenziali per riconoscere la coerenza del pensiero filosofico di C. restano gli Academica. Lo scopo che si prefigge C. in entrambe le stesure dell’opera è infatti quello di sottoporre a esame i tre comparti tradizionali della filosofia – logica, fisica ed etica – e di evidenziare per ciascuno di essi la mai raggiunta né raggiungibile univocità di posizioni. Tale circostanza impone quindi cautela e sospensione del giudizio, ossia – dal momento che bisogna pur vivere, vale a dire prendere qualche decisione – un assenso tiepido e provvisorio. Questa impostazione degli Academica può essere considerata il motivo conduttore di tutta l’opera filosofica di C., e permette di superare l’obsoleta caratterizzazione di lui come filosofo eclettico. Una direzione, questa, verso la quale si sta ormai muovendo buona parte della critica più recente.