Marginalismo
Il marginalismo ha avuto inizio nei primi anni Settanta del 19° sec. quasi contemporaneamente in tre diversi Paesi, per un fenomeno di ‘scoperta multipla’ del quale si cerca ancora una spiegazione convincente. In Gran Bretagna, con la pubblicazione, nel 1871, della Theory of political economy di William Stanley Jevons, in Austria, nello stesso anno, con i Grundsätze der Volkswirtschaftslehre di Carl Menger e, nel 1874, in Svizzera, con gli Éléments d’économie politique pure (prima parte, seguita nel 1877 dalla seconda parte) del francese Léon Walras.
Sebbene queste tre opere presentassero caratteristiche molto diverse, date le differenze culturali dei tre studiosi (W. Jaffé, Menger, Jevons and Walras de-homogenized, «Economic inquiry», 1976, 14, pp. 511-24), erano tuttavia accomunate dalla centralità che riconoscevano al principio dell’utilità e, in particolare, dell’utilità marginale, anche se questo termine, tanto importante da dare la denominazione all’intero indirizzo, non fu adottato da nessuno dei tre autori. Jevons, infatti, parlava di «grado finale di utilità», Menger di «soddisfazione d’importanza progressivamente minore», mentre Walras si concentrava sull’«intensità dell’ultimo bisogno soddisfatto». Soltanto nel 1888 l’economista inglese Philip Wicksteed introdusse il termine marginale per indicare l’inclinazione della curva dell’utilità totale.
Diversi studiosi hanno parlato di una vera e propria ‘rivoluzione marginalista’ a motivo del cambiamento profondo che le teorie di questi tre autori hanno prodotto nella struttura della teoria del valore, anche se la questione è controversa, dato che il marginalismo ha attinto a numerosi concetti già presenti nell’economia classica – come lo stesso principio dell’utilità – pur se non adeguatamente valorizzati. È stato affermato da Joseph Schumpeter che il programma di ricerca che ha messo al centro del sistema economico l’utilità marginale ha creato «uno strumento analitico suscettibile di applicazione ai problemi economici» (Schumpeter 1954; trad. it. 1960, pp. 1121-22).
La teoria classica, a partire da Adam Smith, fondava la teoria del valore sul costo di produzione, la cui componente di maggiore rilevanza veniva riconosciuta al lavoro. Il solo versante dell’offerta, quindi, veniva ritenuto in grado di determinare l’equilibrio economico (anche se, secondo alcune interpretazioni, si teneva conto, almeno in modo implicito, anche della domanda).
Con la nuova teoria, invece – denominata su suggerimento di Thorstein Veblen (1857-1929) neoclassica –, nella determinazione dell’equilibrio economico veniva attribuito un ruolo prioritario, sulla base della teoria dell’utilità marginale, al versante della domanda, anche se non poteva essere del tutto ignorato il lato dell’offerta, come giustamente sottolineato da Alfred Marshall nei suoi Principles of economics (1890) con la famosa frase secondo cui domanda e offerta sono da considerare come due lame della stessa forbice. Oppure, in termini tecnici, considerando la quantità come variabile indipendente e il prezzo come variabile dipendente. Per Walras, invece, il prezzo era la variabile indipendente e la quantità la variabile dipendente. In ogni caso, sia per Marshall sia per Walras l’equilibrio economico era ottenuto attraverso l’interazione tra domanda e offerta. Non era così per Jevons né per Menger, secondo i quali per la determinazione dell’equilibrio era sufficiente la configurazione della domanda.
La nuova teoria ha modificato profondamente la stessa visione della scienza economica. Mentre per i classici l’obiettivo della teoria economica era quello della crescita della ricchezza nazionale (in una visione che, in termini moderni, possiamo definire macroeconomica), per i neoclassici l’obiettivo era la massimizzazione dell’utilità dei consumatori.
Come spesso accade di fronte a eventi così importanti, sono numerosi i precedenti che si possono rintracciare nelle diverse tradizioni scientifiche tali da poter essere ricordati così, in questo caso si possono citare economisti italiani come Ferdinando Galiani, Cesare Beccaria, Pietro Verri e diversi altri (cfr. Tangorra 1894).
Questi studiosi, però, pur se estremamente importanti, con le loro opere non attribuirono all’utilità marginale il ruolo fondamentale che le fu riconosciuto negli ultimi decenni del 19° sec., quando venne definito il programma di ricerca fondato sulla proporzionalità tra prezzi e utilità marginali per ciascun consumatore, come sostenuto per primo dal tedesco Hermann Heinrich Gossen (1810-1858). Essi quindi non contribuirono direttamente alla nascita del marginalismo.
Un ruolo a sé, di vero e proprio precursore della teoria dell’utilità marginale, fu quello del francese Jules Dupuit (1804-1866), allievo di Jean-Baptiste Say e di Pellegrino Rossi, una priorità che è stata riconosciuta forse per primo da Jevons e anche dal nostro Maffeo Pantaleoni mentre invece Walras la negava. Un recente, approfondito riesame dell’opera di Dupuit ha confermato questa valutazione (Ekelund, Hébert 1999).
Il programma di ricerca marginalista fu introdotto in Italia soprattutto attraverso la diffusione delle opere di Jevons e di Walras, mentre, per ragioni di cui si farà cenno in seguito, l’opera di Menger non ebbe, almeno nei primi anni, molta fortuna in Italia, sebbene Vilfredo Pareto in una lettera a Pantaleoni del novembre 1891 dichiarasse che Antonio De Viti De Marco gli aveva prestato una sua traduzione dell’opera di Menger «che mi sarà utilissima» (V. Pareto, Lettere, 1960, 1° vol., p. 94).
Peraltro, sebbene l’opera di Walras abbia avuto diffusione in Italia dopo pochi anni dalla sua pubblicazione, non si può dire che essa abbia suscitato, nel primo periodo, molto interesse, soprattutto per il suo ricorso a formulazioni matematiche, come ebbe a dire con l’abituale disinvoltura Pantaleoni nel suo articolo Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche, del 1883, affermando di seguire Jevons «perché più chiaro del Walras» (p. 2).
Fu soltanto nel successivo periodo, quando intervennero nel dibattito Pareto ed Enrico Barone, che la teoria dell’equilibrio economico generale ebbe grande rilievo nel nostro Paese. Tuttavia essa rimase sostanzialmente minoritaria rispetto all’impostazione marshalliana, tanto che fu adottata, per alcuni decenni, prevalentemente dagli allievi di Pareto, in particolare Luigi Amoroso (1886-1965), Guido Sensini (1879-1958), Alfonso De Pietri-Tonelli (1883-1952; cfr. Guerraggio 1998).
Le prime notizie sulla penetrazione del marginalismo in Italia le ha fornite lo stesso Walras, il quale nel maggio del 1874 scriveva a Jevons una lettera in cui, dopo aver rilevato che in Francia e in Inghilterra non vi erano state reazioni interessate alle loro teorie, considerate opera di «sognatori abbastanza chimerici», affermava:
Sono lieto di potervi annunziare che altrimenti procede in altri luoghi e specialmente in Italia ove il metodo nuovo è stato colto nel suo spirito e nella sua importanza con un’intelligenza ed una prontezza meravigliosa, ed ove uomini eminentemente distinti, con i quali io non posso che vivamente sollecitarvi a mettervi in relazione, i signori professori Alberto Errera, di Padova, Boccardo, di Genova, Bodio, direttore generale della statistica del Regno, a Roma, Zanon, di Venezia, gli diedero il loro assentimento (Biblioteca dell’economista, III serie, 2° vol., 1878, p. 1313; si veda inoltre: Correspondence of Léon Walras and related papers, 1° vol., 1965, pp. 397-400).
In realtà questa lettera, mentre risponde certamente al vero per quanto riguarda le difficoltà che aveva incontrato l’impostazione marginalista in Inghilterra, nei primi anni successivi alla pubblicazione della Theory of political economy di Jevons, e in Francia, non riflette adeguatamente la situazione dell’Italia. Nel nostro Paese, infatti, si era manifestato, certamente, un interesse per le nuove idee, ma senza un’approfondita analisi, come è ben noto anche dalla corrispondenza di Alberto Errera (1841-1894) con Walras (che aveva svolto presso di lui e di altri studiosi un’intensa opera di autopromozione).
Rimane il fatto, comunque, che nel 1878 sia la Theory of political economy di Jevons sia la Théorie mathématique de la richesse sociale di Walras (quattro memorie che sintetizzano il primo e il secondo volume degli Éléments d’économie politique pure) furono pubblicate nella III serie della Biblioteca dell’economista, a cura di Gerolamo Boccardo (1829-1904) che, peraltro, nella stessa prefazione al volume non mancava di prendere le distanze dai pur lodati economisti matematici.
Come è stato osservato (Barucci 1973, pp. 250-51) l’intendimento di Boccardo nel curare la pubblicazione in lingua italiana di queste opere era più quello di presentare delle applicazioni di matematica all’economia che non uno specifico interesse per le nuove teorie economiche. Tuttavia, per merito di queste scelte editoriali di Boccardo gli economisti italiani ebbero a disposizione i testi di base delle nuove teorie a pochi anni dalla loro pubblicazione.
Ancora prima, nel 1874, Luigi Cossa (1831-1896), in una relazione all’Istituto lombardo di scienze e lettere nella quale recensiva l’opera di Fedele Lampertico (1833-1906) su L’economia dei popoli e degli Stati, affermava: «Vorremmo veder ricordate e discusse, a suo tempo, anche le dottrine troppo sottili, a parer nostro, ma pure ingegnose del Jevons, sul final degree of utility, che si connettono strettamente anche col tema della rendita» e aggiungeva:
In generale crediamo che gli scrittori inglesi contemporanei meritino una attenzione molto maggiore di quella che loro si accorda attualmente anche in Italia, essendovene parecchi che, come i già citati Cairnes e Jevons, il Goschen, il Thornton, il Fawcett, ecc., hanno reso utilissimi servigi alla scienza (in L. Cossa, Saggi di economia politica, 1878, pp. 144-45).
Inoltre, lo stesso Cossa, nel 1880, tradusse il Primer of political economy di Jevons, aggiungendo sulla copertina il suo nome a quello dell’autore.
In conclusione, già negli anni Settanta, l’accademia italiana prende nota delle nuove teorie, anche se non è ancora in grado di elaborarle, un fatto che dimostra quanto meno un vivo interesse in Italia per il progresso delle conoscenze scientifiche, specie se si confronta la situazione italiana con quella di altri Paesi più avanzati economicamente e scientificamente, come la stessa Inghilterra e anche la Francia, Paesi nei quali l’accettazione delle nuove teorie non fu immediata.
Un aspetto che merita di essere quanto meno menzionato è costituito dalla tesi (Kauder 1953) secondo cui la teoria dell’utilità sarebbe stata accolta meno favorevolmente nei Paesi protestanti rispetto a quelli cattolici. Questa tesi, in sé discutibile, merita tuttavia di essere comunque esaminata, perché il nostro Francesco Ferrara, che è considerato un anticipatore del marginalismo e che dominò la scena della teoria economica in Italia tra il 1850 e il 1870, nell’illustrare le ragioni per cui il principio dell’utilità non era stato ancora posto a base della teoria del valore, malgrado il favore di Say, si soffermava sul falso moralismo di coloro che rifiutavano di accettare l’idea che l’«utile» fosse alla base della vita sociale, e non il «dovere» (Esame storico-critico di economisti e dottrine economiche, 1° vol., 1889, pp. 641-48).
Secondo un’autorevole classificazione (Howey 1960), gli anni che vanno dal 1870 al 1889 possono essere considerati il periodo fondativo, durante il quale il marginalismo si affermò internazionalmente. La fase immediatamente successiva, come si vedrà, è quella del completamento, con l’opera di Marshall (che oscurò la fama di Jevons, di Francis Y. Edgeworth, 1845-1926, di Knut Wicksell, 1851-1926) e con quelle di Pareto e Barone che ebbero un ruolo di protagonisti. Dopo il periodo iniziale, anche in Italia vennero dati contributi decisamente interessanti a questa tematica.
Negli anni Ottanta cominciarono infatti a fiorire studi che non erano semplici ripetizioni di quanto già detto, ma veri e propri contributi innovativi. Questa valutazione della scienza economica italiana è sintetizzata molto bene dalla seguente frase di Schumpeter:
Se il più benevolo osservatore non avrebbe potuto tributare alcun elogio all’economica italiana nei primi anni del decennio 1870-1880, il più malevolo osservatore non avrebbe potuto negare che essa non era seconda ad alcuno nel 1914 (1954; trad. it. 1960, 3° vol., p. 1052).
I primi importanti contributi italiani basati sulla metodologia marginalista furono dovuti a Pantaleoni e a De Viti De Marco, i quali sin dalla loro prima giovinezza, da studenti presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, avevano stabilito un’intensa collaborazione, che proseguì per molti anni in modo fruttuoso.
Pantaleoni, tra le tante opere di notevole importanza (in particolare il volume sulla Teoria della traslazione dei tributi, pubblicato nel 1882, che fu la sua tesi di laurea e che è rimasto per decenni il ‘classico’ sull’argomento) ha dato, a quella che abbiamo definito ‘prima fase’ del marginalismo, soprattutto tre contributi di particolare rilievo. Il primo, in ordine temporale, è il Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche (1883), nel quale egli applica per la prima volta in Italia l’impostazione marginalista (il termine non è ancora utilizzato, per cui si parla di «gradi finali di utilità comparati delle varie spese» da parte del Parlamento), rifacendosi alle opere di Jevons e Walras, anche se poi, come accennato, dichiarava di preferire l’impostazione di Jevons, cosa che sembra avergli procurato l’astio di Walras, almeno nella fase iniziale della loro conoscenza.
Il secondo scritto nel quale egli applica la metodologia marginalista è Teoria della pressione tributaria (1887), ove viene applicata, per la misurazione dei gradi di utilità dei beni, la tabella mengeriana, con questa singolare affermazione:
il trattato del Menger è un plagio dal Jevons e la sua Methode der Sozialwissenschaften un plagio dal Cairnes. Il che non toglie che entrambe le sue opere siano utilissime, perché volgarizzano ed espongono diffusamente ciò che gli originali contengono in forma condensata (p. 78).
Questa critica, mantenuta nel suo terzo contributo, il volume del 1889 Principii di economia pura (nel quale, anzi, rincarò la dose di veleno, dichiarando che il volume di Menger «ha soltanto il difetto di essere un plagio dei più audaci delle pubblicazioni di Cournot, Gossen, Jennings e Jevons», p. 121), ebbe larga eco, sebbene del tutto ingiustificata, e fu poi da Pantaleoni corretta, tanto che egli stesso si fece promotore dell’edizione italiana dei Principii fondamentali di economia di Menger (nella Biblioteca del «Giornale degli economisti», 1909, ristampata dall’editore Laterza nel 1925), definendola, nella prefazione, «sebbene pubblicata nel 1871», «la migliore opera propedeutica che ancora oggi si possa dare in mano ad un neofita».
Nei Principii di economia pura, un’opera particolarmente ambiziosa che rivela un eccezionale impegno scientifico, Pantaleoni si assume il compito di attribuire la paternità a ciascuna teoria, facendo anche molti riconoscimenti agli esponenti della tradizione italiana: oltre che a Ferrara, a Giammaria Ortes, a Galiani, a Pietro Verri e ad altri ancora.
L’opera (nella quale sono utilizzati, per il commercio estero e interno, i grafici che l’anno dopo appariranno nei Principles di Marshall) è stata certamente importante anche perché ha indotto studiosi come Pareto a dedicarsi agli studi economici (o quanto meno ad allinearsi sui livelli più alti delle conoscenze economiche dell’epoca, se è vero che Pareto ancor prima di incontrare Pantaleoni s’interessava di economia). Venne anche tradotta in inglese (Pure economics, 1898) e successivamente in spagnolo e portoghese, anche se non presenta caratteristiche di novità tali da restare nella storia del pensiero economico.
Si tratta infatti di un testo eclettico che in parte include teorie risalenti all’economia classica, come la teoria del fondo salari. Tuttavia, è indubbio come, malgrado nella sua opera non siano riconoscibili particolari innovazioni, sia Pantaleoni la figura con la quale s’identifica il primo marginalismo italiano.
L’attività scientifica e giornalistica di Pantaleoni proseguì per tutta la sua vita, ma purtroppo non in modo sistematico. I suoi scritti più importanti sono raccolti nei due volumi di Erotemi di economia (1925).
Sempre nel primo periodo del marginalismo (1870-1890) in Italia, non si può mettere in secondo piano la figura di De Viti De Marco. Se vogliamo guardare alla sua opera ‘in controluce’ rispetto a quella di Pantaleoni, possiamo dire che il suo primo lavoro, Moneta e prezzi (1885), oltre alla notevole erudizione nei riferimenti ai principali economisti che si sono occupati dell’argomento, non manca di rinviare alle opere di Jevons. In particolare, dopo aver affermato che «a misura che il bisogno dell’uomo viene progressivamente soddisfatto, ogni successivo incremento di merce perde di utilità di fronte all’incremento anteriore», annota: «Io accenno qui di volo alla teoria della utilità e dello scambio di W. Stanley Jevons» (The theory of political economy, 1879, p. 30 e p. 180).
Ma è nel 1888 (un anno prima della pubblicazione dei Principii di Pantaleoni, da lui ringraziato perché «rivedendo le prove di stampa, mi suggerì correzioni e consigli, di cui gli sono debitore») che appare il contributo più originale di De Viti De Marco, Il carattere teorico dell’economia finanziaria, opera certamente innovativa, in quanto, sebbene sia tuttora, come vedremo, alquanto trascurata dalla letteratura internazionale, con essa ha avuto inizio la moderna scienza delle finanze come «teoria della domanda e dell’offerta di beni pubblici».
Dopo aver affermato che la premessa dei fatti economici sia «non egoismo od altruismo», ma il «supremo principio del minimo mezzo» (p. 48), De Viti De Marco mette in evidenza da un lato la particolare natura dei beni pubblici che dà luogo a «indivisibilità» (e quindi a quello che con termini moderni si denomina fallimento del mercato) e dall’altro il fenomeno psicologico del «consolidamento dei bisogni», un meccanismo psicologico che non consente agli individui di percepire in modo adeguato l’utilità dei servizi pubblici. I due elementi dell’indivisibilità e del consolidamento rimarranno per molti decenni alla base della teoria finanziaria, mentre nella moderna teoria prevale la definizione di bene pubblico di Paul Samuelson (1954), come bene «non escludibile», in quanto tutti possono goderne, e «non rivale», perché il suo utilizzo (se bene pubblico «puro») da parte di altri non impedisce che qualcun altro possa beneficiarne allo stesso modo. Con concetti più moderni, è sempre l’«indivisibilità» alla base della definizione di bene pubblico.
De Viti De Marco definisce, inoltre, gli ambiti istituzionali per lo studio della finanza pubblica delineando, sulla base dei principi microeconomici, una serie di assetti nei quali ha luogo la vita politica, delimitati dal caso del monopolio puro, da lui indicato come l’ipotesi di Stato assoluto, e da quello della libera concorrenza, da lui identificato con lo «Stato sociale-cooperativo». È il primo caso di applicazione della microeconomia ai sistemi politico-istituzionali.
La maggior parte delle situazioni istituzionali, secondo De Viti De Marco, si trova a un livello intermedio. In questo schema, che secondo lo studioso tende sempre più verso il sistema democratico, la regola ottimale per il pagamento delle imposte è che ciascun contribuente paghi un’imposta che sia, almeno tendenzialmente, pari all’utilità marginale che ha per lui la spesa pubblica.
Più esattamente, afferma, è necessario che nel contesto sociale-cooperativo (che nell’edizione a stampa del suo manuale diventerà lo «stato cooperativo»), «si adatti la quota parte del costo complessivo al grado finale di utilità, che effettivamente ha il servigio nella divisione del consumo di ogni contribuente» (Il carattere teorico dell’economia finanziaria, 1888, p. 132). Peraltro, a De Viti De Marco non sfugge che nel passaggio dal piano normativo a quello positivo questa regola ben difficilmente può trovare precisa applicazione, per cui parla del «calcolo finanziario» come di una «tendenza» che «non è suscettibile di una espressione esatta, numerica» (p. 141). De Viti De Marco, malgrado la giovane età, non è prigioniero della sua teoria, essendo a conoscenza del modo in cui funzionano i meccanismi della politica e quindi scettico sulla possibilità che tale regola trovi pieno riscontro nella realtà.
Egli osserva, quindi, che il prelievo fiscale deve essere coercitivo, per
costringere le singole economie recalcitranti all’osservanza del patto sociale, dentro i limiti del mandato e fino a concorrenza della propria rata di partecipazione al patto sociale (p. 96).
Questa trattazione, come si è detto, costituisce la prima formulazione del nucleo centrale della scienza delle finanze, al quale difficilmente si può attribuire la qualifica (poi inflazionata) di «teoria volontaristica».
Un altro contributo alla finanza pubblica italiana in ambito marginalista è costituito dal volume di Scienza delle finanze (1888) di Giuseppe Ricca Salerno che, seguendo la teoria presentata nel 1887 da Emil Sax, esponente della scuola austriaca e docente nell’Università di Praga, nel suo volume Grundlegung der theoretischen Staatswirtschaft, estese al settore pubblico la teoria marginalista, affermando che i fatti finanziari devono essere spiegati come si spiegano quelli dell’economia di mercato. Peraltro, il concetto centrale della teoria, quello di bene pubblico, non appare chiaramente dalla complessa esposizione di Sax, sia perché l’economista austriaco inserisce tra i beni pubblici soltanto i beni materiali, escludendo i servizi, che sono parte così importante dei beni pubblici, sia perché sembra escludere che gli individui possano valutare l’utilità dei beni pubblici, cosa che secondo lui richiederebbe un «approccio collettivistico». In particolare, Sax sostiene che l’impostazione marginalista non può essere applicata al «gruppo», che per lui sembra essere il vero riferimento, rispetto all’individuo, che è al centro, invece, delle indagini di De Viti De Marco e di Ugo Mazzola.
La teoria di Sax ebbe, comunque, un buon seguito in Italia, soprattutto da parte di Augusto Graziani, autore di un prestigioso trattato di scienza delle finanze, oltre che di un altrettanto importante trattato di economia politica.
Due anni dopo la pubblicazione del saggio di De Viti De Marco, nel 1890, Mazzola (1863-1899), economista napoletano che nel frattempo era stato cooptato nel team Pantaleoni-De Viti De Marco (tanto che con loro, proprio nel 1890, assunse la direzione del «Giornale degli economisti»), pubblicò il volume I dati scientifici della finanza pubblica, nel quale, avvalendosi degli studi proprio di Pantaleoni e di De Viti De Marco, nonché di altra letteratura recente, tra cui l’opera di Sax, presentava una sua teoria della finanza pubblica. Tale teoria, pur in modo più ordinato, conteneva le stesse componenti fondamentali della teoria devitiana dei beni pubblici: le due caratteristiche dell’indivisibilità e del consolidamento, nonché la regola dell’equilibrio in corrispondenza dell’utilità marginale.
Sul piano internazionale, numerose ricostruzioni recenti della teoria dei beni pubblici non tengono adeguatamente conto del contributo innovativo di De Viti De Marco, mentre si soffermano sul contributo di Mazzola come se l’economista napoletano fosse il primo ad aver elaborato una teoria dei beni pubblici. Questo equivoco deriva probabilmente dal fatto che Wicksell, che non conosceva l’italiano, nel suo volume Finanztheoretische Untersuchungen (1896), utilizzò una recensione del tedesco Josef Kaizl (apparsa su «Conrad’s Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik», 1890, pp. 89-96) che conteneva una lunga sintesi del volume di Mazzola, cogliendone l’aspetto centrale del prezzo-imposta per ciascun individuo in corrispondenza della sua utilità marginale.
Quest’attenzione di Wicksell nei riguardi dell’opera di Mazzola ha indotto molti studiosi, e in particolare Richard A. Musgrave (il cui ruolo nella costruzione della moderna teoria dei beni pubblici è stato fondamentale, soprattutto perché si deve a lui l’introduzione di questa teoria negli Stati Uniti; cfr. tra l’altro: Public finance and Finanzwissenschaft traditions compared, in «Finanzarchiv», 1996, pp. 145-93, rist. in Public finance in a democratic society, 3° vol., 2000, pp. 33-80), ad attribuire a Mazzola il ruolo di iniziatore della moderna teoria dei beni pubblici, ignorando il contributo di De Viti De Marco.
Il 1890 segna lo spartiacque tra la prima fase del marginalismo e la seconda, per la pubblicazione, proprio nel 1890, della prima edizione dei Principles di Marshall, che costituiscono la prima organizzazione sistematica dei contributi marginalisti, nell’alveo della tradizione classica.
Gli economisti della ‘seconda generazione’ (Marshall, Wicksteed ed Edgeworth in Gran Bretagna, Friedrich von Wieser ed Eugen von Böhm-Bawerk in Austria, Wicksell in Svezia, ma anche Pareto e Barone in Italia) completarono il quadro, sia stabilendo l’importanza dell’offerta oltre che della domanda nella determinazione del valore di equilibrio, sia estendendo il principio della decrescenza dell’utilità marginale ai fattori produttivi.
Dopo la sistemazione dell’intera materia dovuta a Marshall, la teoria marginalista divenne quella dominante, corpo centrale della teoria microeconomica.
Il primo, importante progresso del marginalismo negli anni successivi può essere considerato la scoperta, simmetricamente al principio della decrescenza dell’utilità marginale, del principio della decrescenza della produttività marginale (concetto che risale, per quanto riguarda la terra, alla teoria della rendita di Davide Ricardo, esteso dai marginalisti a tutti i fattori produttivi). Nella sua forma più semplice, la teoria sostiene che la remunerazione di ciascun fattore dovrebbe essere pari alla diminuzione nel valore del prodotto conseguente alla riduzione di una unità dello stesso fattore produttivo. Questo risultato, ampiamente discusso e anche contestato, varrebbe in presenza di alcune particolari condizioni: che vi sia concorrenza perfetta nel mercato dei beni e dei fattori, che le imprese tendano a massimizzare i profitti e che valga la legge dei rendimenti decrescenti.
Non entriamo comunque in questa sede nel tema complesso del fondamento etico di questo principio. Quel che importa rilevare è che la teoria della produttività marginale ha avuto un ruolo fondamentale per quanto riguarda le curve d’offerta di breve periodo delle imprese e la domanda di fattori produttivi da parte delle imprese, completando così la teoria del valore, estesa dai prodotti ai fattori produttivi.
Anche per questa teoria si può risalire a diversi precedenti, sebbene tra le opere degli autori più accreditati (per lo meno nel periodo considerato, dal 1890 in poi) vi siano alla sua origine i Principles di Marshall, mentre in anni successivi vi sono stati ulteriori perfezionamenti da parte di Wicksteed (An essay on the coordination of the laws of distribution, 1894), nonché di Edgeworth, di Walras, di John Bates Clark, di Wicksell e degli allievi di Menger, Wieser e Böhm-Bawerk.
L’intera tematica, peraltro, per sua stessa natura si presta e richiede un’impostazione di equilibrio economico generale. E proprio su quest’aspetto s’innesta, da un lato, l’interesse di Walras per questa tematica e, dall’altro, la partecipazione al dibattito da parte di Pareto e di Barone, che hanno dato un contributo rilevante alla moderna formulazione in forma matematica della teoria della produttività marginale.
La prima esposizione di questa teoria si ritrova probabilmente in Menger, come rileva Schumpeter (1954; trad. it. 1960, pp. 1121-22) in quanto derivazione dalla teoria dell’utilità marginale. Infatti, i fattori produttivi, a motivo del fatto che producono beni di consumo (e che quindi danno utilità, sia pure indirettamente), sono anch’essi beni che danno soddisfazione ai consumatori.
I contributi italiani in questa fase più matura sono quelli di Pareto e di Barone anche se non mancarono in Italia altri economisti di rilievo, come Giovanni Montemartini, ancora oggi ricordato per la sua teoria finanziaria e soprattutto per il volume sulla municipalizzazione dei servizi pubblici. Montemartini aveva studiato a Vienna seguendo il corso di Menger e aveva pubblicato un volume sulla «teorica delle produttività marginali» (1899). Oltre a Montemartini, occupava una posizione rilevante anche Graziani, soprattutto per la sua manualistica.
I contributi di Pareto alla teoria economica, oltre ai numerosi articoli di economia e anche di politica, si racchiudono soprattutto in due opere: il Cours d’économie politique (1895-96) e il Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale (1906, nuova ed. in francese 1909, che di fatto costituisce una seconda edizione).
Il Cours è un’opera che riflette molto bene l’influenza esercitata su Pareto da Walras soprattutto nei suoi primi anni d’insegnamento a Losanna. Certamente Pareto va al di là del semplice raffinamento matematico del sistema walrasiano (come invece sembrano sostenere diversi commentatori, tra cui lo stesso Schumpeter), introducendo numerosi elementi di novità con riferimento ai mercati non concorrenziali e anche una prima enunciazione del principio dell’ottimo paretiano. Inoltre, un elemento molto innovativo del Cours è la famosa curva dei redditi, che è il primo e, comunque, per l’epoca più importante lavoro econometrico, ancora oggi discusso e commentato, anche criticamente. Non ha avuto fortuna invece la sua proposta di sostituire al termine utilità il termine ofelimità (dal greco ὠφέλιμος, piacevole), proposta dettata dal desiderio di Pareto di dare alla scienza economica la massima obiettività (per lui scientificità), dato che il termine utilità esprime una valutazione positiva che contrasta con la neutralità dello scienziato.
Sempre la preoccupazione della scientificità ha poi indotto Pareto a utilizzare le curve d’indifferenza ideate da Edgeworth per passare dall’utilità cardinale all’utilità ordinale, che non presuppone la misurabilità dell’utilità, bastando la conoscenza empirica delle scelte individuali. Proprio l’assillo di Pareto per lo statuto scientifico della scienza economica lo portò a negare la rilevanza del ricorso alla psicologia, una decisione che lo trovò in contrasto con la maggior parte degli economisti, incluso il suo migliore amico e collega, Pantaleoni.
Con il Manuale, ormai Pareto si stava allontanando da quella stessa economia marginalista che nei primi anni (e fino alla pubblicazione del Cours) egli aveva ammirato e difeso (pur con molti dissensi rispetto agli altri protagonisti del pensiero economico). Con Pareto, la teoria del valore perde qualsiasi significato e, nella rincorsa verso la sperimentazione, egli decide di dedicarsi alla sociologia, non bastandogli più lo studio dell’economia, scienza che si occupa soltanto delle «azioni logiche», mentre la maggior parte delle azioni umane, sostiene, sono «non-logiche», divenendo oggetto di studio da parte sua nel Trattato di sociologia (1916 per l’edizione italiana e 1917 per quella francese).
Quello che maggiormente rimane, oggi, come frutto delle riflessioni di Pareto sulla non scientificità dei confronti interpersonali di utilità e sulla necessità quindi di ricorrere a un sistema ordinale di preferenze, è il principio dell’ottimo, denominato, appunto paretiano, definito come la posizione dalla quale, in un mercato competitivo, è impossibile spostarsi per migliorare il benessere di un individuo senza peggiorare quello di un altro. Tale principio è stato denominato, a partire dagli anni Settanta (Layard, Walters 1978; Varian 1987), «primo teorema fondamentale dell’economia del benessere».
Degli allievi di Pareto il più importante fu Barone, al quale si deve un rilevante apporto alla teoria della produttività marginale, con gli Studi sulla distribuzione apparsi sul «Giornale degli economisti» nel 1896. La considerazione in cui Walras teneva Barone e Pareto era tale che nel 1900, nella quarta edizione dei suoi Élements inserì la teoria della produttività marginale attribuendo le equazioni a Barone e riconoscendo a Pareto e Barone il merito di aver concorso alla corretta elaborazione della teoria.
Il più noto contributo di Barone, internazionalmente apprezzato, è però il suo saggio sul Ministro della produzione nello Stato collettivista (1908) nel quale dimostra che un sistema a economia socialista può ottenere gli stessi risultati di un sistema a economia capitalista, senza però spiegare, come ha osservato Friedrich August von Hayek, in che modo poter giungere alla determinazione dei prezzi che l’economia di mercato ottiene in modo decentrato.
Uno studioso che ha contribuito alla teoria della produttività marginale, come anche ad altri importanti tematiche, e in particolare al tema delle municipalizzazioni, Montemartini, concludeva nel 1899 il suo denso saggio su La teorica delle produttività marginali affermando che
vi sarà sempre antagonismo tra le diverse classi partecipanti alla produzione. La lotta di classe appare così una legge ineluttabile a cui non può sfuggire l’umanità nella successione delle fasi economiche che attraversa; essa domina nella produzione per rinfrangersi poi nei fenomeni di distribuzione (p. 221).
Queste frasi conclusive di un dotto saggio da parte di uno studioso come Montemartini, che, come ricordato, aveva studiato a Vienna frequentando le lezioni di Menger (e che veniva considerato da Pantaleoni «il più equilibrato e colto socialista che in Italia, finora, vi è stato») danno idea del clima che si respirava in Italia negli ultimi anni del 19° secolo.
È quindi importante analizzare i contenuti del dibattito scientifico (e politico) tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento per verificare in che modo il marginalismo sia stato utilizzato. Il quesito al centro di quel dibattito è se vi sia o meno opposizione tra marginalismo e socialismo. Il sospetto che il marginalismo sia fondamentalmente opposto al socialismo è nato soprattutto dalla considerazione che con il passaggio dalla teoria classica a quella neoclassica siano state messe da parte le teorie del valore-lavoro, dando invece ampio spazio alla teoria della domanda del consumatore e alla teoria marginalista della distribuzione.
Tuttavia, la maggior parte degli storici del pensiero è ormai concorde nel negare che dietro il programma di ricerca del marginalismo vi era un intendimento politico. Basti pensare che Walras aveva ideali socialisti e così anche altri esponenti della scuola marginalista, come in Italia il già menzionato Montemartini.
In realtà, il marginalismo si presenta come un sistema neutrale, che ha un apparato matematico in grado indubbiamente di irrobustire il suo statuto scientifico.
Detto ciò, non vi è dubbio che alcuni esponenti del marginalismo abbiano avuto una forte impostazione ideologica. Quest’aspetto merita di essere esaminato per il fatto che il suo più autorevole esponente, ossia Pantaleoni, aveva interpretato il comportamento individuale razionale in un’ottica di darwinismo sociale e nel fare ciò aveva influenzato i suoi più stretti colleghi, come De Viti De Marco e Mazzola, che invece erano (e rimasero) molto più moderati, come dimostra tutta la loro vicenda scientifica e anche politica.
Si può dimostrare facilmente che De Viti De Marco in tutti i suoi scritti politici ha dimostrato sensibilità sociale. Quale condirettore (e poi direttore) del «Giornale degli economisti», da lui acquisito nel 1890 assieme a Pantaleoni e Mazzola, egli era giudicato troppo «prudente» da Pareto, che se ne lamentava con Pantaleoni. E, quando divenne direttore, respinse, a partire dal 1897, le «cronache» di Pareto, suscitando vivaci reazioni da parte di quest’ultimo. Politicamente, De Viti De Marco apparteneva al Partito radicale.
Mazzola, invece, che aveva esordito nel 1886, con la pubblicazione di un importante rapporto sui primi provvedimenti di welfare in Germania (riguardanti l’assicurazione degli operai), per farsi ‘perdonare’ da Pantaleoni gliene donò una copia con la seguente dedica: «Al Prof. Maffeo Pantaleoni offre con animo grato il degenere ed eretico pronipote – 28-I-87».
A parte questi dati che riflettono le posizioni personali di alcuni dei più illustri esponenti della ‘prima generazione’ di marginalisti, si può accennare alla ‘seconda generazione’ per ricordare che le teorie paretiane sono alla base della moderna economia del benessere, mentre Barone con il suo saggio sul ministro della produzione in uno Stato collettivista ha aperto un importante settore di ricerca che, soprattutto negli anni Trenta, ha avuto interessanti sviluppi (anche se, come si è accennato, non ha risolto il problema principale della pianificazione, cui Hayek ha dedicato pagine eccezionalmente chiare per dimostrare, anche sulla base delle considerazioni dello stesso Pareto, l’impossibilità del calcolo economico in regime collettivista).
Quindi, la tesi che qui si vuole brevemente sostenere sul problema dei rapporti tra marginalismo e socialismo è che è necessario separare la struttura teorica (neutrale) del marginalismo dalle scelte politiche (e anche economiche) degli economisti che aderirono a quel programma di ricerca.
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