MARE (lat. mare; gr. ϑάλασσα; fr. mer; sp. mar; ted. Meer, See; ingl. sea)
Termine generale col quale s'indicano tutti gli spazi acquei del globo terraqueo, a eccezione delle acque continentali (laghi e corsi d'acqua). Nell'uso dei Latini, la voce, come l'equivalente greco ϑάλασσα, designò dapprima gli spazî acquei del Mediterraneo (e suoi diversi bacini), i più anticamente conosciuti; quando si apprese l'esistenza dell'oceano esterno si contrappose questo col nome di mare externum (in gr. ἡ ἐκτὸς τῶν στηλῶν ϑάλασσα "il mare fuori delle Colonne d'Ercole") al mare internum, cioè al Mediterraneo. Ma, divulgatosi in seguito il nome di oceano per designare i più estesi spazî acquei e conosciuti i tre oceani maggiori, il termine mare rimase in uso per designare le minori distese che dai tre oceani principali dipendono, pur avendo una loro propria individualità. E tale è effettivamente l'uso geografico attuale del termine. Per vero l'uso comune indica come mari anche delle appendici o insenature dell'oceano, che non hanno nessuna caratteristica propria, come il Mare Arabico, e perfino spazî oceanici senza alcuna delimitazione, fuor di quella della costa che vi si affaccia (Mar di Portogallo); ma scientificamente è preferibile di riservare il termine mare a quei bacini che, sia per la morfologia e le caratteristiche batimetriche, sia per il regime delle temperature, sia per il sistema delle correnti o delle maree hanno spiccate caratteristiche individuali. Queste sono più o meno evidenti e nette a seconda dell'estensione e della conformazione della zona di contatto fra il bacino e l'aperto oceano da cui esso dipende. Quando la comunicazione avviene su un'area assai ampia, si hanno i cosiddetti mari marginali (Mare del Nord); quando la comunicazione è stabilita attraverso un cordone di isole (Mare di Bering, Mar del Giappone, Mare Cinese Orientale, ecc.) si può parlare più propriamente di mari periferici; questi sono appunto caratteristici dell'Asia orientale. Più spiccata individualità hanno i mari che comunicano con l'oceano aperto solo per stretti passaggi, come il Mar Rosso, il Golfo Persico, il Baltico. Tra questi mari interni assumono poi un'importanza speciale i grandi mediterranei, che sono quattro, e cioè l'Artico, il più esteso, il Mediterraneo Romano, l'Americano e l'Australasiatico; quest'ultimo fu detto anche un mare interinsulare, perché è quasi interamente racchiuso fra isole; l'Americano è invece separato dall'Atlantico per cordoni di isole.
Quanto all'origine, essa può essere molto diversa; di contro ai mari che ricoprono fosse incassate, come il Mar Rosso, o bacini profondi, come parecchi di quelli del nostro Mediterraneo, ve ne sono altri che hanno invaso porzioni della piattaforma continentale appena appena depresse (Mar Baltico, Baia di Hudson); in relazione all'origine, variano le condizioni batimetriche e in genere le caratteristiche morfologiche. Il seguente specchietto dà gli elementi morfografici dei principali mari:
Nel complesso i mari occupano meno di 40 milioni di kmq., cioè meno di 1/9 degl'interi spazî acquei del globo. Ma la loro importanza non si deve misurare da questo rapporto. Di fatto i mari interni hanno influito sullo sviluppo culturale dell'umanità assai più degli oceani, appunto in virtù della loro ristrettezza, onde fu più facile alle popolazioni rivierasche di acquistare esperienza delle loro condizioni e pratica della navigazione. Soprattutto alcuni mari interni hanno esercitato una funzione importantissima nel senso di collegare e talora anche fondere i popoli che a essi si affacciavano. A questo riguardo è da citare in primissima linea il Mediterraneo; ma notevole è anche la funzione dei mari dell'Asia orientale, del Baltico, del Mar Rosso, ecc. Per il resto, v. oceano.
Il mare nel diritto internazionale.
La condizione giuridica del mare è nettamente diversa, secondo che si tratti del cosiddetto alto mare o del mare territoriale.
L'alto mare, considerato come una res communis omnium già nel diritto romano, deve ritenersi, in base a un principio generale di carattere consuetudinario, accettato oggi da tutti i membri della comunità internazionale, come sottratto alla sovranità dei singoli stati e quindi inoccupabile giuridicamente, a differenza dei territorî considerati res nullius, i quali, previe determinate modalità, possono essere occupati e sottoposti alla sovranità degli stati. Ma tale inoccupabilità giuridica non è dovuta, come invece ritiene buona parte della dottrina, a un'inoccupabilità materiale dell'alto mare, cioè a una pretesa impossibilità materiale da parte degli stati di affermare la propria permanente potestà sull'alto mare, elemento fluido, o porzioni di esso, a mezzo di una flotta o in altro modo. Né, ammessa la possibilità materiale dell'occupazione dell'alto mare, può dirsi esista una norma di diritto internazionale positivo, la quale escluda l'occupazione o possesso di fatto di parti di esso. Deve ritenersi, piuttosto, che l'inammissibilità d'una occupazione dell'alto mare produttiva della estensione della potestà statale, sia unicamente conseguenza del principio generale della libertà o libero uso del mare (Celso, Dig., XXXXIII, 8, en quid in loco, 3, 1: maris communem usum omnibus hominibus), derivante a sua volta dal comune interesse degli stati che le grandi vie del commercio e della navigazione mondiale siano sempre e indistintamente aperte alle navi di ogni nazionalità. Difatti, storicamente, il principio della libertà dei mari fu una rivendicazione scientifica (Grozio, Mare liberum, 1609), una reazione di fronte alle pretese di certi stati (Inghilterra, Spagna, Portogallo, Venezia, ecc.), che pretendevano di avere la sovranità esclusiva su parti del mare aperto.
Tale principio comporta, anzitutto, la libertà di navigazione da parte delle navi di tutti gli stati, la libertà di sfruttamento delle ricchezze del mare (soprattutto a mezzo della pesca), la libertà d'immersione dei cavi sottomarini e in genere l'esercizio di tutti quei diritti che non impediscano o non ostacolino il libero uso dell'alto mare da parte di tutti. Ma l'esercizio di questi diritti non è lasciato all'arbitrio dei singoli, bensì è disciplinato, e quindi anche limitato, da norme precise di diritto internazionale. Così, mentre le navi in genere sono sottoposte, in quanto tali e per ciò che concerne gli atti compiuti e i fatti avvenuti a bordo di esse, alla legge dello stato di cui portano la bandiera (cui, cioè, appartengono, di solito, in base al criterio della cittadinanza del proprietario e dell'equipaggio), essendo considerate, per la nota finzione, come porzioni galleggianti dello stesso, e non è lecito alle navi di uno stato esercitare atti di giurisdizione, di controllo, di visita, su navi di altri stati, sono stabilite importanti deroghe a questo principio - a prescindere dalle norme vigenti in tempo di guerra in materia di blocco marittimo e di contrabbando - allo scopo di permettere la repressione della pirateria, della tratta degli schiavi e del commercio abusivo delle armi e degli alcoolici in certe regioni, nello stesso tempo che altre norme disciplinanti la navigazione ndono a garantirne la sicurezza. Lo stesso si dica a proposito delle libertà, positivamente accordate, di sfruttamento delle ricchezze del mare e d'immersione di cavi sottomarini, per cui esistono norme disciplinatrici e restrittive delle libertà medesime allo scopo di conseguire un'efficace protezione della pesca, soprattutto in certi mari, e dei cavi.
Il mare territoriale è costituito da quelle zone di mare che sono immediatamente adiacenti alla terraferma, sia continentale sia insulare. Giuridicamente, il mare territoriale fa parte del territorio degli stati che hanno la sovranità sulle coste da esso bagnate, e la natura del diritto che lo stato ha su esso non differisce per nulla dal diritto che lo stato ha sul proprio territorio. L'esattezza di questo principio, contestata da buona parte della dottrina, è stata di recente confermata dalla prima conferenza per la codificazione del diritto internazionale, tenutasi all'Aia, sotto gli auspici della Società delle nazioni, dal 13 marzo al 12 aprile 1930 (v. del resto, già l'articolo 1 della convenzione internazionale areonautica di Parigi, del 13 ottobre 1919). Le ragioni dell'estensione della sovranità statale sul mare territoriale furono specialmente d'ordine militare, ma anche economico, sanitario, fiscale, sì che da lungo tempo, ma soprattutto nell'epoca moderna, tutti gli stati sentirono la necessità di questa specie di zona di protezione lungo le loro coste. Circa l'estensione del mare territoriale, v. confini, XI, pp. 121-122.
Nell'ambito del mare territoriale lo stato può, naturalmente, esercitare tutti i diritti derivanti dalla sua sovranità e di cui sia possibile materialmente l'esercizio. Così esso può, tra l'altro, esercitare la polizia della navigazione; far rispettare in esso la propria neutralità; stabilire la sorveglianza doganale (eccetto che per le navi da guerra); emanare regolamenti sanitarî; riservare ai proprî sudditi l'esercizio esclusivo della pesca costiera e del cabotaggio. Esso non può, invece, impedire, in tempo di pace, il passaggio inoffensivo (passagium innoxium) alle navi mercantili, e, sotto certe condizioni, a quelle da guerra degli altri stati. Le navi da guerra, pur dovendosi conformare alle norme di polizia marittima stabilite dallo stato rivierasco, non sono sottoposte alla giurisdizione locale bensì alla loro giurisdizione nazionale. Per quanto riguarda le navi mercantili, alcune legislazioni (Inghilterra e stati sudamericani) stabiliscono il principio della soggezione alla giurisdizione locale, mentre gran parte delle altre giurisdizioni distinguono secondo che si tratti di fatti e atti interni della nave, cioè implicanti sanzioni puramente disciplinari o riguardanti solo l'equipaggio e i passeggeri della nave stessa, oppure di fatti e atti che si svolgono o hanno effetti, anche soltanto morali, fuori della nave, nelle stesse acque territoriali o nel porto, assoggettandoli nel primo caso alla giurisdizione dello stato cui la nave appartiene e nel secondo alla giurisdizione locale.
I principî sovraesposti circa il regime dell'alto mare e del mare territoriale hanno bisogno di un'ulteriore specificazione con riguardo alla situazione e conformazione fisico-geografica delle zone acquee cui si riferiscono. Essi infatti non riguardano i cosiddetti mari interni, né le acque costiere lungo i golfi, le baie e i seni.
Si considerano mari interni in senso stretto quelli che non hanno comunicazioni navigabili con un mare aperto, oppure vi sono congiunti a mezzo di un fiume o canale (ad es.: Mar Caspio, Mar Morto e grandi laghi eccedenti in profondità la doppia misura del mare territoriale, come il Lago Superiore, l'Ontario, il Huron, il Victoria, il Ladoga, il lago di Costanza, il Lemano, ecc.). Secondo la dottrina dominante, se questi mari sono circondati da più stati, sono sottoposti a essi in porzioni divise secondo linee mediane o delimitazioni convenzionali, ammenoché gli stessi stati non dispongano altrimenti, distinguendo, ad es., una zona di acque territoriali e una zona libera; ciò che una parte della dottrina ritiene, invece, debba essere anche senza convenzione. Se il mare interno è circondato dal territorio di un unico stato, esso spetta in sovranità a questo qualunque sia la sua ampiezza. In senso largo si considerano mari interni anche quelli che sono congiunti ai mari aperti a mezzo di stretti. Tali mari interni sono sottoposti alla sovranità dell'unico stato che ne possegga le coste e gli stretti di accesso, quando l'ampiezza di questi consenta il dominio delle opposte rive da parte delle forze militari dello stato (Mar d'Azov); in caso contrario essi devono considerarsi invece liberi nella parte esterna alla zona di mare territoriale (Mar Bianco), come liberi in ogni caso devono considerarsi quando siano circondati dal territorio solido di più stati (Mar Nero, Mar Rosso, Mar Baltico, ecc.).
Per quanto riguarda i golfi, le baie e i seni, la regola che prevale nella dottrina e nella pratica è che essi fanno parte del territorio dell'unico stato che ne possiede le coste, quando la loro entrata, cioè la distanza tra le due rive nella parte più vicina all'apertura, non eccede le 10 miglia marittime (ad es., lo Zuiderzee, le baie di Stettino e di Brest, ece.); diversamente, si considerano parte del mare libero (ad es., Golfo di Genova, di Taranto, Baia di Hudson, ecc.). Nel primo caso il mare territoriale continua all'esterno della linea ideale di congiunzione dei due punti estremi di terraferma racchiudenti il golfo; nel secondo, esso continua lungo la costa interna di questo. Se le coste del golfo, qualunque sia la sua ampiezza, appartengono a più stati, le sue acque si considerano libere.
Sulla condizione giuridica del fondo e sottosuolo dell'alto mare e del mare territoriale non esistono principî sicuri. Si deve ritenere, però, che il fondo e il sottosuolo dell'alto mare si trovino nelle condizioni delle res nullius, possibile oggetto di occupazione produttiva dell'estensione della sovranità statale, finché in seguito a questa non venga impedito il libero uso del mare soprastante da parte di tutti, mentre il fondo e il sottosuolo del mare territoriale si devono considerare come facenti parte del territorio dello stato sovrano sulle acque soprastanti.
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Mal di mare.
Consiste in una serie di disturbi determinati dal movimento della nave in navigazione; essi colpiscono la grande maggioranza degli uomini quando la causa provocatrice raggiunge una certa intensità. I vecchi ne sono alquanto risparmiati per la loro più scarsa reattività nervosa, il bambino e specie il lattante ne sono immuni per l'incompleto sviluppo del loro sistema nervoso centrale. La suscettibilità individuale variabile è esasperata dall'esistenza di disturbi gastro-intestinali, di stati neuropatici, d'intossicazioni (alcoolismo, tabagismo), di malattie infettive in corso. I sintomi più leggieri sono di ordine psichico; a questi nelle forme di una certa gravità si aggiungono disturbi somatici. L'inizio del mal di mare ha luogo con un malessere indefinibile, sensazioni di freddo, di vertigine, di peso al capo, di stanchezza, sudori freddi, nausea, palpitazioni di cuore, depressione psichica fino all'apatia; insorgono conati di vomito insistenti, con emissione di materiale sempre più scarso, ridotto infine a piccole quantità di muco tinto dalla bile o da tracce di sangue. In molti casi i disturbi migliorano col migliorare delle condizioni atmosferiche o per una relativa assuefazione; in altri invece persistono sempre più penosi, per dileguarsi soltanto al primo contatto con la terraferma. Negl'individui sensibili atterriti dalla prospettiva delle sofferenze, anche il semplice imbarco in una nave ferma in porto può scatenare la sintomatologia. Fra i movimenti della nave in alto mare i più temuti, per la provocazione dei disturbi, sono quelli che risultano dalla combinazione del beccheggio e del rullio. La genesi del mal di mare è lungi dall'essere chiarita. Furono proposte numerose teorie: fu ritenuto di origine psichica, circolatoria, addominale, sensoriale, meccanica, molecolare-meccanica, cerebrale e cerebellare. La genesi della sindrome è però tuttavia incerta; una delle concezioni moderne più attendibili è quella che la considera una nevrosi del plesso celiaco, provocata dai movimenti della nave e dalle esalazioni che hanno luogo nella vita di bordo. I disturbi scompaiono allo sbarco, l'eventuale dimagramento prodottosi nel viaggio rapidamente si restaura. In alcuni malati il mal di mare può produrre complicazioni gravi. Fra i numerosi metodi di cura, dei quali ben pochi sono efficaci, ricordiamo la compressione mediante una fascia sulla regione epigastrica, la permanenza in giacitura supina col corpo orientato secondo l'asse longitudinale della nave e all'aperto, l'ingestione di ghiaccio; tra i farmaci proposti godono qualche fama: la cocaina, la morfina, la canfora, il cloralio e soprattutto l'atropina.
Le divinità marine.
Se all'acqua viene spesso riconosciuto un carattere sacro, e un potere sia lustrale sia fecondante, onde numerose sono presso tutti i popoli le divinità delle fonti, dei fiumi, ecc. (v. fiume: Fiumi sacri), poche sono per contro le divinità propriamente marine, e non sempre cotesti dei del mare si possono considerare come anche originariamente tali. Così in Babilonia Ea è un dio dell'Oceano in quanto primitivamente è forse un dio della terra e quindi anche delle acque che vi circolano e del mare che, secondo la cosmologia babilonese, la sorregge (il corrispondente sumero Enki è il "signore della terra" o "del territorio"). Nella Siria, si è pensato (A. Jeremias, M.-J. Lagrange, E. Montet) che il dio cananeo e filisteo Dagon, o Dagan, fosse un dio marino e perciò rappresentato ittiomorficamente; ma il nome sembra derivare da daghan "grano" più che da dagh "pesce" e pare che questo dio - che su un sigillo fenicio è simboleggiato da una spiga e non appare venerato in alcuna città della costa - sia da considerare come una divinità agraria; una divinità marina, ma probabilmente anche delle acque fecondatrici, è l'Atargatis-Derketo, di Ascalona, rappresentata in forma di pesce, con testa e torace femminili.
Numerose divinità marine presenta invece la mitologia greca, sia tra gli dei della religione popolare, sia tra gli olimpici. Alla prima categoria appartengono, per es., il "Vecchio marino" ἅλιος γέρων di Bisanzio e alcune figure meglio delineate dal mito, quali Glauco, Tritone, Ino Leucotea, Proteo, Nereo e le Nereidi. Caratteristica di alcune, almeno, fra queste divinità sono la capacità di trasformarsi in mille guise, rendendosi inafferrabili, e quella gli presagire il futuro (Proteo, la nereide Tetide). Quest'ultima ("la nutrice") è sposa di Oceano e madre delle fonti e dei fiumi; mentre un'altra divinità dello stesso genere, Anfitrite, l'acqua che circonda la terra, è sposa del dio olimpico del mare, Poseidone. Ma questo dio ha anche un aspetto ctonio, onde è detto ἐνοσίγαιος, e σειδίχϑων "scuotitor della terra", e agrario, come protettore del cavalli. Come dio marino era venerato specie a Corinto, sul promontorio Sunio e in altri punti della costa. Per riavvicinamento a Poseidone, carattere di dio marino acquistò anche Nettuno (v.).