MARE
di Kirti N. Chaudhuri
Le percezioni sociali del mare e i suoi rapporti con le civiltà, quali si trovano riflessi nelle fonti storiche a noi disponibili, non sono stati analizzati dagli storici come un ambito tematico a sé stante; nemmeno la storia del mare in quanto distinta dalla storia della navigazione o dei viaggi oceanici ha incontrato il loro favore. Tuttavia, con la pubblicazione nel 1949 del suo imponente e innovativo studio sul Mediterraneo, Fernand Braudel ha inaugurato la tradizione di dare il nome di un mare alla storia di una intera regione e di una civiltà. L'assunto implicito che sta alla base dell'opera di Braudel e del progetto di ricerca che la ispira è che il Mediterraneo, visto come unità spaziale ed entità puramente geografica, sembra assumere la funzione di un principio strutturante in grado di riconnettere in un'unico tema una vasta gamma di eventi storici, le attività e persino i modi di vita di determinate comunità sociali. Tale metodologia consentirebbe allo storico di considerare il mare nei suoi rapporti con la civiltà umana nel contesto di una più ampia unità di tempo, di percezioni sociali e di tradizioni, come un principio strutturante della vita in generale. La storia del mare potrebbe essere senz'altro scritta nei termini di un filtro fisico e mentale attraverso il quale deve passare in prima istanza il benessere materiale e spirituale di ogni individuo. La distinzione elementare operata in ogni società tra terra, acqua e cielo (aria) rimanda a un insieme di percezioni convalidato da qualcosa di più del suo significato simbolico o rituale. Le percezioni relative agli elementi costituiscono la materia prima da cui l'autorità e il potere costituito di una società strutturata derivano il proprio mandato. Un esempio in questo senso è dato dal modo in cui le istituzioni e le prassi giuridiche hanno strutturato le relazioni tra la società e lo sfruttamento della terra come fonte primaria di sussistenza. Per fare un altro esempio, consideriamo il caso dei pirati nella storia. Ai fuorilegge in Europa o altrove non era riconosciuta alcuna autorità di rilasciare salvacondotti: tale facoltà apparteneva propriamente alle legittime autorità territoriali e ai loro rappresentanti. E tuttavia i cosiddetti corsari barbareschi rilasciavano regolarmente lasciapassare navali agli armatori europei, ed esistevano 'trattati politici' tra i loro rappresentanti e i governi che legalizzavano tale pratica. L'ambiguità che contraddistingue la percezione del mare quale unità spaziale strutturante (l'esempio più ovvio in proposito è il fatto che è impossibile camminare sull'acqua, e tuttavia lo si può fare a bordo di una imbarcazione) è pienamente rispecchiata in un atteggiamento ambivalente nei confronti del suo ruolo di teatro dell'azione politica.
L'interazione tra la terra e il mare a livello di determinanti fisici ha senza dubbio influenzato il modo in cui le diverse comunità umane hanno sfruttato l'opportunità di trarre dal mare il proprio sostentamento.
La principale struttura sintattica creata dal mare è la distinzione tra popoli di terra e popoli di mare. Per questi ultimi il controllo dello spazio marittimo era non solo una condizione di vita necessaria, ma anche lo strumento riconosciuto per organizzare il comportamento e le percezioni sociali. Per i contadini dell'India settentrionale o per i beduini dell'Asia centrale, invece, la percezione del mare potrebbe non implicare altro che il potere simbolico attribuito alla mitologia e alla creazione di miti. Nonostante la distanza mentale tra popoli di terra e popoli di mare, lo storico delle strutture sociali non avrebbe difficoltà a dimostrare che, nella misura in cui le percezioni dirette interagivano con un universo di eventi e di pratiche stabili, anche i contadini indiani e i nomadi dell'Asia centrale, pur vivendo lontani dall'Oceano Indiano, erano pienamente soggetti alla sua estesa influenza attraverso vari stadi di trasformazioni.
Oltre ai fattori climatici che crearono in tutta l'Asia un'unità dialettica tra la terra e il mare, un'altra espressione di tali trasformazioni fu la simbiosi tra il commercio marittimo, le rotte carovaniere, le città delle oasi e le comunità nomadi che provvedevano sia ai trasporti che alla difesa. Il fatto che il mare sia assente o presente come elemento della vita collettiva è altrettanto importante quanto i sistemi di spaziatura e di pausa che separano le parole nel discorso scritto e orale. Il potere proprio del mare di esprimere differenti categorie mentali dello spazio (e per 'spazio' si intende qui uno spazio logico occupato da concetti, sistemi di credenze, superstizioni e usanze) assegnandole a particolari gruppi di individui era colto appieno da osservatori e scrittori. Il cronachista dell'Asia portoghese Diogo do Couto (1542-1616) nella sua biografia di Paulo de Lima Pereira, fidalgo, capitano e soldato in Oriente, narra come la flotta per le Indie sulla quale questi si era imbarcato sul fiume Tago, a Lisbona, dovette far ritorno in porto a causa del mare grosso e delle cattive condizioni atmosferiche. Questo evento suscitò grande clamore tra la gente del mare di Lisbona (a gente do mar da cidade de Lisboa) - avvezza a veder partire regolarmente il carreira da Índia - e venne interpretato come una punizione mandata da Dio al comandante in capo della flotta, figlio naturale dell'arcivescovo di Lisbona, perché quest'ultimo aveva proibito la celebrazione della festa annuale di san Pedro Gonçalves considerandola una pratica pagana e superstiziosa. Ogni anno, in occasione di questa festa, i pescatori di Alfama portavano l'immagine del santo per gli orti e le quintas di Xabregas tra canti e balli, e facevano ritorno dopo aver inghirlandato l'icona con tralci di cavolo e di altri ortaggi. Il comandante in questione altri non era che Luis Fernandes de Vasconçelos; nominato in seguito governatore generale del Brasile, dopo una movimentata carriera, nel 1571, egli venne intercettato al largo delle Canarie dalle navi corsare degli ugonotti di La Rochelle e trucidato; i pirati gettarono in mare anche tredici sacerdoti gesuiti che si trovavano a bordo. Nel racconto di Diogo do Couto la flotta per le Indie come segno sintattico apparteneva a un universo mentale differente da quello dei pescatori e dei marinai: essa denotava lo status e il potere politico associati nell'Europa dell'epoca al dominio e al controllo di ampie unità di spazio oceanico. Sebbene la gente di mare del Portogallo fosse un membro dell'insieme definito dal mare nel processo di espansione, al livello delle percezioni essa restava al di fuori del complesso di aspettative e progetti che ispirarono la Corona, la Chiesa e i fidalgos nelle imprese d'oltremare. Le storie, le mitologie e i rituali legati al mare, che minimizzavano i pericoli della navigazione, avevano la funzione di rimuovere elementi 'assenti' dalla mappa mentale del mare. I resoconti dei missionari dalle Filippine del XVI secolo testimoniano come la costruzione di imbarcazioni per la navigazione oceanica fosse preceduta da pratiche rituali destinate a scongiurare i naufragi.
Anche oggi tra i costruttori di navi della comunità Konjo nell'isola indonesiana di Celebes, di religione musulmana, il mito associato al praho, la tipica imbarcazione indonesiana, legittima questa industria come sistema di vita. Come osserva in proposito Adrian Horridge, "attraverso il mito essi giustificano il loro monopolio. Il mito è un legame tra il mondo quotidiano del presente e gli antenati, le cui anime, secondo le loro credenze, si aggirano ancora tra i vivi. Il mondo sovrannaturale è fortemente sentito attraverso il mito: il praho aveva origini magiche e oggi le cerimonie appropriate devono essere seguite in ogni dettaglio. Il mito inoltre comporta per i costruttori di navi l'obbligo di mantenere costante la produzione e di trasmettere i segreti del mestiere alla generazione successiva".
Lo studio di Braudel sul Mediterraneo analizzava in modo approfondito il rapporto tra il mare, i modelli di sfruttamento della terra, la distribuzione degli insediamenti urbani, le pratiche sociali, le rotte commerciali e le merci. Lo studioso francese non affrontò direttamente il problema di stabilire in che modo e in che misura le grandi scoperte d'oltreoceano della fine del XV secolo e il conseguente dominio dell'Atlantico, dell'Oceano Indiano e del Pacifico potessero essere collegati alla tradizione nautica sviluppata nel Mediterraneo, nel Mare del Nord e nel Baltico. Egli tuttavia era consapevole del fatto che i confini del Mediterraneo come mare interno europeo non coincidevano con i confini di un Mediterraneo più vasto che includeva, attraverso la pura logica della storia, l'Atlantico, il Sahara e le Alpi. Per Braudel il mondo mediterraneo era un mondo creato dall'uomo, che conobbe espansioni e contrazioni a seconda dei flussi e riflussi di forze civilizzatrici, dall'antichità alla temuta espansione della potenza navale ottomana nel XVI secolo. La definizione del Mediterraneo come mare delle società fiorite lungo le sue coste includeva vari principî strutturanti che enunceremo brevemente.
La storia del Mediterraneo fu in primo luogo la storia dei suoi centri urbani. Le città e i centri marittimi hanno dominato l'agricoltura, l'artigianato e la vita culturale del bacino mediterraneo sin dall'epoca della prima espansione ellenistica, e fu la possibilità della navigazione a creare le condizioni materiali per la loro nascita e il loro sviluppo. È una verità quasi assiomatica che nessun insediamento urbano può funzionare senza una qualche forma di commercio che si estenda al di là del suo immediato entroterra, e fu proprio il commercio per terra e per mare a far sì che particolari regioni nel Mediterraneo divenissero unità distinte di produzione economica. Infine, il controllo e l'allocazione del potere politico erano strettamente legati al controllo delle rotte marittime, al possesso di una efficace forza navale e all'infrastruttura di una industria navale. La congiunzione tra capacità di combattere per terra e per mare e prosperità economica fu una caratteristica peculiare delle relazioni sintattiche tra il mare e le società che lo sfruttavano per il commercio e le comunicazioni attive con il mondo esterno. La distruzione della magnifica città ellenica di Selinunte sulla costa meridionale della Sicilia ad opera dei Cartaginesi e l'azione romana contro Rodi, che causò la fine della più perfezionata forza da combattimento navale nel Mediterraneo orientale, dimostrarono che per aspirare a uno status imperiale era indispensabile la supremazia in mare. I nomadi del deserto seguaci di Maometto - per secoli un popolo di terra - impararono rapidamente a trasformarsi in potenza marittima dopo la conquista della Siria, di Alessandria e di Cipro. Sebbene la prima espansione araba nell'Africa settentrionale seguisse le linee delle antiche rotte carovaniere, le successive ondate in Spagna, Sicilia e Marocco furono caratterizzate da una consistente presenza navale. Nel corso del XV secolo la città di Venezia, la cui supremazia commerciale era basata in larga misura sulla sua potenza navale, superò le antiche divisioni religiose nel Mediterraneo orientale per creare un interesse comune con il principale Stato regionale musulmano, l'Egitto dei Mamelucchi, mentre all'estremità occidentale del mare, a seguito della reconquista iberica, si profilava imminente una resa dei conti finale per terra e per mare tra i Merinidi del Marocco e la casa di Aviz del Portogallo. Le città-Stato italiane avevano risolto il problema del dominio dell'Adriatico e dell'Egeo attraverso una mutua azione navale, e riuscirono a raggiungere un compromesso. La sfida alla 'soluzione' commerciale e navale italiana nel Mediterraneo da parte del Portogallo e della Spagna comportava il rifiuto della mappa mentale creata dalla tradizione della reconquista e dalla storia stessa del mare. Nel corso del XVI secolo l'invenzione di un 'nemico' nel Nordafrica e la proiezione di tale avversario in aree distanti del mondo, nell'Atlantico e nell'Oceano Indiano, rappresentarono il trionfo ideologico di una percezione che aveva nel Mediterraneo il proprio luogo d'origine. Il 'centro' metaforico, visto come rapporto dialettico tra una cristianità marittima e la sua controparte musulmana, si spostò nel XVI secolo, ma nel corso di tale dislocamento perse parte del suo significato pratico e assunse un carattere in gran parte mitico, per riapparire in seguito sotto forma di una teoria delle differenze culturali espressa in termini di tensione spaziale.
L'Oceano Indiano era collegato al mare occidentale da una lunga tradizione di commercio transcontinentale che rafforzava e accentuava la sintassi spaziale, economica e culturale della sua geografia, dei suoi popoli e delle loro percezioni mentali. Come unità di spazio fisico, l'Oceano Indiano 'maggiore' presentava le seguenti caratteristiche. Era possibile navigare dal Golfo di Suez o dallo Shaṭṭ al 'Arab sino al Giappone, ai margini di un altro oceano non navigabile e in gran parte sconosciuto. L'oceano maggiore si articolava internamente in una serie di mari minori, ognuno dei quali poteva essere identificato in base a un sistema di venti, di correnti, di forme di vita marina, di profondità delle acque, di coste. Gli osservatori contemporanei erano pienamente consapevoli della dicotomia tra l'asserzione generalizzata e la sua qualificazione, come attesta il problema sollevato dal famoso geografo arabo del X secolo al-Muqaddasê: "Se si chiedesse" - scriveva questi - "come è possibile che uno stesso mare possa essere trasformato in otto mari differenti, noi risponderemmo che ciò è ben noto a chiunque intraprenda un viaggio per mare".
L'ultima caratteristica del grande oceano era un fattore climatico, il fenomeno dei monsoni annuali, che segnava i confini della coltivazione del riso e del grano. Le società che sorgono intorno all'Oceano Indiano possono essere infatti distinte in due categorie: le popolazioni che si nutrono fondamentalmente di riso e quelle che si nutrono fondamentalmente di pane. Il principio di classificazione, che prende le mosse dal livello relativo delle precipitazioni, comporta una distinzione tra due diverse tecniche agricole, applicate rispettivamente alla produzione del riso e a quella del grano; in generale, le istituzioni sociali associate a queste due colture sono così distintive che a esse si possono far risalire, seppure indirettamente, la struttura e la storia dei grandi imperi burocratici nel Medioriente e nel resto dell'Asia, dall'epoca babilonese al periodo coloniale europeo nel XIX secolo.
Se si parte dal presupposto che il possesso e il consumo di manufatti e di merci provenienti dall'esterno costituiscono uno dei più importanti mezzi conosciuti dalla società per strutturare le proprie parti e operazioni, si comprende immediatamente perché il commercio con regioni distanti abbia avuto un ruolo tanto importante nella storia. I monsoni resero possibile navigare l'Oceano Indiano, ma il loro carattere stagionale obbligava le navi che partivano per un unico viaggio da Bassora fino a Canton in Cina a cercare riparo in ancoraggi o rade sicure nell'attesa che i venti cambiassero. In questi punti strategici, come osservò Thomé Pirés nella sua famosa opera Suma oriental (1515 circa), sorsero grandi città commerciali grazie alle quali non fu più necessario per gli armatori coprire l'intera distanza da un capo all'altro dell'oceano, poiché potevano soddisfare tutte le loro necessità commerciali in uno di questi empori. Le caratteristiche fisiche dell'Oceano Indiano senza dubbio condizionarono la distribuzione delle singole città portuali, ma erano operanti anche altri sistemi sintattici che ne spiegano la ragion d'essere. Sia nel Mediterraneo che nell'Oceano Indiano il porto commerciale, oltre ad avere un ruolo di centro geografico, era un'istituzione economica, sociale e politica che concentrava in uno spazio ristretto la presenza e le necessità di un gran numero di mercanti stranieri, piccoli commercianti, venditori ambulanti e marinai. Il successo storico del porto si deve a una precisa definizione dello status legale dei mercanti stranieri in termini di diritto internazionale. Dall'esigenza di tutelare la vita e le proprietà dei mercanti stranieri da violenze ed esazioni locali scaturì poi quella di salvaguardare la neutralità politica della città e delle sue acque territoriali dalle ingerenze delle potenze rivali. La struttura della produzione economica della regione in cui era situato il porto determinava anche in misura non indifferente le sue possibilità di sopravvivenza. L'approvvigionamento di merci di largo consumo e relativamente voluminose, adoperate come zavorra per le navi, oltre che di merci pregiate, era un elemento chiave nel determinare la decisione dei capitani delle navi di frequentare regolarmente determinati porti. All'epoca dell'arrivo di Vasco da Gama a Malabar, nel 1498, l'universo commerciale dell'Oceano Indiano era imperniato su numerose città portuali che avevano in comune con Anversa, Venezia, Genova, Alessandria e Beirut il ruolo distintivo di cardini di una serie di catene commerciali intercontinentali tra loro interdipendenti. Il fatto che la funzione commerciale di Kilwa, Aden, Hormuz, Cambay, Calicut, Malacca e Canton fosse analizzata in modo approfondito da tutti i primi storici e politici portoghesi in cerca di informazioni ci dà la misura di quanto la percezione dell'Oceano Indiano come spazio sociale da parte dei contemporanei fosse plasmata dall'infrastruttura del commercio marittimo.
Se i centri marittimi del Mediterraneo e dell'Oceano Indiano avevano in comune le funzioni economico-commerciali proprie di tutte le città portuali, si differenziavano però in un punto importante che si dimostrò cruciale per lo sviluppo futuro dei due mari. Diversamente da quanto accadeva nel Mediterraneo, nell'Oceano Indiano il ruolo politico delle città portuali era trascurabile. In effetti, l'assenza di una politica internazionale era quasi una condizione necessaria per la loro sopravvivenza e per lo svolgimento regolare degli affari commerciali. Il fatto che i grandi imperi burocratici dell'Asia derivassero il grosso delle loro entrate dalla terra piuttosto che dai profitti del commercio internazionale è stato messo in evidenza tanto spesso che non è necessario sviluppare ulteriormente l'argomento. Tuttavia sarebbe opportuno osservare che il risultato pratico di una politica di potere incentrata sugli eserciti piuttosto che sulla forza navale fu quello di assicurare che l'Oceano Indiano restasse teatro di un commercio condotto con mezzi pacifici, di viaggi di pellegrinaggio e di una semplice esistenza marinara. Fu un'esperienza del tutto nuova per la maggior parte dei capi politici asiatici scoprire che i naviganti europei che arrivavano nelle loro città portuali da terre lontane erano pronti a usare la spada e il cannone per proteggere il loro commercio. La presenza di mercanti armati era tanto rara nell'Oceano Indiano dell'epoca pre-portoghese quanto era usuale nel Mediterraneo. È degno di nota il fatto che relativamente al controllo e al dominio dello spazio oceanico il modello destinato a diventare la norma dopo il 1500 fu quello rappresentato dal sistema mediterraneo del commercio condotto con le armi, anziché quello del commercio pacifico prevalente nell'Oceano Indiano. Questa circostanza non ha ancora trovato un'adeguata spiegazione storica, ma qualunque fosse la ragione di questa scelta, i grandi galeoni portoghesi e spagnoli armati di cannoni divennero uno degli strumenti attraverso i quali l'Atlantico e l'Oceano Indiano vennero incorporati in uno spazio oceanico di tipo 'mediterraneo'. La padronanza della navigazione astronomica grazie alle nuove tecniche matematiche, il perfezionamento della cartografia e l'uso regolare del compasso, sostituito in seguito dal cronometro marino, indicano come la tecnologia della costruzione navale e l'uso della polvere da sparo nella guerra navale non fossero elementi tra loro isolati nel sistema del sapere. Nei termini di una sintassi generale dello spazio oceanico, il dominio e il controllo dei grandi oceani nel corso del XVI secolo comportarono una perdita dell'identità topologica del Mediterraneo e dell'Oceano Indiano. Dopo il 1600 era ormai impossibile per un europeo individuare quali persone e quali oggetti appartenessero all'uno o all'altro insieme e lo spazio oceanico cominciò a perdere importanza come principio di classificazione rigoroso dell'identità di persone e percezioni sociali. Allo stesso modo mutò il rapporto tra spazio e tempo. Il viaggio più lungo di cui avevano esperienza i marinai del tempo, tanto nel Mediterraneo quanto nell'Atlantico settentrionale, era superato di gran lunga dai viaggi regolari per le Indie Occidentali, o per l'India e la Cina. La rotta Acapulco-Manila seguita nel Pacifico dopo il 1555 dai galeoni portoghesi comportava la traversata di spazi oceanici che sarebbero apparsi assolutamente fantastici all'epoca della navigazione precolombiana.
Il viaggio verso zone lontane e sconosciute del mondo ebbe un ruolo importante nella formazione di nuove conoscenze e nella loro assimilazione nell'ordine del sapere. Il potere simbolico di cui si caricavano gli oggetti raccolti nel corso delle nuove scoperte è ben illustrato dal seguente passo che apre la relazione su una spedizione francese effettuata in Brasile nel 1503 da un capitano di Honfleur: "Mentre svolgevano i loro traffici a Lisbona, Gonneville e i gentiluomini Jean l'Anglois e Pierre le Carpentier, vista la straordinaria abbondanza di spezie e di altre rarità che arrivavano in città sulle navi portoghesi provenienti dalle Indie Orientali, scoperte parecchi anni fa, si misero d'accordo per inviare là una nave, dopo aver interrogato a fondo molti che avevano già affrontato tale viaggio, e dopo aver assoldato a caro prezzo due portoghesi che avevano fatto ritorno da quei luoghi [...] affinché li aiutassero con la loro conoscenza della rotta per le Indie". Il vascello, denominato appropriatamente Espoir, ovviamente non riuscì a superare il Brasile, e il suo carico di pelli, penne d'uccelli pregiati e legni da tintura andò perduto nel corso di una tempesta sulla via del ritorno. Guadagni irrisori e spesso la perdita della vita stessa erano l'esito regolare di molte di queste imprese caratterizzate da grandi aspettative e alti rischi. Ma il rapporto tra l'oceano, la nave e il suo ricco carico inteso quale simbolo di civiltà e di creazione artistica rimase una costante ricorrente in tutti i racconti di naufragi. Il 20 gennaio 1559 la grande nave portoghese Aguia salpò da Goa sotto il comando dell'ex viceré Francisco Barreto, portando a bordo come passeggeri numerosi gentiluomini e cavalieri che facevano ritorno in patria dopo il servizio prestato alla Corona. La nave incappò in una serie di uragani nei pressi del Capo, e si trovò in balia di onde alte come montagne "dalla cui cima spesso [essa] precipitava tanto a fondo che pareva non dovesse riemergere mai più". La struttura interna della nave fu danneggiata in modo così grave dalla tempesta che l'acqua entrava da tutte le parti: l'Aguia venne tenuta a galla solo grazie all'incessante lavoro alle pompe cui si alternarono gentiluomini, fidalgos e semplici marinai. Alla fine, quando ormai il veliero era in procinto di affondare, dietro consiglio degli ufficiali Barreto ordinò che fosse gettato in mare il carico dei mercanti: il prezioso incenso aromatico di Sumatra, le balle di indaco, le casse di seta e porcellane, e molte merci cinesi rare e preziose. Tuttavia, quando fu chiesto al comandante se la balla di indaco che faceva parte delle donazioni annuali per il monastero di Nostra Signora della Grazia a Lisbona - una delle più grandi istituzioni religiose del Portogallo - dovesse essere gettata anch'essa in mare, egli rispose che era pronto a portarla personalmente in spalla sino a riva, in quanto mercanzia appartenente a Nostra Signora, nella cui mercé egli confidava per la salvezza e la preservazione della nave.
Se si confronta il racconto della perdita dell'Aguia con quello dell'East Indiaman inglese Ascension, si vedrà in che misura la nave e la riuscita del viaggio rappresentassero la sicurezza di un mondo noto, la sua scala di valori e le strategie di sopravvivenza. L'Ascension, nave ammiraglia del quarto viaggio organizzato dalla Compagnia delle Indie Orientali britannica, avvistò la costa occidentale dell'India nei pressi della città portoghese di Diu nell'agosto del 1609. Il veliero era arrivato dal Mar Rosso dopo aver traversato l'Oceano Indiano alla fine del periodo dei monsoni, lasciandosi alle spalle violente tempeste di vento. Sebbene il comandante non lo sapesse, la nave si era già addentrata per trenta miglia nella Baia di Cambay, notoriamente pericolosa, in cui le onde di marea si alzavano e si abbassavano di otto metri e la corrente era così forte che anche un uomo a cavallo avrebbe rischiato di affogare se si fosse trovato preso nei suoi gorghi. Allorché l'Ascension gettò l'ancora a sette braccia di profondità, una scialuppa venne calata in mare e inviata a terra. Alcuni mercanti locali informarono il comandante e il capitano che la navigazione nel golfo era pericolosa, e si offrirono di chiamare un pilota esperto per pochi riyāl. Ma "il nostro orgoglioso e testardo capitano" - scrive l'anonimo narratore - "non volle accettare a nessun costo [...] e il nostro comandante si lasciava dominare da lui al punto che [...] quando nel giro di due clessidre il capitano ordinò di poggiare a est-sudest, e dopo mezza clessidra dacché avevamo puntato a est ci trovavamo ancora a sette braccia di profondità, nonostante ciò egli fece proseguire la nave. Ma prima che i marinai potessero gettare nuovamente lo scandaglio, ci trovammo a cinque braccia, e ancora il capitano ordinò di proseguire, come se avesse frequentato quei luoghi per tutta la vita, e così, poiché era avaro di ordini, la nave urtò il fondo: ma il capitano non volle crederci, e cominciò a chiamare codardi i suoi secondi e gli altri, finché la nave non urtò una seconda volta, e questa volta il colpo fece saltare il timone. Allora egli cominciò a insultare i mercanti, che in patria si erano rivolti a fabbri così incapaci, e i fabbri perché avevano usato ferro di qualità così scadente per gli agugliotti del timone. Alla fine gettammo l'ancora a quattro braccia e mezzo di profondità, con una corrente così forte quale è dato di incontrare a volte sotto il ponte di Londra e per di più col mare grosso". La storia dell'avventata navigazione venne conclusa da un altro testimone diretto col seguente lamento: "Così questa grande nave andò perduta con grave danno per l'onorata Compagnia, e causando la completa rovina di noi tutti poveri marinai, irreperibilmente danneggiati con tutti i tesori e le merci [...] così lontano dal nostro paese".
Da questi racconti emerge come la perdita di un veliero fosse considerata qualcosa di più che un semplice rovescio finanziario. A bordo di una nave si ritrovavano in un microcosmo tutti gli elementi della stratificazione sociale e dell'autorità, ed era presente anche l'idea di un contratto sociale. Quando la grande Aguia si trovò sul punto di affondare, la gerarchia e lo status furono la prima cosa che venne sacrificata, e gentiluomini e semplici marinai si alternarono per azionare le pompe; il loro lavoro collettivo è visto come uno sforzo "che solo dei portoghesi potevano affrontare al fine di superare le avversità patite". All'intensificarsi del pericolo, la seconda cosa a venire eliminata furono i pasti regolari cucinati nella cambusa, poiché il fumo interferiva con il lavoro alle pompe. Infine vennero sacrificate le ricchezze gettando in mare le preziose mercanzie. Quando però sorse il problema di violare la sintassi della fede religiosa, un netto limite venne tracciato dal comandante portoghese. È significativo il fatto che l'equipaggio non avesse gettato a mare di propria iniziativa il carico destinato a Nostra Signora della Grazia, ma avesse chiesto un'indicazione autoritativa. La struttura della disciplina navale restava intatta, così come la percezione dei simboli della fede. La speranza di salvare la nave era ancora situata nel regno dell'ignoto, o della previsione illativa. Analogamente, l'equipaggio della nave inglese si rendeva conto chiaramente che la perdita di tutti i suoi beni, del carico di merci pregiate nonché dei mezzi per far ritorno in patria, era dovuta a un errore di valutazione commesso dal capitano e alla mancanza di autorità del comandante.
Il fatto che in epoca preistorica i popoli migrassero sia per terra che per mare portando in altre aree i propri modi di vita è testimoniato dalla diffusione di oggetti materiali, dai reperti archeologici e persino dall'esistenza di una continuità etnica, come ad esempio nel caso delle popolazioni indigene del Nuovo Mondo. Per le civiltà del Vicino Oriente 3.000 anni prima di Cristo, così come in seguito per la civiltà greco-romana, il mare ebbe un ruolo fondamentale nell'evoluzione che portò dalla semplicità del villaggio neolitico allo splendore urbano della prima età del bronzo.Il nesso tra commercio marittimo, centri urbani e un elevato livello di cultura materiale emerge chiaramente nei documenti scritti degli antichi Sumeri e della bassa Mesopotamia. È una verità quasi assiomatica che per lo svolgimento di attività sociali complesse, che comportano un differimento nel tempo e precise misure quantitative, è indispensabile registrare tali attività e transazioni in documenti che possano essere agevolmente decifrati da terzi. La scrittura cuneiforme su tavolette di argilla molle, che venivano poi cotte e poste dentro un involucro protettivo anch'esso di argilla, consentì ai governanti e ai mercanti del Vicino Oriente di organizzare il commercio marittimo con regioni distanti e di calcolarne i profitti. Alcuni dei primi documenti provenienti dalla città di Ur sono particolarmente ricchi di informazioni sul commercio marittimo. Marinai e mercanti che si imbarcavano in rischiosi viaggi per mare spesso portavano al tempio della dea Ningal modelli in argento delle navi di lungo corso come offerte votive. Le tavolette degli archivi del tempio registrano anche i quantitativi di rame, d'oro e di utensili in rame offerti dai reduci di viaggi in mare durati molti mesi. È evidente che ai mercanti di Ur non era ignoto il problema di incrementare il capitale commerciale e di assicurarsi contro i rischi di perdite in mare. Da un contratto risulta che due partners commerciali avevano preso a prestito una somma di denaro da un terzo per un valore di 2 mina di argento, 5 gur di olio e 30 capi di vestiario onde finanziare un viaggio organizzato per acquistare rame. Questi documenti dimostrano che verso il 2000 a. C. la città di Ur, vicina al Golfo Persico, era il porto di ingresso di una materia prima importante per fini strategici, il rame, e di una serie di articoli pregiati importati dall'India.
Chiunque studi la storia del mare e la sua funzione primaria di sede di traffici commerciali, di viaggi e di guerre sulla base di documenti originali deve tener conto del fatto che i suoi ritmi sono stati profondamente influenzati da eventi internazionali e dai movimenti latenti delle civiltà mondiali. Le testimonianze offerte dai reperti archeologici, dalle iscrizioni e dai testi storici confermano l'esistenza di una stretta connessione tra la distribuzione delle risorse economiche e la struttura politica delle antiche civiltà. Ciò vale in particolare per l'Oceano Indiano e per il Mediterraneo. Lo storico dell'epoca augustea Strabone osservò che se in passato una ventina appena di navi osava oltrepassare lo stretto del Mar Rosso, ora grandi flotte venivano inviate ogni anno in posti lontani quali l'India e gli estremi confini dell'Etiopia. L'assunto implicito in questo testo è che le tecniche di navigazione e l'arte marinaresca dei navigatori del mondo greco-romano non fossero in passato sufficientemente sviluppate da consentire loro di avventurarsi in viaggi che richiedevano la navigazione astronomica in mare aperto. È opportuno sottolineare due punti in merito a questo assunto. È quasi inevitabile per uno storico che assista a un fondamentale sviluppo economico (quale quello di cui fu testimone Strabone) dimenticare o sottovalutare la capacità tecnica delle civiltà del passato di arrivare a traguardi analoghi. È difficile credere, alla luce della storia del commercio marittimo fenicio o egiziano, che l'incremento dei traffici commerciali romani con l'India e con l'Africa orientale attraverso il Mar Rosso fosse dovuto semplicemente ai progressi della tecnologia nautica. Il secondo punto riguarda gli indiscutibili pericoli che presentava il Mar Rosso, che costituivano un ostacolo ai movimenti di uomini e di merci. Val la pena di menzionare le osservazioni espresse in merito a questi due punti dal navigatore arabo del XV secolo Aḥmed ibn Majid. Riferendosi agli antichi navigatori e capitani, egli afferma che la loro arte si basava principalmente sulla descrizione concreta delle coste e delle rotte costiere, per lo più 'sottovento' e lungo il territorio cinese. Pur senza possedere le nozioni esatte delle scienze sviluppate in seguito, i navigatori del passato erano riusciti ad arrivare egualmente in Cina già dai primi secoli dell'Islam. È indubbio che sin dall'antichità l'Oceano Indiano era caratterizzato da una unità intrinseca, o più precisamente da una unità internamente differenziata creata dal commercio e dagli scambi culturali, allo stesso modo in cui la nascita dell'Islam contribuì a unificare differenti parti del mondo, compresi differenti mari, attraverso una religione, una lingua e una sensibilità artistica comuni. La sequenza cronologica dello scambio, tuttavia, è visibile solo confusamente attraverso la scoperta casuale di reperti materiali e la sopravvivenza di testi storici, sicché resta l'impressione dominante che certe regioni, un tempo al centro di un sistema mondiale fortemente dipendente dai rapporti commerciali marittimi, siano improvvisamente e inesplicabilmente ripiombate nella logica di un'economia di sussistenza. In altre parole, la ritirata sociale comportò anche una ritirata dal mare.
Vi sono due strumenti teorici strettamente interrelati che possono essere utilizzati per analizzare tali fenomeni e i rapporti tra il mare e le civiltà. Il primo di tali strumenti è il concetto di 'ciclo di vita' di una civiltà, applicato per misurare le dimensioni temporali di determinate entità sociali e culturali. Ad esempio, si può affermare che all'epoca greca o romana il ciclo di vita dell'antica Mesopotamia o dell'Egitto dei faraoni era definitivamente concluso e si era persa ogni memoria di una continuità di civiltà. La civiltà cinese per contro costituì un'unica entità sin dall'Età del bronzo, anche quando la sua cronologia si frazionò nelle varie successioni dinastiche. La continuità dell'Impero cinese terminò solo con la Rivoluzione del 1911.
Il secondo strumento concettuale è collegato al problema di definire unità e disunità dell'Oceano Indiano, del Mediterraneo o di ogni altro mare nella storia. Il metodo più efficace per risolvere tale problema consiste nell'applicare una sorta di teoria matematica degli insiemi per vedere in che modo differenti 'insiemi' si siano formati nel tempo e nello spazio e quali principî abbiano adottato in passato i partecipanti per identificare se stessi, oggetti differenti ed entità spaziali quali i paesaggi, l'oceano e persino il cielo notturno. In un mio studio teorico sull'argomento ho definito tale metodo 'tecnica di differenziazione e di integrazione strutturale'. Esistono due modi per definire unità e disunità attraverso questo metodo. Un'unità o intero - come ad esempio la penisola greca, o quella italiana, o quella iberica, definita dalle sue coste e dalle sue catene montuose - può essere sovrapposta a una civiltà o a un mare e poi differenziata nelle sue componenti logiche. Se invece si cerca un'unica espressione linguistica che definisca la civiltà senza ulteriori qualificazioni, tale ricerca si dimostrerà infruttuosa. L'unità storica dell'Oceano Indiano e del Mediterraneo fu creata dalle idee e dalle loro espressioni materiali documentate nel corso del tempo.
Tre fondamentali eventi mondiali segnarono la storia del Mediterraneo e dell'Oceano Indiano nel millennio che va dal V al XV secolo dopo Cristo. In primo luogo, la forza integratrice dell'Impero romano venne frantumata dalla migrazione su vasta scala delle popolazioni provenienti dall'Europa nordorientale, e ciò determinò la scissione dell'Impero in una parte orientale e in una occidentale. In secondo luogo, a partire dal VII secolo Bisanzio e gran parte dei paesi mediterranei subirono la pressione crescente di un'altra grande espansione storica, le conquiste militari e politiche compiute dagli Arabi sotto l'ideologia unificante dell'Islam. L'espansione a macchia d'olio dell'Islam nel Vicino Oriente, nell'Oceano Indiano e in Nordafrica, che sfociò nel dominio musulmano di parte dell'Europa meridionale, venne infine arginata e respinta a seguito della riscossa politica della cristianità. Oltre queste antiche aree di diffusione marittima, anche il subcontinente indiano e la Cina meridionale ebbero un ruolo di primo piano nello sviluppo del commercio e dei traffici marittimi. Il contributo di queste due regioni alla storia della civiltà emerge nel modo più evidente nel Sudest asiatico, dove le tradizioni sanscrite e l'ideologia confuciana si fusero per creare una straordinaria rielaborazione di culture e forme sociali indigene. La costante migrazione di popoli, idee e beni materiali attraverso l'Oceano Indiano e il Mediterraneo naturalmente avvenne principalmente attraverso il commercio. In Occidente la perdita della Siria e dell'Egitto, conquistati dai musulmani, costrinse l'Impero bizantino a ritornare a una sua forma peculiare di economia basata su di un'agricoltura intensiva di tipo mediterraneo, un commercio d'importazione che veniva in larga misura pagato in oro, e un'industria attiva esercitata nei laboratori di Costantinopoli. L'industria della seta in particolare creava una forte domanda di seta grezza che le risorse locali non erano sufficienti a soddisfare. Il blocco del commercio della Bisanzio cristiana nel Mediterraneo orientale a seguito dell'espansione islamica favorì la via settentrionale che passava attraverso la Persia, l'Armenia e l'Asia centrale. I commercianti e gli armatori greci tuttavia continuarono a essere i protagonisti del commercio nell'Egeo e nel Mediterraneo occidentale, fino a che non vennero definitivamente soppiantati dai Veneziani e da altri italiani. Le autorità di Bisanzio ebbero un atteggiamento tollerante nei confronti dei mercanti stranieri, pur imponendo il rispetto di certe regole. Al loro arrivo nella capitale i mercanti siriani o italiani dovevano notificare la loro presenza alle autorità ed erano poi forniti di alloggi e uffici in appositi complessi di edifici. A partire dalla fine del X secolo le repubbliche marinare italiane cominciarono ad assicurarsi una posizione commerciale privilegiata a Bisanzio. Nel 1092 l'imperatore Alessio I concesse i diritti di libero scambio alla Repubblica di Venezia come ricompensa per l'aiuto navale e finanziario prestato contro gli invasori normanni. Nel corso del secolo successivo i Pisani e i Genovesi ottennero anch'essi una riduzione dei dazi doganali e i secondi svolsero i loro traffici persino nel Mar Nero. Verso il 1180 si calcolava che il numero di Italiani residenti a Costantinopoli fosse arrivato a 60.000. Il progressivo declino economico di Bisanzio fu determinato dall'avanzata militare e politica dei Turchi ottomani. La caduta di Costantinopoli nel 1453 segnò l'inizio di un altro lungo periodo di lotta tra i musulmani e i cristiani per il dominio del Mediterraneo orientale e occidentale.
I difficili, a volte apertamente ostili, rapporti politici tra un Nord cristiano e un Sud musulmano avevano spezzato l'antica unità del mare dei Romani. Tuttavia nel X e nell'XI secolo la coesione commerciale del Mediterraneo era stata in gran parte ripristinata, e i mercanti viaggiavano costantemente tra la Spagna, il Nordafrica e l'Egitto. L'arrivo di commercianti europei ad Alessandria accelerò il ritmo dei traffici. In una lettera risalente all'XI secolo, che fa parte della famosa collezione di documenti custoditi in una delle sinagoghe del Cairo Vecchio, il mittente impartisce al suo corrispondente i seguenti consigli: "Tieni conto che ad Alessandria non si trova né pepe, né cannella, né zenzero. Se ti trovi in possesso di qualcuna di queste merci, tienile per te, perché i mercanti greci vogliono solo queste. Tutti i mercanti greci sono in procinto di partire per il Cairo Vecchio. Aspettano solo l'arrivo di altre due navi da Costantinopoli". Va ricordato che la situazione descritta nella lettera si verificava in un'epoca in cui gli Stati islamici avevano già conosciuto le guerre condotte dai crociati. Tuttavia le carovane mercantili riuscivano a passare attraverso gli eserciti nemici senza subire perdite.
Vi sono parecchie ragioni che spiegano l'aumento dei traffici marittimi e la posizione privilegiata dei mercanti nel mondo musulmano. In primo luogo, gli Arabi conquistarono e colonizzarono aree che erano già all'avanguardia per sviluppo economico e livello di civiltà. In secondo luogo, l'espansione musulmana fu seguita da una crescita senza precedenti dell'urbanizzazione. I mercanti e i commercianti, sia che viaggiassero per mare, sia che viaggiassero per terra, furono il supporto indispensabile del ruolo unico svolto dalle città nella storia dell'Islam. Il legame dello stesso Maometto con le attività commerciali contribuì a elevare lo status dei mercanti. Nello stesso tempo però i musulmani non furono esenti dall'atteggiamento di condanna nei confronti dei mercanti e dei traffici commerciali comune a tutti i popoli medievali. Le guerre e il fanatismo religioso furono un ostacolo alla libera circolazione delle merci e delle idee nel mondo musulmano non meno che nell'Europa cristiana.
Con la disgregazione politica dell'antico Impero arabo degli Abbasidi, a seguito dall'espansione turca e delle crociate cristiane, il centro del commercio marittimo tra il Mediterraneo e l'Oceano Indiano si spostò verso l'Egitto e il Mar Rosso. Sotto il regno liberale dei Fatimidi, una dinastia araba della Tunisia, il Cairo divenne una città d'arte e di commercio. Si verificò una migrazione generalizzata di ricchi mercanti dalle grandi città del Nordafrica verso il Cairo, Alessandria e le città portuali della Palestina. Questi mercanti si recavano regolarmente in India e nelle isole del Mare di Giava, acquistando merci sia con capitali propri che su commissione. Il controllo del Mar Rosso e del traffico di spezie da parte dell'Egitto continuò sotto i Mamelucchi (1260-1517). Nel 1429 il sultano mamelucco Baibars istituì un monopolio di Stato nel commercio del pepe al fine di assicurare introiti stabili al governo. L'Egitto fu gravemente colpito dalla peste nera nel 1347-1348, perdendo gran parte della sua popolazione. Anche in questo periodo critico però conservò la sua reputazione di potenza economica, tanto che un mercante cipriota, Piloti, poteva affermare all'inizio del XV secolo che chiunque fosse stato il signore del Cairo poteva dichiararsi signore e padrone della cristianità, perché era in grado di controllare larga parte delle merci prodotte nel Mediterraneo orientale e il traffico di tali merci. La scoperta della rotta del Capo per le Indie Orientali da parte dei navigatori portoghesi, a quanto pare, aveva alle spalle una lunga esperienza storica di vantaggi finanziari derivanti dal commercio marittimo.
Lo sfruttamento del mare e delle sue potenzialità commerciali nell'Europa medievale avvenne perlopiù sotto l'egemonia italiana, e fu parte di un più vasto processo storico connesso alla crescita della popolazione e all'espansione agricola. Le epidemie di peste nera ebbero ripercussioni estremamente negative sul piano sia demografico che economico, ma le capacità e le conoscenze in materia di commercio e di navigazione oceanica non andarono perdute. La progressiva diffusione nell'Europa occidentale e settentrionale delle istituzioni finanziarie e delle tecniche commerciali messe a punto in Italia contribuì in misura non indifferente allo sviluppo del commercio mondiale nel Cinquecento e nel Seicento. Le prime città italiane ad affermarsi furono Amalfi e Venezia. L'entroterra di questi porti marittimi offriva poche risorse importanti. Dal mare Venezia trasse dapprima un modesto sostentamento, e alla fine grandi ricchezze. Le abilità commerciali dei Veneziani sono ben illustrate dall'affermazione di un autore di Pavia, secondo il quale essi non aravano, né seminavano, né raccoglievano le messi, ma arrivavano con le loro merci e compravano grano e vino in ogni piazza commerciale. La conquista della supremazia commerciale nel Mediterraneo e nell'Atlantico da parte delle città marinare italiane fu un processo tutt'altro che pacifico, costantemente segnato da guerre, aspre lotte politiche e tumulti civili tra gli Italiani stessi. Venezia e Genova, le due 'torce d'Italia' come le definì Petrarca, non solo lottarono l'una contro l'altra, ma coinvolsero nelle ostilità anche terzi. Nell'XI secolo Genova e Pisa si erano unite per contrastare i predoni musulmani in Corsica e in Sardegna. Nel 1088 posero sotto assedio la stessa al-Mahdiyya in Nordafrica, offrendola senza successo ai Normanni. La città alla fine venne restituita al legittimo sovrano, a condizione che i mercanti cristiani fossero esentati dal pagamento dei dazi doganali. Allorché i musulmani furono respinti nel Maghreb, la forza marittima di Genova si accrebbe al punto da mettere la città in urto con Pisa. Nel 1284, dopo un lungo conflitto, i Pisani subirono una sconfitta decisiva nella battaglia della Meloria. Jacopo d'Oria, un mercante genovese, ebbe ad affermare che Cristo aveva elargito tanta grazia a Genova e tante sofferenze ai Pisani che solo chi l'avesse visto con i propri occhi avrebbe potuto credere al racconto dei fatti. Mentre Genova diventava una delle principali potenze navali della costa ligure, Venezia andava affermandosi nell'Adriatico. L'influenza veneziana si estese alle città vicine dell'Istria, e parecchie altre località della costa dalmata accettarono il protettorato veneziano per scongiurare l'occupazione da parte degli Slavi. Ma fu contro il suo antico sovrano, l'imperatore bizantino, che la potenza marittima di Venezia si rivolse allorché la Repubblica si rafforzò. Nel 1204 i Veneziani e altri signori feudali cristiani si unirono al papato per condurre una crociata contro Costantinopoli, che venne saccheggiata. Da questa guerra Venezia derivò notevoli benefici finanziari e commerciali, e sino al 1261 il Mar Egeo rimase sotto il dominio navale della Repubblica.
A quanto risulta, nella seconda metà del Trecento e all'inizio del Quattrocento alla navigazione commerciale nel Mediterraneo partecipava un certo numero di potenze europee e di porti commerciali. Il controllo del Nordafrica da parte dei musulmani e il commercio carovaniero che si ricongiungeva con le città costiere non si indebolirono, ma solo nel XVI secolo, quando fecero la loro comparsa le grandi flotte di galeoni ottomani, l'influenza islamica nel Mediterraneo riacquistò le antiche sembianze. Il porto egiziano di Alessandria rimase il più importante snodo commerciale sia per i mercanti europei che per i carovanieri musulmani. I documenti di Antonielo de Vataciis, un notaio veneziano residente ad Alessandria, registravano nel 1404-1405 l'arrivo di navi dalla Catalogna, dalla Provenza, da Baiona, dalla Sicilia, da Ragusa, da Malta e dalle isole greche, oltreché di bastimenti da Genova, Pisa e Venezia. Dagli archivi della famosa impresa commerciale di Francesco Datini di Prato (1335-1410) risulta che tra il 1399 e il 1408 fecero scalo a Beirut 224 navi catalane, 228 veneziane e 264 genovesi. Prima di stabilirsi a Prato, Datini aveva fatto fortuna ad Avignone: l'importanza delle Bocche del Rodano e della Linguadoca nel commercio levantino è dimostrata dal fatto che ad Alessandria esistevano tre fondachi appartenenti ai mercanti francesi di Avignone, Marsiglia, Montpellier e Narbona. Il grande interesse mostrato da molti intraprendenti mercanti europei per il commercio levantino derivava senza dubbio dagli alti margini di profitto che esso consentiva. Da uno studio su Venezia risulta che il profitto netto sull'esportazione di tessuti in Siria e in Egitto nel XV secolo era del 10-30%. Gli utili sull'investimento in spezie e cotone erano assai più alti, arrivando a una media del 40-60%. I libri mastri dei grandi banchieri fiorentini del Rinascimento - gli Strozzi, i Bardi e i Peruzzi - indicano che i tassi di rendimento sulle transazioni europee erano assai inferiori a quelli sulle transazioni con il Levante. Se i traffici italiani e catalani con l'Oriente costituirono l'aspetto più notevole delle attività nel campo del commercio e della navigazione, delle operazioni finanziarie e delle abitudini di consumo legate al traffico marittimo del tardo Medioevo, anche i rapporti economici tra il Mediterraneo e l'Europa transalpina conobbero una costante intensificazione. I galeoni genovesi fecero la loro comparsa a Cadice e a Siviglia, a Southampton e a Londra, nonché a Bruges. Gli Italiani erano egualmente attivi nelle fiere della Champagne e della Brie, dove importavano ciò che i Francesi chiamavano avoir de poids, ossia spezie, zucchero, allume, materiali da tintura e gommoresine. La direzione, la composizione e il volume del commercio nordeuropeo furono influenzati dai modelli di specializzazione interregionale nonché dai contatti con il Sud più evoluto. La produzione di grano delle Fiandre, del delta del Reno e di alcune zone della Scandinavia non era sufficiente a soddisfare il fabbisogno alimentare delle popolazioni di tali regioni, che erano quindi costrette a importarlo dalle ricche aree agricole della Francia settentrionale nonché dalla Renania. In seguito, quando la colonizzazione si spinse dall'Europa centrale verso il Baltico, il grano fu importato dall'area al di là dell'Elba. I Paesi Bassi avevano una capacità leggendaria di sottrarre terre al mare rendendole coltivabili, ed eccellevano nella produzione industriale. I tessuti fiamminghi ricavati in parte da materie prime importate dall'Inghilterra e dalla Spagna venivano esportati in tutta Europa, e contribuivano a finanziare le importazioni di grano, pellicce e legname dalle regioni baltiche. Data l'importanza del pesce, del sale e del vino nella dieta europea dell'epoca medievale, questi prodotti costituivano una componente significativa del commercio tra Nord e Sud. Il pesce pescato nei mari freddi della Scandinavia veniva messo sotto sale su larga scala in Olanda ed esportato nel Mediterraneo. Il sale necessario per la conservazione del pesce proveniva dalla bassa Sassonia e dall'area intorno alla Gironda in Francia. Mentre le fiere periodiche in Francia, Germania e Fiandre avevano costituito il principale sbocco per il commercio nell'Europa settentrionale, nel XIII secolo acquistò una posizione di primaria importanza un gruppo di città mercantili: Bruges, Londra, Colonia, Lubecca, Danzica e Novgorod nell'estremo nord divennero sedi di mercanti e commercianti, e svolsero un ruolo di primo piano nella grande organizzazione politico-commerciale istituita dai Tedeschi con la Lega anseatica. Il principio della regolamentazione collettiva del commercio che improntava l'organizzazione della Hansa avrebbe avuto conseguenze di vasta portata per gli sviluppi futuri del commercio marittimo in Europa.
Il Mediterraneo cristiano durante il tardo Medioevo è accomunato da una stessa logica storica ad aree che, pur situate a una certa distanza dal mare, erano a esso collegate attraverso il commercio, gli interessi politici, la tecnologia dei trasporti e un'organizzazione finanziaria in via di sviluppo. Si potrebbe sostenere che, a un livello differente, anche il Mediterraneo cristiano e quello musulmano erano legati tra loro da un'analoga forma di esperienze storiche comuni, sebbene le manifestazioni esteriori della vita culturale delle due aree differissero sia nello spirito che nella sostanza. La somiglianza fu imposta da un'analoga struttura climatica ed ecologica, e da una storia che in passato non aveva fatto grandi distinzioni tra le sponde settentrionali e quelle meridionali del grande mare interno. Se ci spostiamo dal Mediterraneo e guardiamo verso l'Atlantico e l'Oceano Indiano dal punto di vista dell'Africa e dell'Asia, il rapporto simbiotico tra il mare e le civiltà umane diventa ancora più evidente. Dal V al XV secolo il continente africano è caratterizzato da due tipi distinti di economia di scambio, dipendenti entrambi dai traffici sia marittimi che terrestri. A nord del Sahara le regioni conquistate dagli Arabi interagivano con l'Africa occidentale e con il Sudan sulla base delle necessità commerciali e di una organizzazione sociale che si era sviluppata in larga misura al di fuori delle forme storiche indigene. Lo stesso vale per gli insediamenti islamici e gli Stati commerciali sulla costa orientale del continente. L'uso di navi a vela nell'Africa musulmana - sia galee che navi onerarie tonde adibite al trasporto di merci voluminose - fu una delle componenti di un'ampio insieme di tecniche e usi economici che includevano l'impiego della trazione animale nell'agricoltura, l'utilizzazione di pulegge o ruote per attingere l'acqua da pozzi e cisterne adibiti all'irrigazione, lo sviluppo di complesse strutture urbane, nonché l'uso della cavalleria in guerra. A sud dell'equatore le tribù africane erano ancora ferme a un'economia di sussistenza basata sulla tecnologia preistorica dell'Età del ferro. Le necessità di queste piccole comunità per quanto riguarda lo scambio di merci probabilmente non andavano al di là del ferro, del rame e del sale. I reperti archeologici indicano che nell'Africa centrale esisteva un certo volume di traffici a lunga distanza di questi prodotti essenziali. Negli insediamenti della valle dello Zambesi sono state trovate perline di vetro e conchiglie di ciprea importate dal subcontinente indiano. Il commercio trans-sahariano tra il Nordafrica dominato dagli Arabi e il Sudan dei Bantu si basava sullo scambio di oro, avorio e schiavi per le miniere di salgemma con tessuti in cotone e con generi di lusso del mondo islamico. Le rotte carovaniere attraverso il deserto o la savana erano sempre collegate alle città portuali della costa, sia quella dell'Atlantico, sia quelle del Mediterraneo e dell'Oceano Indiano. Le città commerciali ai margini del Sahara sono descritte nelle fonti arabe come altrettanti porti sulle sponde di un vasto oceano di sabbia. La maggior parte di esse controllava a est l'asse commerciale tra Tripoli e il lago Ciad. A partire dal IX secolo la città di Zawila fu abitata da mercanti ibaditi provenienti dal Golfo Persico e prese parte attiva nel commercio transsahariano. A ovest, più vicino all'Atlantico, un lungo itinerario collegava Sigilmasa nel Sahara occidentale con Awdaghust nel Ghana, Gao e Timbuctu nel Sahel. Secondo i geografi arabi, il famoso traffico dell'oro africano che passava attraverso queste città e l'espansione degli Almoravidi da Sigilmasa verso l'Atlantico crearono le condizioni politiche e sociali per un rapporto stabile tra l'Africa occidentale e il Maghreb musulmano.
Nell'Oceano Indiano la presenza precoce di coloni e commercianti musulmani sulla costa africana è attestata sia da scoperte archeologiche che da documenti storici. Gli scavi di Manda hanno rivelato l'esistenza di una vera e propria città con resti di terraglie islamiche e cinesi. Kilwa e Mogadiscio, ricche di raffinati edifici e moschee, erano grandi città commerciali visitate regolarmente dai mercanti provenienti dal Mar Rosso e dal Golfo Persico. È certo che il Mare Arabico ebbe un ruolo chiave nel collegare il subcontinente indiano con la vita economica e sociale del Medio Oriente e del Mediterraneo orientale. Alcuni testi medievali, nonché la famosa collezione di documenti dei mercanti ebrei del Cairo Vecchio - noti come manoscritti della gĕnīzāh - dimostrano che il commercio con l'India costituiva una delle principali fonti di reddito e di ricchezza sia per il governo egiziano che per i mercanti privati attivi negli affari commerciali del Mar Rosso e del Levante. Esistono numerose testimonianze sull'importanza del commercio con l'India per l'economia dell'antichità. L'anonimo autore del Periplo del Mar Rosso (50-60 circa a.C.), probabilmente un mercante greco di Alessandria, descrive in modo dettagliato la geografia, le rotte marittime e i prodotti delle coste del Mar Rosso, della Somalia e dell'India occidentale. Verso il 545 il bizantino Cosma Indicopleuste parla di navi persiane che andavano avanti e indietro dall'isola di Ceylon, che sembra abbia avuto la funzione di tappa intermedia nella rotta marittima tra la Cina e il Medio Oriente. Tra i manoscritti della gĕnīzāh risalenti al X secolo si trovano lettere inviate da mercanti ebrei dall'India ad Aden o ad Alessandria, nonché un numero notevole di documenti d'affari che registrano contratti di commenda o di associazione tra i mercanti locali e quelli stranieri. L'uomo d'affari Abraham ben Yiju, originario di al-Mahdiyya in Tunisia, soggiornò dal 1132 al 1149 in India, dove era proprietario di un'officina per la lavorazione del rame. I documenti contabili dei mercanti della gĕnīzāh annoverano non meno di 77 articoli importati dall'India, tra cui spezie, ferro e acciaio, utensili in rame, tessuti in cotone e seta, pietre preziose e articoli in cuoio; porcellane cinesi e avorio africano sono anch'essi menzionati.
La regolarità e la consistenza del commercio marittimo con la Cina e con l'India nel Medioevo sono attestate dall'esistenza di grandi e prospere città portuali abitate da mercanti di professione. I due principali prodotti esportati dalla Cina verso il mondo esterno, la porcellana e la seta, erano spediti prevalentemente per mare. Agli occhi del viaggiatore veneziano Marco Polo (1254-1324) Hang chou era la più raffinata e splendida città del mondo contemporaneo, e i suoi mercanti erano del pari ricchi e versatili nel gestire un consistente volume di traffici commerciali. La sua descrizione della città portuale di Zaiton, o Chüan chou, nella provincia di Fu chien è corroborata da quella del viaggiatore arabo Ibn Baṭṭūṭa. Da entrambe emerge il quadro di un intenso commercio marittimo condotto dalle giunche cinesi nell'Oceano Indiano. Un'analisi del commercio medievale nelle diverse aree del mondo civilizzato e alla loro periferia rivela la forza e i limiti di alcune conclusioni storiche ampiamente accettate. Il declino della civiltà romana, la trionfante espansione dell'Islam, l'ascesa delle città marinare del Mediterraneo e di un gruppo di città dell'Europa occidentale sono gli eventi in base ai quali di solito viene scandita la cronologia del periodo compreso tra il V e il XV secolo. È difficile tuttavia far rientrare in questo schema tripartito di divisione dei secoli la storia del mare che bagna l'India, l'Africa orientale, l'arcipelago malese e la Cina. Abbiamo pochissime informazioni sul volume e sul valore del commercio marittimo medievale; tuttavia sappiamo che il flusso di merci trasportate per mare, sia nell'Oceano Indiano che nel Mediterraneo, fu consistente almeno a partire dal X secolo. L'ascesa delle città-Stato italiane - Venezia, Genova, Firenze, Milano, Pisa e Amalfi - si dovette alle opportunità economiche offerte dal commercio marittimo internazionale, e la prosperità che ne derivò è attestata da una straordinaria varietà e ricchezza di espressioni culturali.
Nel 1492 il capitano ed esploratore genovese Cristoforo Colombo, al servizio della Spagna, scoprì il Nuovo Mondo. Il Portogallo, che fino ad allora non aveva avuto seri rivali nell'espansione nell'Oceano Atlantico, si trovò un formidabile avversario proprio alle porte di casa. Sei anni dopo, tuttavia, Vasco da Gama compì a sua volta un'impresa grandiosa a beneficio della corona lusitana. Il 18 maggio 1498 la sua piccola flotta gettò l'ancora davanti a Calicut, il famoso porto delle spezie sulla costa indiana di Malabar. La possibilità di raggiungere l'Oriente per mare doppiando il Capo di Buona Speranza apriva un'eccitante prospettiva, quella di liberare il commercio tra l'Oceano Indiano e l'Europa dal controllo economico e politico dei musulmani. I viaggi di scoperta oceanici spagnoli e portoghesi, oltre a inaugurare simbolicamente le tendenze a lungo termine dell'economia europea, ebbero un profondo impatto sul mondo contemporaneo. Non erano solo i mercanti di Aden, del Cairo o di Alessandria ad avere fondati motivi di temere la scoperta della rotta per le Indie compiuta da Vasco da Gama. Gli interessi economici di Venezia, all'epoca l'indiscussa potenza marittima del Mediterraneo, sembravano anch'essi in pericolo. Il veneziano Girolamo Priuli formulava nel suo diario la seguente previsione: "Se questo viaggio [verso l'India] dovesse continuare, giacché ora mi appare facile da attuare, il Re del Portogallo potrebbe fregiarsi del titolo di Re del Denaro, perché tutti si rivolgerebbero a quel paese per ottenere le spezie e il denaro si accumulerebbe in Portogallo, considerati i profitti che deriverebbero ogni anno da simili viaggi. Quando questa notizia fu appresa come certa a Venezia, l'intera città entrò in subbuglio, e tutti erano stupefatti che in questa nostra epoca si sia potuto scoprire un nuovo viaggio di cui non si era mai visto né udito ai tempi degli antichi o dei nostri antenati".
Il tentativo portoghese di deviare il commercio delle spezie verso la rotta del Capo e di assumerne il controllo non riuscì come in un primo tempo si era paventato. Nonostante il notevole quantitativo di pepe importato a Lisbona e venduto attraverso Anversa, a metà del XVI secolo le spezie, i materiali da tintura e i tessuti orientali affluivano ancora attraverso il Mar Rosso e il Mediterraneo. Il declino economico di Venezia nei secoli successivi (dal Seicento al Settecento) fu lo specchio del dramma generale che andava maturando in molte parti del Mediterraneo. Tale declino tuttavia non fu immediato, né ebbe conseguenze catastrofiche. Ancora alla fine del XVI secolo Nicolò Contarini poteva ricordare con orgoglio l'intenso traffico commerciale che faceva capo a Venezia da tutte le direzioni, forse pari se non superiore a quello che la Repubblica aveva conosciuto in passato. È evidente che lo spostamento geografico del commercio marittimo dall'Europa meridionale a quella nordoccidentale, dal 1500 al 1700, fu un processo relativamente lento, sebbene la direzione del mutamento fosse inequivocabile. Nell'economia mondiale dell'Europa del XVI secolo il quadrilatero urbano e 'terrestre' composto da Venezia, Genova, Firenze e Milano fu eguagliato dal triangolo marittimo formato da Siviglia, Lisbona e Anversa. La città fiamminga che sorgeva sull'estuario del fiume Schelda aveva preso il posto di Bruges quale centro del commercio marittimo dell'Europa settentrionale. Anversa sarebbe stata a sua volta travolta nei decenni 1570 e 1580 dall'aspra e lunga lotta tra gli Olandesi e gli Spagnoli per il controllo delle fortune commerciali d'Europa.I conflitti armati che durarono per oltre ottant'anni (conclusi con la pace di Westfalia nel 1648) determinarono un riassetto dei canali commerciali marittimi del Nord: il Baltico passò in seconda linea rispetto al Mare del Nord a tutto vantaggio della Repubblica olandese. Senza dubbio il XVII secolo fu l'era della supremazia navale e commerciale olandese. Amsterdam occupò senza difficoltà il posto lasciato vacante dal declino di Anversa quale centro finanziario e di redistribuzione, e divenne la prima città bancaria e mercantile nel Mare del Nord. Gli sconvolgimenti nelle rotte commerciali tradizionali del Mare del Nord in un primo tempo ebbero ripercussioni negative sul commercio inglese, da tempo dipendente dai mercati fiamminghi per l'esportazione di tessuti in lana e di materie prime semilavorate. Tuttavia, con l'ascesa di Amsterdam e lo sviluppo del commercio inglese nel Mediterraneo e nelle Indie Orientali, i mercanti londinesi cominciarono a essere favoriti nella competizione con i rivali olandesi. All'inizio del XVIII secolo la città di Londra poteva essere equiparata ad Amsterdam per importanza commerciale e attività marittime. La Spagna e il Portogallo, che avevano aperto la strada alle scoperte d'oltreoceano, non erano più in grado di competere con le due potenze marittime nordatlantiche. Da un punto di vista strutturale questo processo che vide il graduale spostamento del centro di gravità commerciale dal Mediterraneo all'Atlantico presentava delle caratteristiche del tutto nuove. Siviglia, Lisbona, Amsterdam e Londra possedevano tutte aree commerciali molto estese e distanti, rispetto alle quali agivano come metropoli. Ognuna di queste città era il centro di universi economici separati, e forniva e assorbiva risorse in un sistema di mutuo scambio economico reso possibile dalla navigazione oceanica. La funzione di accumulare capitale e di redistribuire beni e servizi tra queste economie di tipo imperiale-metropolitano fu assunta di volta in volta dai mercanti di Anversa, di Amsterdam e di Londra. Le grandi regioni commerciali dell'Asia - l'India, la Cina e l'arcipelago malese - che avevano avuto in passato il ruolo di protagonisti del commercio nell'Oceano Indiano, furono assorbite nelle reti commerciali europee in via di espansione, sebbene le loro economie interne continuassero in larga misura a seguire un ritmo autonomo di attività. Un processo analogo si ebbe nell'Africa occidentale e nell'Atlantico meridionale. Molte aree di questa parte dell'Africa divennero il serbatoio di una massiccia migrazione coatta di manodopera. Nel Nuovo Mondo sorse una nuova forma di produzione agricola e di lavorazione delle materie prime basata sulla manodopera schiavile. Le piantagioni americane e la loro produzione economica furono elementi importanti nel sistema commerciale atlantico in via di espansione. Tra il 1500 e il 1750 il capitalismo dei mercanti premoderni si sarebbe progressivamente trasformato nel capitalismo delle forze produttive.
La nascita di una nuova economia mondiale, che alcuni storici hanno considerato come l'affermarsi di un sistema di scambi economici diseguali basato su motivazioni politiche, fu strettamente collegata all'espansione europea oltreoceano. Nel corso dei due secoli successivi alla scoperta del Nuovo Mondo e della rotta del Capo per le Indie, l'espansione europea infranse i confini tra differenti culture e civiltà che esistevano nel Medioevo e creò le condizioni per una base sociale tecnologica più uniforme. Il mutare dei rapporti tra l'Europa e il resto del mondo trasformò anche il rapporto tra il mare e le civiltà umane. Il primo problema che si trovano ad affrontare gli storici in relazione all'espansione europea oltreoceano è quello di spiegare il perché dell'iniziativa iberica, dato che non era evidentemente impossibile per i navigatori cinesi, arabi o indiani traversare mari sconosciuti senza avvistare terra. Il secondo problema è quello di spiegare perché le scoperte avvennero alla fine del XV secolo. Tre insiemi di fatti storici vanno tenuti presenti quando si cerca una risposta a queste questioni tra loro complementari. In primo luogo, occorre osservare che i viaggi spagnoli di scoperta del XV secolo, che ebbero come teatro la costa occidentale dell'Africa e le isole dell'Atlantico centrale, erano strettamente collegati ad attività marinare generali, fossero queste la pesca al largo o la ricerca di nuove fonti di merci e di ricchezza per i navigatori. Le traversate atlantiche intraprese prima dai Portoghesi e poi dagli Spagnoli furono la conseguenza di una storia di successi nella costruzione navale e nella progettazione di navi in grado di sopportare i rigori e le condizioni estreme dei grandi oceani.Il secondo insieme di fattori è collegato alla struttura del commercio marittimo internazionale, e in particolare ai suoi strumenti finanziari e monetari. Infine, gli storici contemporanei hanno messo in evidenza che l'età delle scoperte oltreoceano vide anche la lenta transizione dal modo di produzione feudale tipico del Medioevo a uno più capitalistico, orientato verso il mercato, transizione che determinò un fondamentale mutamento strutturale nell'economia e nella società europee. Nel valutare queste considerazioni generali è inoltre necessario sottolineare il fatto che le migrazioni sia per terra che per mare sono state una costante nella storia dell'uomo, sin dai tempi più remoti. Se mai, le migrazioni marittime potrebbero essere state anche più generalizzate ed efficaci per la colonizzazione di nuovi insediamenti e di nuove terre in epoca preistorica. La navigazione europea nell'Atlantico e nell'Oceano Indiano nel corso del XV e del XVI secolo si basava sulla tradizione nautica sviluppata nel Mediterraneo e nel Mare del Nord sin dall'antichità e dall'epoca della grande migrazione norrena di cui furono protagonisti i Vichinghi. Sebbene lo scopo principale delle attività marinaresche fosse sempre identificato con la pesca e il trasporto di merci e persone, le guerre furono un altro motivo fondamentale che spinse molte comunità a trarre il proprio sostentamento dal mare. I viaggi d'oltreoceano europei a partire dall'inizio del Cinquecento ebbero una chiara motivazione politica, come dimostra lo slogan ufficiale del Portogallo, che si dichiarava intenzionato a estendere la guerra contro l'Islam, l'eterno nemico della fede, dalla penisola iberica al suo cuore nordafricano in Marocco e nell'Africa occidentale. Sin dal periodo greco-romano, il Mediterraneo era rimasto l'area per eccellenza in cui il dominio politico significava il controllo effettivo non solo delle più importanti rotte militari terrestri, ma anche delle vie marittime.
Ibn Khaldūn, lo storico arabo originario del Marocco, mise l'accento sull'importanza strategica della potenza marittima nel determinare l'equilibrio del potere politico nel Mediterraneo tra il mondo islamico e la cristianità. Riferendosi al periodo della reconquista spagnola nel corso del Duecento e del Trecento, egli scrive nel Muqaddima, l'introduzione della sua grande opera storica Kitāb al-'ibar (1400) pubblicata al Cairo: "Allora la potenza navale dei musulmani declinò ancora una volta, a causa della debolezza della dinastia dominante. Le usanze marittime vennero dimenticate sotto l'influenza della forte attitudine nomade prevalente nel Maghreb, e in conseguenza dell'abbandono dei costumi spagnoli. I cristiani riacquistarono la loro antica, famosa perizia marittima, e ripresero a esercitare una costante attività nel Mediterraneo [...] e nella navigazione. I musulmani divennero estranei al Mediterraneo". Ibn Khaldūn non poteva prevedere che nel giro di circa un secolo l'invenzione della polvere da sparo in Europa avrebbe completamente rivoluzionato la natura dei conflitti per mare e trasformato l'architettura navale tradizionale attraverso l'uso generalizzato dell'artiglieria pesante montata a bordo dei velieri.In Europa, a partire dal primo Medioevo, le nazioni e le popolazioni marittime adottarono due diversi tipi di costruzione navale e di metodi di navigazione. Nel Nord le navi lunghe dei Vichinghi (drakars e snekars) furono gradualmente rimpiazzate dalle navi onerarie tonde, più lente e pesanti, adibite al trasporto di grano, legname, sale e altre merci voluminose. Nel Sud la galea romana conobbe un'evoluzione che sfociò infine nelle grandi navi genovesi e veneziane, con propulsione sia a remi che a vela. Le successive galee mediterranee avevano un'attrezzatura a vela latina; questo tipo di velatura, secondo alcuni storici, sarebbe arrivato dall'Oceano Indiano con l'insediamento islamico nel Maghreb. La nave rotonda, invece, era attrezzata a vela quadra; pur non possedendo la velocità delle navi a vela latina, era assai più economica in termini di impiego di forza lavoro. Verso il XIII secolo la cocca nordica e la galea erano ampiamente usate nel commercio dell'Europa col Levante. L'evoluzione della cocca da una nave prototipo al congegno militare e mercantile del XVI secolo fu dovuta al perfezionamento nella tecnica di costruzione dell'ossatura dello scafo. I galeoni spagnoli e portoghesi erano progettati e costruiti impostando dapprima la chiglia, e aggiungendo successivamente i bagli laterali e le coste, legati da appositi braccioli fissati da grossi e robusti chiodi in metallo. Sull'ossatura veniva poi sovrapposto il fasciame, un rivestimento di tavole di legno fissate anch'esse con chiodi metallici. Le fessure tra le tavole del fasciame erano riempite di cotone imbevuto nel catrame per rendere impermeabile lo scafo. Dotate di più ponti, le navi costruite con questa tecnica divennero vascelli straordinariamente robusti e manovrieri, armati con una batteria di cannoni disposti a murata sul ponte mediano, detto appunto ponte di batteria, che facevano fuoco attraverso appositi portelli aperti sui fianchi dello scafo. La comparsa del galeone europeo armato, la sua funzione di nave sia da guerra che da carico, l'economia nelle dimensioni dell'equipaggio e la capacità di sfruttare razionalmente i venti rivoluzionarono la tecnologia nautica in un'area di commercio marittimo che sino ad allora aveva pressoché ignorato le guerre navali. A partire dalla metà del XVI secolo le grandi navi iberiche resero possibile controllare e sfruttare un ampio spazio oceanico per obiettivi economici e politici. Notevoli quantità di merci potevano essere trasportate a grandi distanze a costi relativamente bassi, e le navi erano in grado di difendersi agevolmente dagli attacchi dei pirati o dei nemici senza essere costrette a portare a bordo un gran numero di soldati. Il galeone armato rese possibile rifornire e mantenere basi a terra o fortezze costiere molto distanti dalla madrepatria. Il perfezionamento e i progressi nella tecnica della costruzione navale, naturalmente, furono accompagnati da un generale progresso delle tecniche di navigazione. L'uso del compasso magnetico, la misurazione esatta del tempo e il calcolo matematico delle longitudini e delle latitudini furono tra i portati della rivoluzione verificatasi nella scienza cartografica, nel calcolo delle rotte e nella costruzione delle carte nautiche. Si dovrebbe tener presente, tuttavia, che i progressi della tecnologia nautica costituiscono un elemento necessario ma non sufficiente a spiegare il fenomeno complessivo delle scoperte geografiche del XVI secolo. I mercanti e i costruttori navali asiatici, ad esempio, impararono ben presto a padroneggiare l'arte di costruire navi di tipo europeo nell'Oceano Indiano, e le tradizionali giunche cinesi erano sufficientemente robuste da affrontare spedizioni nell'Atlantico, mare assai più pericoloso e difficile dell'Oceano Indiano occidentale. E tuttavia né gli armatori indiani né quelli cinesi considerarono mai seriamente l'idea di intraprendere spedizioni commerciali verso l'Europa, né prima né dopo l'impresa di Vasco da Gama. In realtà, i progressi tecnologici cui si dovettero la comparsa del galeone spagnolo e l'uso dell'artiglieria navale furono strettamente connessi ad altre trasformazioni sociali indirette che si verificarono nel Mediterraneo e nell'Atlantico.
Il segno più evidente del mutamento che si verificò a partire dal 1500 nell'equilibrio del commercio mondiale fu lo spostamento del suo centro politico ed economico dal Mediterraneo orientale a quello occidentale e infine all'Atlantico settentrionale. A ciò fece seguito l'integrazione di un altro oceano, il Pacifico, nel mondo politico, economico e culturale dell'antica Eurasia.Per i quasi otto secoli che precedettero l'arrivo di Vasco da Gama a Calicut, l'Europa fu collegata alle antiche civiltà dell'Oceano Indiano attraverso una grande catena di porti commerciali transcontinentali. Il lungo itinerario del commercio marittimo partiva dalla Cina meridionale e passava per gli Stretti di Malacca e della Sonda, giungendo alle zone costiere di Coromandel, Malabar e Gujarat in India. Da qui andava verso il Golfo Persico e il Mar Rosso per arrivare ai centri commerciali di Aleppo, Beirut, il Cairo e Alessandria. Il Pacifico rimase prevalentemente un'area di navigazione e di colonizzazione per le popolazioni della Melanesia e delle isole esterne dell'arcipelago indonesiano, e non venne attivamente incorporato nella rete commerciale dell'Oceano Indiano perché le condizioni climatiche e i monsoni periodici ne rendevano ardua la traversata da un capo all'altro. Da un'analisi del commercio marittimo tra l'Europa e l'Asia in base alla composizione delle merci scaturiscono interessanti conclusioni per quanto concerne il successo economico che in seguito ebbero i mercanti europei nell'Oceano Indiano. Lo storico inglese dell'Impero romano Edward Gibbon liquidò il commercio orientale dell'Europa occidentale definendolo in una famosa frase sontuoso e irrisorio, basato prevalentemente su generi di lusso. Poiché i costi di trasporto erano generalmente elevati in rapporto al valore complessivo dei beni scambiati, la maggior parte degli storici ha accettato la tesi di Gibbon senza ulteriori riflessioni. E tuttavia il ragionamento su cui si basa questa tesi è fondamentalmente erroneo. In primo luogo, il rapporto tra i costi globali e i costi di trasporto non è mai stato analizzato sulla base di dati concreti di tipo quantitativo. In secondo luogo, per ragioni di ordine tecnico le spedizioni marittime richiedevano una composizione del carico che abbinasse alle merci pregiate merci relativamente povere e voluminose, utilizzate come zavorra per stabilizzare le navi. L'esame del carico di un bastimento in epoca premoderna dimostra che in esso figuravano sia articoli di lusso che merci di largo consumo e relativamente povere, quali datteri, grano, legname e persino materiale edile. Queste esigenze di ordine tecnico determinarono l'affermarsi di un modello di commercio marittimo che può essere definito come un sistema di empori commerciali. Nell'Oceano Indiano non meno che nel Mediterraneo le attività commerciali erano organizzate a partire da una serie di grandi centri urbani in cui i mercanti potevano comprare e vendere le loro merci e scaricare le navi. Le merci di largo consumo erano vendute localmente, mentre i generi voluttuari pregiati venivano fatti proseguire per il successivo porto commerciale. L'Oceano Indiano era attraversato in lungo e in largo da un gran numero di navi: giunche cinesi, praho indonesiani e navi più grandi, i buci o buzi indiani e arabi. Nel Mediterraneo Egiziani, Nordafricani, Greci, Italiani e Catalani governavano tutta una gamma di navi, che andava dalle grandi galee alle piccole navi onerarie tonde. Senza questa antica tradizione nautica sviluppatasi dagli scambi commerciali tra città portuali molto distanti tra loro, i viaggi di Colombo e di Vasco da Gama non avrebbero mai potuto aver luogo.
La conclusione che si può trarre dalle precedenti analisi della nuova navigazione oceanica e dell'antico commercio mediterraneo non è stata mai esplicitamente enunciata dagli storici, ma può essere sintetizzata nel modo seguente. I grandi galeoni spagnoli e portoghesi erano in grado di trasportare tanto articoli di lusso quanto merci di largo consumo, relativamente povere e voluminose, affrontando viaggi che duravano molti mesi e coprivano parecchie miglia marittime; nel XVI secolo queste navi riuscirono a scardinare la logica economica dell'Oceano Indiano e degli empori commerciali del Mediterraneo. La circolazione di merci su scala mondiale nel corso del Seicento e del Settecento fu resa possibile dallo sviluppo di un tipo interamente nuovo di navigazione e di metodi di combattimento basati su flotte armate di artiglieria pesante.
Le conseguenze economiche dell'espansione del commercio marittimo nel XVI secolo e la crisi che si verificò nel secolo successivo in molti paesi europei sono state ampiamente analizzate e dibattute dagli storici. Senza dubbio si avvantaggiarono quelle città che presero l'iniziativa di sviluppare i propri porti e la propria industria dei trasporti. Alla fine del XIV secolo Venezia costituiva il fulcro del sistema di distribuzione delle merci nel Mediterraneo. Secondo Priuli, nel 1497 l'investimento globale in spezie realizzato da Venezia ad Alessandria e Beirut ammontava a 403.000 ducati. Nel lungo periodo la principale sfida alla supremazia di Venezia, di Genova e della Spagna non venne tanto dalla concorrenza portoghese, quanto piuttosto dalla potenza marittima ottomana nonché dalla conquista turca del Nordafrica. Cipro fu conquistata dagli Ottomani nel 1570-1573, e nell'ultimo quarto del secolo Venezia scelse la neutralità politica, mentre aumentava l'incidenza della pirateria e delle attività corsare nel Mediterraneo. La mancata partecipazione delle città italiane ai viaggi di scoperta oltreoceano segnò il loro definitivo declino sia economico che politico. L'iniziativa in campo navale e marittimo passò nelle mani degli Olandesi e degli Inglesi. Nel 1601 il Consiglio di Venezia lamentava che gli Inglesi e gli Olandesi, dopo aver estromesso Venezia dal commercio costiero atlantico, navigassero ora nelle acque levantine, sottraendole il commercio con le isole e i porti sotto il suo protettorato. Il tentativo di difendere l'industria dei trasporti veneziana con una serie di leggi sulla navigazione ebbe di fatto l'effetto di stornarla dal porto in favore dell'entroterra, e lo scoppio della guerra dei Trent'anni nel 1618 comportò la perdita di importanti mercati in Germania. Alla fine del XVII secolo, tuttavia, Venezia riacquistò ancora una volta parte della sua perduta gloria economica.
La storia economica di Genova nel periodo dell'espansione iberica nel Nuovo Mondo è forse la dimostrazione più evidente della forte attrazione esercitata dall'Atlantico del nord. Nel corso del XVI secolo l'argento americano che affluiva a Cadice e Siviglia sulla flota de plata inviata annualmente trovò un'utile e già pronta rete di distribuzione nelle case mercantili controllate da banchieri genovesi quali i Grimaldi, i Lomellini e gli Spinola. La Casa de contratación fondata a Siviglia nel 1504 assunse la funzione di accentrare e dirigere tutto il commercio spagnolo con il Nuovo Mondo. I galeoni e le navi mercantili utilizzati per i traffici con l'America furono costruiti per la maggior parte sulla costa basca. Le navi partivano da Siviglia e da Cadice con un carico di olio, vino, vettovaglie, tessuti e oggetti in metallo. Al suo ritorno la flotta portava non solo oro e argento, ma anche tinture, come l'indaco e la cocciniglia, zucchero, rum e pelli. Il verificarsi di naufragi o gli attacchi dei pirati a volte impedivano l'arrivo della flota annuale, causando una scarsità di valuta e metalli preziosi in Europa e nel resto del mondo. Gli istituti di credito di Amsterdam e di Londra nel XVIII secolo provvedevano alle necessità di valuta dei mercanti dell'argento di Cadice e Siviglia. Il commercio nell'Atlantico era controllato nel XVI secolo da tre città, Siviglia, Lisbona e Anversa. Così come alle necessità commerciali di Siviglia provvedevano i mercanti e i banchieri genovesi, allo stesso modo Lisbona si rivolgeva ad Amsterdam per trovare un mercato più conveniente per le sue importazioni di spezie dall'Oceano Indiano. Il parziale controllo navale sulle fonti di rifornimento asiatiche esercitato dai Portoghesi mediante l'uso deliberato della loro flotta da guerra li avvantaggiò sugli altri concorrenti nell'antico commercio mediterraneo delle spezie. Ma Lisbona non aveva né le capacità commerciali né una collocazione geografica favorevole per poter partecipare direttamente ai traffici marittimi transeuropei. La città perse ogni speranza di diventare un libero mercato per i prodotti importati dall'Asia quando, nel 1506, il re dom Manuel trasformò il commercio portoghese delle spezie in un monopolio della Corona. Due anni dopo, un'associazione di commercianti che operava da Anversa raggiunse un accordo con la Corona portoghese per acquistare l'intera fornitura di spezie a un prezzo fisso. Da allora Lisbona ricevette le rendite del commercio con l'India, mentre Anversa assurse rapidamente al ruolo di principale centro mercantile europeo e sede di complesse speculazioni finanziarie. Secondo il mercante italiano Ludovico Guicciardini, negli anni sessanta del Cinquecento nei magazzini di Anversa si poteva trovare il più vasto assortimento di merci: seta, allume e vino importati dall'Italia, grano e forniture navali dal Baltico, tessuti in lana inglesi, fustagno tedesco, rame, guado, sale, olio, zucchero e spezie. Guicciardini stimava che le importazioni complessive dei Paesi Bassi raggiungessero il valore di 20-22 milioni di fiorini olandesi.
La prosperità economica di Anversa era legata indirettamente alla potenza navale della Spagna e del Portogallo, ma alla fine la città fu rovinata dalle guerre: nel 1576 venne saccheggiata dalle truppe del duca di Alba come rappresaglia per la ribellione contro il governo spagnolo. A partire dal 1585 il fiume Schelda venne regolarmente bloccato dai capitani olandesi e ciò determinò un esodo dei mercanti in direzione di Amsterdam, Amburgo, Brema e Danzica. Alla fine del secolo la supremazia economica nel Mare del Nord era passata nelle mani dei cittadini di Amsterdam. La repentina ascesa della città a capitale commerciale europea e centro marittimo stupì tutti gli osservatori del XVII secolo. Ancora un secolo dopo, un enciclopedista francese poteva definire Amsterdam una delle più grandi città del mondo, sia per l'enorme quantità di denaro che i suoi mercanti e banchieri facevano affluire in tutti i paesi stranieri, sia per la varietà pressoché infinita delle merci che riempivano i suoi magazzini. Il successo olandese si basò in principio sull'offerta di servizi marittimi a prezzi molto più convenienti di quelli praticati nel resto d'Europa. La nave mercantile olandese, il cosiddetto 'flauto', era un'imbarcazione estremamente efficiente per il commercio costiero con il Baltico e il Mediterraneo. I mercanti di Amsterdam si assumevano inoltre alti rischi, ed erano in grado di organizzare viaggi a grandi distanze con un periodo di rotazione di due o tre anni del capitale investito. Il costante reinvestimento dei profitti derivati dal commercio marittimo consentiva una rapida accumulazione di capitale; ciò portò alla fondazione, nel 1609, della Banca di Amsterdam, la prima banca centrale moderna nel mondo finanziario europeo. Nel XVIII secolo il surplus di capitale olandese, frutto delle precedenti iniziative commerciali dirette, venne utilizzato per finanziare una rete commerciale mondiale nel Mediterraneo, nelle Americhe e nell'Oceano Indiano.Da un'analisi quantitativa dei registri doganali olandesi concernenti il traffico di merci che passava attraverso lo Stretto della Sonda, risulta che tra il 1497 e il 1783 più del 70% della segale e del frumento del Baltico veniva esportato su navi olandesi. Le croniche scarsità di grano sofferte dai paesi del Mediterraneo nel corso del XVII secolo spinsero Amsterdam ad assumere il ruolo di intermediaria nei trasporti marittimi. Al commercio di beni di largo consumo, quali cereali e altre derrate alimentari, faceva da complemento quello dei prodotti esotici delle Indie. Dopo che la Compagnia delle Indie inglese e quella olandese spezzarono il semimonopolio del commercio delle spezie e il controllo navale sulla rotta del Capo per le Indie, detenuto dai Portoghesi, pepe, spezie rare, tessuti indiani e cinesi, caffè e tè venivano importati ad Amsterdam e a Londra e da qui ridistribuiti in Europa, nel Nuovo Mondo e persino in Medio Oriente. Gli stretti rapporti commerciali e finanziari che esistevano tra i capitali inglesi e olandesi trovavano riscontro non solo nella presenza di mercanti e ditte commerciali inglesi in Olanda e viceversa, ma anche nella interdipendenza dei prezzi delle merci e dei tassi di interesse tra i due paesi.
L'enfatica affermazione di Adam Smith (1776), secondo cui la scoperta delle rotte per l'America e per le Indie Orientali avrebbe costituito l'evento più significativo della storia del mondo, dà la misura dell'importanza che i contemporanei attribuivano al commercio nell'Atlantico e nell'Oceano Indiano. Il vasto impero coloniale e commerciale creato dai Portoghesi nell'Oceano Indiano, cui fu dato il nome di Estado da India, dovette il suo successo alla superiorità navale dei grandi galeoni portoghesi. Nei primi due decenni del XVI secolo i conquistadores portoghesi riuscirono a impossessarsi dei principali empori commerciali dell'Oceano Indiano: Hormuz, Cochin, Goa, Malacca, Kilwa e Sofala. Nella seconda metà del secolo l'Estado da India spinse le sue attività marittime sino ai margini dell'Oceano, verso la Cina e il Giappone. I benefici economici che il Portogallo derivava dalla partecipazione al commercio dell'Oceano Indiano erano direttamente visibili nelle splendide città e capitali arricchite da raffinati edifici pubblici, chiese e abitazioni private di facoltosi cittadini. Tuttavia la prosperità portoghese in Oriente durò appena un secolo. Nell'ultimo decennio del Cinquecento l'istituzione di varie compagnie commerciali olandesi attive nell'Oceano Indiano, che si unirono nel 1602 in un'unica società di capitali, rappresentò il primo passo verso una seria sfida all'impero orientale del Portogallo da parte degli altri paesi europei. La Compagnia delle Indie Orientali britannica, fondata nel 1600, si unì a quella olandese nell'attaccare l'Estado da India. Alla metà del XVII secolo la Compagnia delle Indie Orientali olandese aveva fondato un formidabile impero economico il cui centro era la città di Batavia nell'isola di Giava, e si era impadronita di numerose e importanti città portuali portoghesi, tra cui il grande emporio di Malacca (1643). Nel 1700 gli Olandesi e gli Inglesi possedevano estese reti commerciali nell'Oceano Indiano. Una serie di 'stabilimenti' o insediamenti commerciali fondati in importanti città marittime, quali Surat, Masulipatam e Hooghly in India, svolgevano l'immane compito di acquistare merci asiatiche da esportare in Europa, vendendo i metalli pregiati e altre merci importate dall'Europa nei mercati locali e organizzando una serie di spedizioni tra i porti del Medio Oriente, dell'India, di Giava e dell'Estremo Oriente. Bassora e Mokha erano regolarmente visitate da navi inglesi e olandesi, e Canton, in Cina, divenne un importante scalo dopo l'ascesa al potere della dinastia Ch'ing. Dopo che Inglesi e Olandesi ebbero dimostrato in modo tanto convincente i vantaggi economici dei traffici con l'Oriente, le altre nazioni europee non vollero restare indietro. La Compagnie des Indes Orientales francese divenne una formidabile concorrente nel XVIII secolo, e altre compagnie di dimensioni più modeste vennero create in Danimarca, in Svezia e nelle Fiandre.
L'importanza economica della presenza europea nell'Oceano Indiano e nel Pacifico tra il 1600 e il 1800 derivava dalla sua complementarità con la rete commerciale istituita nelle Americhe, nelle Indie Occidentali e in Africa. Si può far risalire a questo periodo la nascita di un'economia mondiale dotata di caratteri specifici, basata sulla padronanza della navigazione oceanica e su un sistema di distribuzione, vendita e aspettative di profitto di tipo capitalistico. La produzione dei tessuti indiani e cinesi era ancora artigianale, ma la loro distribuzione su scala mondiale da parte delle Compagnie delle Indie Orientali britannica e olandese era organizzata su basi eminentemente capitalistiche. Nelle piantagioni di zucchero, tabacco e cotone delle Indie Occidentali e del continente americano la proprietà della forza lavoro formata da schiavi africani costituiva l'espressione più diretta del capitalismo commerciale. Il traffico negriero assunse proporzioni imponenti tra il 1500 e il 1800. È stato calcolato che gli Africani venduti come schiavi e trasportati nel Nuovo Mondo dall'Africa occidentale ammontavano a 9-15 milioni. Gli schiavi erano nella maggior parte dei casi le vittime delle guerre tribali africane, e venivano venduti ai commercianti portoghesi, olandesi e britannici in cambio di sbarre di ferro, tessuti in cotone indiani, perline di vetro e conchiglie di ciprea importate dalle Maldive, brandy e armi da fuoco. Nel corso del XVIII secolo il commercio atlantico divenne la componente più dinamica dell'economia estera britannica. La catena di transazioni internazionali andava dalle miniere d'argento in Messico e in Perù al mercato degli schiavi nell'Africa occidentale, nel Mar Arabico, nel Golfo del Bengala e nel Mare Cinese Meridionale. La rivoluzione industriale, nonché la conseguente nascita dell'imperialismo economico occidentale nel XIX secolo, trasse in larga misura la sua forza di coesione da una rete commerciale internazionale di livello mondiale creata in precedenza.
L'integrazione del Pacifico in un sistema mondiale dominato dall'Europa occidentale solleva parecchi quesiti. Il primo è perché ci volle tanto tempo per padroneggiare la tecnologia della navigazione nel Pacifico. In fin dei conti, la possibilità di traversare il mare, volontariamente o involontariamente, era ben nota alle popolazioni della Polinesia e del Madagascar. È stato appurato da T.A. Rickard che nel 1805, nel 1815 e nel 1833 tre giunche giapponesi furono sospinte fuori rotta dai venti e raggiunsero l'America con alcuni sopravvissuti a bordo. Ancora nel 1927 fu trovata una giunca giapponese alla deriva, senza membri dell'equipaggio sopravvissuti. È improbabile che la colonizzazione del Pacifico in epoca preistorica sia stata un'impresa tanto accidentale e rischiosa. Se la navigazione sistematica dell'Oceano non era ignota alle popolazioni polinesiane - e ci sono tutte le ragioni per crederlo - le implicazioni di questo fatto per la storia della civiltà necessitano di un'indagine approfondita da parte degli studiosi contemporanei. È vero peraltro che per la maggior parte dei popoli euroasiatici durante l'era cristiana il Pacifico restava un oceano che trascendeva le capacità di navigazione ordinaria. L'unità geografica creata dall'impresa di Magellano, e dal conseguente affermarsi della rotta per Manila, non riuscì a creare un 'insieme' mentale denominato 'Pacifico'. Al contrario, la scoperta di Magellano aggiunse il Pacifico all'insieme noto come 'Atlantico'. La situazione tuttavia cambiò radicalmente con l'invenzione della nave a vapore. Il vero creatore dell'unità geografica del Pacifico fu l'ammiraglio Matthew Perry, allorché consegnò la famosa lettera in cui proponeva la stipulazione di un trattato diplomatico tra il Giappone e gli Stati Uniti, con la non tanto velata minaccia che avrebbe fatto ritorno per un risposta con un contingente più grande di navi da guerra. Evidentemente i capi politici giapponesi ben conoscevano le conseguenze della guerra dell'oppio tra la Gran Bretagna e la Cina, che aveva dimostrato nel contesto dell'Oceano Indiano il ruolo fondamentale della forza navale. Non fu un caso che i Giapponesi scegliessero di modernizzare le proprie forze armate concentrandosi innanzitutto sulla marina militare. L'ingresso del Giappone nel mondo atlantico attraverso il Pacifico completò una realtà geografica che nell'era della navigazione a vela era ancora incompiuta. Nel corso del XVI secolo i galeoni spagnoli erano costretti a traversare il Pacifico non seguendo la rotta più breve per il porto messicano di Acapulco, ma spingendosi molto a nord per evitare le tempeste e i venti contrari, per poi scendere lungo la costa californiana. Il nome scelto da Magellano per l'oceano da lui scoperto non fu felice. Egli pensava che si trattasse di un mare pacifico data l'assenza di tempeste. Le ingenti perdite di navi subite dagli Spagnoli nel corso del Seicento e del Settecento dimostrarono che i navigatori dell'Oceano Indiano avevano evitato il Pacifico proprio per il motivo contrario: si trattava del classico oceano non navigabile.
I fattori economici, tecnologici e culturali che avevano improntato i rapporti tra mare e civiltà nel corso di molti millenni cessarono di esistere alla fine del XIX secolo con l'invenzione della nave a vapore. Il mare restava un indispensabile mezzo di comunicazione fisica tra continenti e tra popoli di differenti culture e livelli di sviluppo tecnologico. Ma la sostituzione della vela e del legno con il motore a vapore e con lo scafo in ferro non fu solo un mutamento tecnico: essa rappresentò un'accelerazione e un'intensificazione della dipendenza dell'uomo dall'oceano come fonte di risorse alimentari e sistema di trasporto. L'industria della pesca acquistò una nuova dimensione con la comparsa di pescherecci dotati di refrigeratori azionati a vapore, e le grandi navi mercantili di linea che si spostavano tra l'Argentina, l'Australia e il Canada sfruttarono le risorse agricole e zootecniche di queste aree per la produzione industriale di un'Europa in rapida trasformazione. Anche il ruolo della forza navale cambiò con la nuova generazione di navi da guerra. Grazie alle potenti unità navali costruite dalle potenze imperiali come la Gran Bretagna, la Francia, la Russia e in seguito il Giappone, alle forze economiche liberate dalla rivoluzione industriale si associò una nuova forma di controllo politico. Il carattere profondamente diverso e allarmante assunto dall'imperialismo in generale e dall'imperialismo d'oltreoceano in particolare, nel XIX e nel XX secolo, fu dovuto all'incontro di due forme diverse di espansione oltremare, quella politica e quella economica, che divennero via via inseparabili. Senza gli scambi oceanici su larga scala di merci, prodotti industriali e carburante l'uomo moderno non potrebbe vivere. Le conseguenze economiche della navigazione a vapore e del nuovo sfruttamento del mare interagirono con tre sviluppi fondamentali. In primo luogo, la navigazione a vapore determinò un'estensione delle aree geografiche di produzione. Ad esempio, il cotone coltivato negli Stati Uniti o in India poteva essere importato attraverso l'Atlantico e l'Oceano Indiano e trasformato in prodotto finito a costi ragionevoli. In secondo luogo, la rivoluzione industriale ampliò le aree di consumo e abbassò le tariffe di nolo. Infine, essa segnò il definitivo sviluppo del sistema di produzione capitalistico, facendo della ricerca del profitto il principale strumento di allocazione delle risorse economiche. Ciò a sua volta portò alla nascita delle economie di scala. Perché una produzione su larga scala sia redditizia, è essenziale che siano soddisfatte due condizioni: esiste una dimensione minima al di sotto della quale non è più conveniente costruire fabbriche e impianti che impiegano tecnologie complesse e, cosa egualmente importante, la produzione totale deve avvicinarsi alla capacità produttiva ottimale dell'impianto per ridurre i costi generali. La conquista di mercati oltreoceano si rese necessaria per eliminare l'eccedenza della produzione e poter continuare a utilizzare l'impianto alla sua capacità ottimale. È vero anche che nessun paese industriale in Europa possedeva tutti gli inputs di materie prime necessari. Fu indispensabile creare un attivo commercio di esportazione per finanziare l'importazione di prodotti essenziali. Furono questi i fattori che determinarono gli sviluppi della storia oceanica tra il 1850 e il 1939. La costruzione del Canale di Suez nel 1869, oltre a comportare un riassetto della struttura dei trasporti, fece dei possedimenti britannici sull'Oceano Indiano il fulcro della politica mondiale. (V. anche Commercio; Navigazione).
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di Tullio Treves
1. Introduzione: il diritto internazionale del mare tra consuetudine e codificazione
Il diritto del mare è uno dei settori che per primi hanno visto svilupparsi norme di diritto internazionale. Le regole giuridiche relative alla condotta degli Stati sui mari cominciano a prender corpo nel XVII secolo, allorché vengono poste le basi del diritto internazionale moderno. Non a caso Ugo Grozio, uno dei fondatori della moderna scienza del diritto internazionale, con la sua opera Mare liberum (1609) è anche l'autore che per primo dette compiuta sistemazione all'insieme di regole internazionali relative al mare. L'opera di Grozio mirava a dare un fondamento alle rivendicazioni di libertà di movimento nei mari del mondo avanzate dalla Compagnia olandese delle Indie Orientali in contrasto con altri paesi, in particolare l'Inghilterra, i quali sostenevano invece la sovranità degli Stati sui mari. La storia dette ragione alla posizione olandese sostenuta da Grozio, superando le opposte posizioni, sostenute specialmente da Selden (Mare clausum seu de dominio maris, 1636), favorevoli all'appropriabilità degli spazi marini. Il diritto internazionale del mare che oggi si può denominare tradizionale, consolidatosi nell'Ottocento e, si può dire, vigente fino alla metà del nostro secolo, è infatti ispirato al principio della libertà dei mari, in vista della preminente importanza rivestita dalle utilizzazioni relative ai trasporti e alle comunicazioni, con l'eccezione peraltro di una ristretta fascia di mare adiacente alla costa, il mare territoriale, su cui si riconosceva estendersi la sovranità dello Stato costiero. Il superamento odierno del diritto tradizionale è legato all'importanza assunta da utilizzazioni connesse allo sfruttamento di risorse minerarie, e alla constatazione che, al contrario di quanto ritenuto da Grozio, le risorse ittiche non sono inesauribili. Alla base dei mutamenti del diritto in questa materia vi è pertanto il conflitto tra l'idea groziana di libertà dei mari e la tendenza degli Stati costieri ad affermare il loro potere più o meno esteso su zone marittime di diversa ampiezza adiacenti alle loro coste. Tale tendenza, sia pure storicamente indipendente dalle pretese di dominio dei mari, ne riflette uno dei motivi fondamentali, ossia l'esigenza di estendere e di proteggere sul mare il potere esercitato sul territorio.La regola per cui l'estensione del mare territoriale corrispondeva alla gittata dei cannoni, sostenuta da molti scrittori e da molti Stati fino a tutto l'Ottocento, anche se probabilmente mai corrispose, in tali termini, al diritto consuetudinario, riflette vividamente tale esigenza. La più recente evoluzione ha visto aggiungersi a siffatta esigenza difensiva un'esigenza espansiva, mirante ad assicurare allo Stato costiero l'esclusivo diritto di sfruttare le risorse naturali di zone sempre più ampie di mare adiacente alle sue coste.
Le regole generali di diritto internazionale relative al mare hanno origine consuetudinaria, ma sono state progressivamente sviluppate grazie all'intensa attività di codificazione promossa dalle Nazioni Unite. Oltre che riflettere le esigenze più attuali, tale attività ha mirato a conferire sistematicità e chiarezza al corpo di regole prodotte dalla prassi secolare degli Stati. Fu così che, dopo un tentativo di scarso successo compiuto nel quadro della Società delle Nazioni (Conferenza dell'Aja del 1930), sulla base dei lavori della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite furono adottate a Ginevra nel 1958 quattro Convenzioni relative rispettivamente all'alto mare, al mare territoriale e alla zona contigua, alla piattaforma continentale e infine alla pesca e alle risorse biologiche del mare. Mentre le prime due Convenzioni riflettevano, nell'insieme, il diritto esistente, quella sulla piattaforma continentale rappresentava un'innovazione resa necessaria dai ritrovamenti di idrocarburi sui fondi marini adiacenti alle coste; l'ultima Convenzione infine disegnava un meccanismo razionale di gestione della pesca sui mari senza ammettere un'estensione dei poteri degli Stati costieri oltre i limiti del mare territoriale. Tali limiti peraltro furono il punto su cui la Conferenza di Ginevra del 1958 non poté ottenere un accordo, e lo stesso insuccesso ebbe una seconda Conferenza sul medesimo tema tenutasi anch'essa a Ginevra nel 1960. Appare però chiaro dai lavori - e dallo stesso testo della Convenzione sul mare territoriale e la zona contigua - che rivendicazioni di più di 12 miglia non si ritenevano lecite.
Le Convenzioni di Ginevra erano appena entrate in vigore allorché, nel corso degli anni sessanta, si affermò l'esigenza di una nuova codificazione e di uno sviluppo progressivo del diritto internazionale del mare. Ciò a seguito di una serie di trasformazioni di ordine politico (l'indipendenza di decine di Stati subentrati a territori dipendenti), economico (aumento delle necessità energetiche e nutrizionali), tecnologico (possibilità di sfruttare risorse sottomarine a grandi profondità e distanze) e culturale (presa di coscienza della necessità di proteggere l'ambiente naturale); a tali vicende si accompagnava la convinzione che i noduli polimetallici rinvenuti in certe zone dei fondi marini fossero un'ingente ricchezza da sfruttare a beneficio di tutta l'umanità, e in particolare della sua parte più povera (primo esempio concreto di quel 'nuovo ordine economico internazionale' di cui si andavano elaborando i principî nel quadro delle Nazioni Unite sotto l'influenza dei paesi in via di sviluppo).
Fu così che, tra il 1973 e il 1982, si riunì in undici sessioni - caratterizzate da innovazioni sul piano procedurale e dalla diretta elaborazione di testi da parte degli Stati senza l'intervento di commissioni di esperti - la terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Il risultato dei suoi lavori è la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, aperta alla firma a Montego Bay il 10 dicembre 1982 ed entrata in vigore, a seguito del deposito della sessantesima ratifica, il 16 novembre 1994. Tale Convenzione dà ampio riconoscimento alle pretese degli Stati costieri, prevede un meccanismo di sfruttamento a beneficio dell'umanità intera delle risorse minerali dei fondi marini internazionali e presenta un'articolata normativa sulla protezione dell'ambiente marino. Le tradizionali libertà di movimento e di comunicazione vengono peraltro salvaguardate, e si prevede inoltre un meccanismo di soluzione delle controversie assai articolato.Per e tra gli Stati che vi hanno aderito, il diritto internazionale del mare oggi vigente è disciplinato in larga misura dalla Convenzione del 1982. Per gli Stati che non ne fanno parte e nei rapporti con questi, vigono il diritto consuetudinario e, in parte, le Convenzioni di Ginevra. Il diritto consuetudinario è però oggi ampiamente influenzato dalla Convenzione del 1982 che, ove già non coincida con esso, ne ispira gli orientamenti. Tale ruolo guida è riconosciuto anche, in varie sentenze, dalla Corte internazionale di giustizia. Pertanto la Convenzione del 1982 è attualmente un punto di riferimento indispensabile anche per gli Stati che non ne fanno parte.
2. Le zone marittime, i loro limiti e i poteri che vi si esercitano
Le zone marittime sono al centro del diritto internazionale del mare. Si tratta di zone di mare, o di fondo marino, per le quali vengono indicati sia l'estensione che i diritti e gli obblighi dei vari Stati. Mentre il diritto tradizionale conosceva solo due zone: l'alto mare - caratterizzato dalla libertà - e il mare territoriale - soggetto all'autorità dello Stato costiero -, il diritto attuale distingue un numero più elevato di zone, caratterizzate da diverse combinazioni tra libertà e poteri dello Stato costiero.
Le varie zone marittime si misurano tutte a partire dalla linea di base, corrispondente alla linea di bassa marea, ma che per le coste frastagliate o con una frangia di isole, oppure per le baie, può essere semplificata in un insieme di linee di base rette. Non sempre la prassi recente peraltro è fedele alle condizioni poste dalla Convenzione del 1982, cosa che ha suscitato numerose proteste. Le acque all'interno della linea di base sono dette acque interne e sono soggette alla piena sovranità dello Stato costiero.
Al di là della linea di base troviamo il mare territoriale. La sua estensione massima, a lungo controversa, è oggi generalmente fissata in 12 miglia; tale misura è accolta dalla maggior parte degli Stati, sebbene alcuni adottino ancora misure di tre o sei miglia. Altri Stati adottano misure superiori (35, 50 o 200 miglia), ma si tratta di un gruppo in diminuzione per effetto della Convenzione del 1982. Sul mare territoriale lo Stato costiero esercita la sua sovranità. Questa però è limitata dal diritto di 'passaggio inoffensivo' - ossia tale da non turbare la pace, il buon ordine o la sicurezza dello Stato costiero - riconosciuto a tutti gli Stati. La Convenzione del 1982 reca un elenco dettagliato delle attività che hanno tali caratteristiche. Benché secondo detta Convenzione il diritto di passaggio inoffensivo valga anche per le navi da guerra, si discute se ciò risponda al diritto consuetudinario. Sembra inoltre emergere una tendenza a limitare in qualche misura il passaggio inoffensivo delle navi che trasportano rifiuti pericolosi.
Un'estensione massima di 24 miglia dalla linea di base ha poi la zona contigua, in cui si riconoscono allo Stato costiero poteri di polizia in caso di violazione delle proprie norme in materia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione. La Convenzione del 1982 vi riconosce anche un potere dello Stato costiero in materia di rimozione di oggetti di valore storico o archeologico. Una competenza in materia di sicurezza, oggetto di un certo numero di rivendicazioni, è considerata dalla maggioranza degli Stati incompatibile con la natura della zona contigua.Una nuova zona marittima, stabilita dalla Convenzione del 1982 sotto l'influsso di Stati quali l'Indonesia e le Filippine, è data dalle acque arcipelagiche. Quando uno Stato è costituito esclusivamente da isole è possibile, a certe condizioni, tracciare una linea di base detta 'arcipelagica' che congiunge le isole più esterne dell'arcipelago. Le acque all'interno di tale linea sono acque arcipelagiche, con un regime giuridico simile a quello delle acque interne (salvi i diritti di navigazione: v. cap. 4). A partire dalla linea di base arcipelagica si misurano le altre zone marittime. In tal modo, vastissime aree marine vengono sottoposte alla sovranità di Stati talvolta di dimensioni modeste e scarsamente popolati.Con l'apposita Convenzione di Ginevra si sono definitivamente riconosciuti allo Stato costiero diritti sovrani in materia di esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali della piattaforma continentale. Si tratta della zona del fondo marino al di là del limite esterno del mare territoriale; secondo la Convenzione tale zona si estende fino all'isobata dei 200 metri o sino a dove sia possibile lo sfruttamento delle risorse. Alla luce degli sviluppi scientifici e tecnologici il primo limite è risultato insufficiente e il secondo eccessivo. La Convenzione del 1982 prevede ora che la piattaforma continentale si estenda fino a 200 miglia marine dalla linea di base, indipendentemente dall'esistenza di una piattaforma nel senso geologico del termine, o anche al di là ove se ne presentino le condizioni, da verificare tramite rilevazioni di tipo geologico. Vi è un limite massimo dato dalla distanza di 100 miglia dall'isobata dei 2.500 metri, oppure di 350 miglia dalla linea di base. La Convenzione del 1982 prevede l'istituzione di una Commissione dei limiti della piattaforma continentale, che dovrà assistere gli Stati costieri nella determinazione di tali limiti e al tempo stesso frenarne le pretese eccessive.
La zona economica esclusiva è la zona marittima che maggiormente caratterizza il diritto del mare contemporaneo. Oggi istituita da quasi cento Stati, è stata sancita dalla Convenzione del 1982 e si ritiene rispondente, almeno nelle grandi linee, al diritto consuetudinario. Tale zona ha un'estensione massima di 200 miglia dalla linea di base. Essa deve essere appositamente proclamata dallo Stato costiero, a differenza della piattaforma continentale che a tale Stato appartiene automaticamente.
Nella zona economica esclusiva lo Stato costiero gode di diritti sovrani in materia di risorse biologiche e minerali sia delle acque che dei fondali marini. Pertanto lo Stato costiero vi esercita un potere decisivo in materia di pesca e di sfruttamento degli idrocarburi (per i quali, entro le 200 miglia, il regime coincide con quello della piattaforma continentale). In materia di pesca tali diritti sono però controbilanciati da un obbligo dello Stato costiero di provvedere a uno sfruttamento ottimale delle risorse ittiche e di ammettere - per le risorse che non è in grado di sfruttare direttamente - l'intervento di altri Stati, in particolare quelli privi di accesso al mare e in via di sviluppo. I poteri dello Stato costiero si estendono anche ad altre attività a fini economici (come lo sfruttamento delle correnti, o del differenziale termico tra acque superficiali e profonde) nonché all'impianto e all'utilizzazione di isole artificiali e installazioni. Si riconoscono altresì allo Stato costiero determinati poteri in materia di protezione dell'ambiente (v. cap. 6) e di ricerca scientifica. Per svolgere ricerche scientifiche nella zona economica esclusiva di un altro Stato è necessario il consenso dello Stato costiero, consenso discrezionale quando la ricerca abbia a che fare con risorse, fortemente incoraggiato in altri casi.
La Convenzione ha evitato di pronunciarsi in merito a una 'regola residuale' applicabile alla zona esclusiva. Essa non dice, cioè, se attività non esplicitamente considerate debbano presumersi sottoposte al potere dello Stato costiero o al principio di libertà dell'alto mare (che, come vedremo, si applica anche nella zona economica per specifiche attività di navigazione e comunicazione). La Convenzione si limita a prevedere che il conflitto debba risolversi in via di equità, tenuto conto delle circostanze e degli interessi delle parti e della comunità internazionale.Le acque al di là del limite esterno del mare territoriale o, ove proclamate, delle zone economiche esclusive costituiscono l'alto mare. In questa zona il principio fondamentale è quello della libertà. La Convenzione del 1982 elenca, a titolo esemplificativo, le libertà di navigazione, di sorvolo, di posa di cavi e condotte, di costruzione di isole artificiali e di altre installazioni, di pesca, di ricerca scientifica. La libertà da parte di uno Stato di condurre tali attività in alto mare trova il suo limite nella libertà degli altri Stati. L'esercizio delle libertà dell'alto mare deve pertanto rispondere a un principio di reciproco accomodamento, per cui si deve tenere 'debitamente conto' dell'interesse degli altri Stati a esercitare le stesse libertà (art. 89, par. 2, della Convenzione del 1982). Tale regola generale - che vale per il contemperamento sia dell'esercizio delle diverse libertà da parte di diversi Stati, sia dell'esercizio della stessa libertà da parte di diversi Stati - non assegna priorità, ma pone tutte le attività sullo stesso piano. Dall'insieme delle regole particolari in materia emerge però il criterio di salvaguardare la vita umana in mare, cui se ne va affiancando un altro, quello della salvaguardia dell'ambiente marino. Il contemperamento delle libertà di navigazione dei vari Stati è ottenuto in buona parte per mezzo di numerose convenzioni, per lo più concluse nell'ambito dell'Organizzazione Marittima Internazionale (OMI), come quella sulla salvaguardia della vita umana in mare (1970) e quella che definisce un regolamento per prevenire le collisioni (1972). Il contemperamento della libertà di pesca in alto mare deve basarsi sulla cooperazione tra gli Stati che pescano in una determinata zona, onde evitare l'impoverimento delle risorse. Di recente è stato richiesto il riconoscimento di diritti preferenziali da parte di Stati costieri nelle cui zone economiche transitano specie altamente migratrici (ad esempio i tonni), oppure si trovano branchi di pesci che vivono anche in alto mare (i cosiddetti straddling stocks). Su tali problemi è stata convocata e ha cominciato a riunirsi nel 1993 e nel 1994 una Conferenza delle Nazioni Unite.
Per il fondo dell'alto mare il regime di libertà testé tratteggiato vale solo in via residuale, ossia per gli aspetti e le parti che non ricadono né sotto la potestà dello Stato costiero (zone di piattaforma continentale al di là della linea delle 200 miglia) né sotto il particolare regime della Zona internazionale dei fondi marini istituita dalla Convenzione del 1982 (v. cap. 5).
La libertà dell'alto mare soffre di eccezioni, corrispondenti ad altrettante possibilità di interferenza riconosciute a Stati diversi da quello che esercita detta libertà. Ogni Stato ha il diritto di fermare in alto mare e di sottoporre a verifica dei documenti le navi sospettate di dedicarsi alla pirateria, al trasporto di schiavi o quelle che non issino alcuna bandiera. Le navi pirata possono anche essere sequestrate e condotte in porto. Le navi che effettuano trasmissioni radiotelevisive non autorizzate possono essere fermate in alto mare e il loro materiale può essere sequestrato da parte di Stati che abbiano con esse o con le trasmissioni in questione un collegamento sufficiente. Quest'ultima regola è stata introdotta dalla Convenzione del 1982 e va forse oltre quanto previsto dal diritto consuetudinario. Il potere di sequestrare le navi che si dedicano al contrabbando di stupefacenti è riservato allo Stato della bandiera, salvo che questo con apposite convenzioni non riconosca ad altri Stati la facoltà di esercitare tale potere. La stipulazione di queste convenzioni (di cui esistono già alcuni esempi) è incoraggiata dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 19 dicembre 1988 contro il traffico illecito degli stupefacenti.Un'altra eccezione al principio della libertà dell'alto mare è legata alla necessità di preservare gli interessi non più, come nei casi ora visti, della comunità internazionale in generale o almeno di un gruppo di Stati (come nel caso delle trasmissioni non autorizzate), bensì dello Stato costiero. Si tratta del 'diritto di inseguimento', che permette allo Stato costiero di inseguire e sequestrare in alto mare la nave che ha contravvenuto alle sue regole e regolamenti nel mare territoriale, nella zona contigua, nelle acque arcipelagiche, sulla piattaforma continentale e nella zona economica. L'inseguimento deve però essere continuo e cominciare nelle acque in cui è avvenuta la violazione. Infine - a seguito del noto incidente della Torrey Canyon (petroliera naufragata al largo della Cornovaglia nel 1967 provocando un massiccio inquinamento delle acque) - si è stabilita una norma che consente allo Stato costiero di prendere, al di là del mare territoriale, le misure necessarie per salvaguardare le proprie coste da danni causati o minacciati da un incidente di navigazione.
3. La delimitazione delle zone marittime
Mentre i limiti esterni delle varie zone marittime sono determinati dal diritto internazionale con norme abbastanza precise (non più di 12 miglia per il mare territoriale, non più di 200 per la zona economica, ecc.), meno precise sono le regole relative alla determinazione dei confini delle zone marittime tra Stati le cui coste sono adiacenti o prospicienti - in questo caso quando ovviamente lo spazio marittimo fra le coste non consenta la piena espansione delle zone marittime degli Stati costieri. Per quanto riguarda il mare territoriale, la Convenzione del 1982 riprende la regola contenuta nella relativa Convenzione di Ginevra che sembra rispondere alle esigenze degli Stati e secondo la quale il confine viene tracciato da una linea ciascun punto della quale è equidistante dai punti più prossimi delle linee di base delle coste rilevanti dei due Stati, salvo che l'esistenza di circostanze speciali richieda una delimitazione diversa. Per quanto attiene alla piattaforma continentale, la medesima regola era contenuta nella Convenzione del 1958. Nonostante l'attenuazione del principio di equidistanza dovuta alla considerazione delle circostanze speciali (tra le quali un ruolo particolare era assunto dalla presenza di isole), la giurisprudenza internazionale sin dal 1969 affermò che tale principio non era una regola del diritto internazionale consuetudinario e che le delimitazioni dovevano effettuarsi secondo un principio giuridico basato sul conseguimento di un risultato equo. Tale concetto si trova nella Convenzione del 1982 sia per la piattaforma continentale sia, con regola identica, per la zona economica esclusiva. Dietro un'apparenza di regola preordinata, esso maschera un'ampia discrezionalità del giudice internazionale, come del resto emerge dalle varie sentenze emanate dal 1982 a oggi, in cui si cerca di individuare i fattori che contribuiscono a una soluzione equa. Nelle sentenze più recenti viene riconosciuto nuovamente un ruolo, perlomeno di punto di partenza, alla linea di equidistanza, in un primo tempo del tutto abbandonata. Tale ruolo emerge del resto anche dai numerosi accordi internazionali con cui gli Stati in molti casi provvedono a delimitare le zone marittime di loro spettanza. Negli ultimi anni gli accordi mirano a stabilire la linea di delimitazione non più soltanto tra piattaforme continentali, ma anche tra zone economiche esclusive. Sebbene non manchino esempi di accordi che stabiliscono linee diverse per il fondo marino e la colonna d'acqua, la maggioranza degli accordi stabilisce oggi una linea unica. La fissazione di una linea unica è stata anche richiesta dagli Stati alla Corte internazionale di giustizia o ai tribunali arbitrali nelle controversie più recenti. Ne è emerso l'orientamento a far prevalere considerazioni geografiche su altre più specificamente attinenti al fondo marino, alla colonna d'acqua e alle loro risorse.
4. Il contemperamento delle libertà dei mari e dei poteri degli Stati costieri nelle zone marittime costiere
In tutte le zone costiere soggette alla potestà dello Stato costiero si riconoscono altresì diritti e in certi casi vere e proprie libertà a tutti gli altri Stati. Tali diritti e libertà riguardano essenzialmente le attività di comunicazione e di movimento (navigazione, sorvolo).Riguardo al mare territoriale si è già ricordato nel cap. 2 il diritto di passaggio inoffensivo. Va aggiunto che nei cosiddetti stretti, ossia le zone di mare che separano due coste prospicienti e che congiungono una zona d'alto mare o una zona economica con un'altra zona siffatta, si riconosce una libertà di passaggio più ampia. Secondo la Convenzione del 1982, purché si tratti di stretti usati per la navigazione internazionale, vi si applica il diritto di 'passaggio in transito', che, a differenza del passaggio inoffensivo, comprende anche il sorvolo. Peraltro agli stretti che si trovano tra una costa continentale e un'isola dello stesso Stato, e che consentano rotte alternative (ad esempio quello di Messina), nonché a quelli che congiungono una zona di alto mare o una zona economica esclusiva con una zona di mare territoriale, continua ad applicarsi il diritto di passaggio inoffensivo non suscettibile di sospensione, che la Convenzione di Ginevra sul mare territoriale prevedeva per tutti gli stretti. La liberalizzazione del regime di passaggio negli stretti più importanti introdotta dalla Convenzione del 1982 si spiega col fatto che a seguito dell'estensione a 12 miglia del mare territoriale, gli stretti nel senso giuridico del termine sono diventati più numerosi e pertanto sono aumentati i potenziali ostacoli alla navigazione civile e militare.
Nelle acque arcipelagiche, accanto al diritto del passaggio inoffensivo ricalcato su quello previsto per il mare territoriale, vige un diritto di 'passaggio arcipelagico' simile al diritto di transito negli stretti, e che quindi comprende anche il diritto di sorvolo su particolari vie di circolazione designate dallo Stato arcipelagico con il concorso dell'OMI. In mancanza di tale designazione, il diritto di passaggio arcipelagico può essere esercitato sulle rotte utilizzate normalmente per la navigazione internazionale.
Nella zona economica esclusiva la Convenzione del 1982 prevede esplicitamente che si applichino le libertà di navigazione, di sorvolo, di posa di cavi e di condotte previste per l'alto mare, nonché "tutte le libertà di utilizzazione del mare ad altri fini leciti connessi all'esercizio di tali libertà, in particolare nel quadro dell'uso di navi, aeromobili, cavi e condotte sottomarini". Tale tortuosa formulazione allude alle manovre navali e a numerose altre attività di ordine militare. Il riconoscimento delle libertà dell'alto mare nella zona economica esclusiva comporta una coesistenza dell'esercizio di tali libertà con quello delle potestà riconosciute in tale zona allo Stato costiero. Ne possono derivare conflitti, ad esempio tra navigazione e pesca o tra navigazione e attività di sfruttamento petrolifero. Tali conflitti sono risolti nella Convenzione del 1982 con una formula di reciproco accomodamento, equivalente a quella prevista per assicurare la compatibilità dell'esercizio delle varie libertà dell'alto mare (v. cap. 2). L'applicazione pratica di tale formula talora presenta delle difficoltà, come nel caso della navigazione di navi da pesca, in cui al principio di libertà di movimento si contrappone l'esigenza dello Stato costiero di prevenire e reprimere la pesca non autorizzata.
5. La Zona internazionale dei fondi marini e le modifiche alla Convenzione del 1982
La Convenzione del 1982 dichiara la parte di fondo marino situata al di là dei limiti della giurisdizione nazionale (pertanto oltre il limite esterno della piattaforma continentale) e le sue risorse "patrimonio comune dell'umanità". Le risorse minerali che vi si trovano - si tratta essenzialmente di noduli polimetallici rinvenuti in concentrazioni economicamente interessanti soprattutto nella frattura Clarion-Clipperton nel Pacifico - dovranno essere sfruttate, secondo la Convenzione, a beneficio dell'umanità intera attraverso un complesso meccanismo. L'attività di esplorazione e sfruttamento dovrebbe essere svolta da imprese nazionali e da una costituenda Impresa internazionale dei fondi marini, in concorrenza tra loro. Il sistema verrebbe gestito da una nuova organizzazione internazionale con sede a Kingston (Giamaica): l'Autorità internazionale dei fondi marini. La complessità e i costi del sistema previsto, nonché la sua impostazione 'dirigista', suscitarono nel 1982 le obiezioni degli Stati Uniti e di altri paesi industrializzati. Di qui la decisione di tali Stati di non ratificare la Convenzione fintantoché i motivi delle suddette obiezioni non fossero stati superati. Ciò è avvenuto, a quanto sembra, nel 1994. In tale anno si sono infatti conclusi i negoziati per un Accordo integrativo della Convenzione, che prende le mosse dal fatto che lo sfruttamento minerario della Zona internazionale dei fondi marini è ancora lontano. Le disposizioni di tale Accordo eliminano molti degli aspetti criticati e rendono meno onerosa la costituzione dell'Autorità dei fondi marini, che si prevede in scala ridotta e a sviluppo graduale. Tale accordo modificativo (la cui adozione è avvenuta il 28 luglio 1994) dovrebbe aprire la strada alla ratifica o all'adesione alla Convenzione degli Stati industrializzati, accanto a quelli in via di sviluppo che finora sono stati praticamente i soli a vincolarsi.
6. La protezione dell'ambiente marino
Il diritto internazionale degli ultimi decenni ha rivolto particolare attenzione all'elaborazione di regole mirate a proteggere l'ambiente marino dall'inquinamento. In un primo tempo sono state adottate convenzioni relative a specifici tipi di inquinamento marino sia a livello universale (Convenzione OMI sull'inquinamento da navi del 1954, poi sostituita dalla cosiddetta MARPOL del 1973-1978; Convenzione sull'inquinamento da versamenti in mare di sostanze nocive - dumping - del 29 dicembre 1972), sia regionale (Convenzioni sulla protezione del Baltico, del Mediterraneo, ecc.). Solo la Convenzione sul diritto del mare del 1982 formula però principî di carattere generale, quale quello che obbliga gli Stati a proteggere e preservare l'ambiente marino. Essa stabilisce poi una serie di competenze degli Stati costieri, degli Stati della bandiera, oltre che di quelli nei cui porti si vengano a trovare le navi, per l'emanazione e l'attuazione di norme relative alla prevenzione e alla repressione delle varie forme di inquinamento nelle zone marittime. L'autorevolezza di queste norme, che in buona parte si possono considerare rispondenti al diritto consuetudinario e al tempo stesso un elemento decisivo per il suo consolidamento, è confermata dall'Agenda 21 adottata dalla Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. In essa si afferma infatti che la Convenzione del 1982 "fornisce la base giuridica su cui perseguire la protezione e lo sviluppo sostenibile dell'ambiente marino e costiero e delle sue risorse".
7. Lo strumento dell'azione degli Stati in mare: la nave
Gli Stati agiscono in mare per mezzo di navi a essi collegate da uno speciale rapporto. Il diritto internazionale generale non dà una definizione di 'nave', laddove numerose convenzioni forniscono definizioni non tutte coincidenti e funzionali alla materia regolamentata. Si può in ogni modo assumere che risponde alla nozione di 'nave' qualsiasi apparato galleggiante atto a muoversi negli spazi marini con l'attrezzatura necessaria all'attività che gli è propria. Le piattaforme galleggianti per la ricerca del petrolio, fintantoché non vengano saldamente ancorate al fondo marino, rientrano in tale categoria.
Il collegamento della nave con uno Stato è dato dalla nazionalità evidenziata dalla bandiera. Tutti gli Stati, anche quelli privi di accesso al mare, hanno il diritto di far battere alle navi la propria bandiera. Per esercitare tale diritto occorre però un 'collegamento genuino' (genuine link) tra lo Stato e la nave. Qualche indicazione sul significato di tale concetto (non definito nella Convenzione del 1982) si trova nella Convenzione delle Nazioni Unite sulle condizioni di registrazione delle navi (1986), la quale peraltro non ha avuto molto successo.Le navi da guerra sono lo strumento con cui in via pressoché esclusiva gli Stati fanno valere le loro pretese in mare: con piena libertà nei confronti delle navi che battono la loro stessa bandiera; entro i limiti previsti dal diritto internazionale (v. cap. 2) per quanto riguarda le navi straniere. Le navi da guerra in alto mare godono di un regime di immunità. (V. anche Navigazione).
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