di Gianandrea Gaiani
La crescente dimensione marittima del potenziamento militare cinese e l’estensione al teatro operativo del Pacifico della dottrina statunitense nota come ‘leading from behind’ costituiscono le cause più rilevanti della corsa al riarmo che coinvolge una dozzina di paesi dell’Asia orientale. Con l’ingresso in servizio della portaerei Liaoning la flotta d’altura cinese ha raggiunto la ragguardevole entità di 75 navi di superficie e 63 sottomarini, un rafforzamento naturale per un paese che importa via mare gran parte delle materie prime necessarie a sostenere il suo sviluppo economico. La Liaoning «alzerà il livello operativo di tutta la marina cinese e contribuirà a proteggere con efficacia la sovranità, la sicurezza e lo sviluppo del paese», annunciò nel 2012 il ministero della difesa, confermando la costruzione di altre tre portaerei e il progetto di averne in servizio sei nel 2020. Le nuove capacità oceaniche di una forza navale che aveva sempre avuto un carattere costiero e difensivo hanno consentito a Pechino di porsi come antagonista della supremazia statunitense nel Pacifico, anche grazie al dispiegamento di nuove armi come il missile balistico DF-21D, presentato come il ‘killer delle portaerei’. Tuttavia, l’ostentata ‘grandeur navale’ ha rappresentato un autogol che ha stroncato le velleità della Cina di porsi come polo d’attrazione e potenza di riferimento per la stabilità regionale. Al contrario, tutti i paesi rivieraschi hanno stretto nuove o più intense relazioni difensive con gli Stati Uniti, interpretando il rafforzamento navale cinese come una diretta minaccia ai loro interessi, soprattutto in relazione alle contese per gli arcipelaghi del Mar Cinese Meridionale e Orientale.
Nel 2009 l’ammiraglio Robert Willard, comandante della Settima flotta US, dichiarò al Congresso che la comparsa della Liaoning avrebbe comportato ‘un significativo cambiamento di percezione’ della forza della Cina. Quattro anni più tardi nella regione è in atto una corsa al riarmo navale che ben rappresenta i timori determinati dai nuovi mezzi e dalla spregiudicata pressione militare esercitata da Pechino, culminata alla fine del 2013 con il braccio di ferro con Tokyo e Seoul in seguito all’inclusione delle Isole Senkaku nella cosiddetta ‘area di identificazione aerea di difesa’, ossia nello spazio aereo cinese.
Una sfida ancor più tesa è in atto nel Mar Cinese Meridionale, dove per le Isole Paracel cinesi e vietnamiti sono andati più volte vicini alla guerra. Allo stesso modo Manila soffre la presenza navale di Pechino intorno all’atollo di Scarborough. Mentre le Isole Spratly sono rivendicate da tutti gli stati che si affacciano su quelle acque. La corsa al controllo di questi estesi arcipelaghi è legata al consistente valore economico delle risorse energetiche rilevate sotto il fondale marino e alla protezione delle rotte utilizzate dalle petroliere provenienti dagli stretti malesi.
La posta in gioco nella ‘battaglia degli arcipelaghi’ ha anche una valenza militare poiché queste isole costituiscono la barriera naturale che chiude alla flotta cinese l’accesso all’Oceano Pacifico. Tokyo sta trasferendo parte delle sue forze aeree e terrestri sul cosiddetto ‘filo di perle’, le Isole Ryukyu che si allungano fino a Taiwan, creando un dispositivo incentrato sulle basi di Okinawa e che, in caso di escalation, potrebbe saldarsi a sud con le forze di Taiwan e a nord con quelle di Seoul.
Un asse sostenuto, con qualche ambiguità, da Washington. Sul piano militare il supporto statunitense agli alleati è evidenziato dalla rete di basi che copre Corea, Giappone, Guam, Australia e Singapore e dallo schieramento nel Pacifico del 60% delle forze della US Navy. In termini politici, però, il rifiuto della Casa Bianca di alzare i toni con la Cina e di assumere una posizione circa la sovranità sugli arcipelaghi contesi suscita perplessità e diffidenza tra i partner. Come in Europa e nel Golfo Persico, anche in Asia l’amministrazione Obama sprona gli alleati ad assumersi maggiori responsabilità in campo militare. Impiegando in modo limitato il proprio deterrente, Washington induce gli alleati asiatici a gonfiare le spese militari per acquisire armi hi-tech in buona parte ‘made in USA’ con contratti che aiutano i colossi dell’industria della difesa a compensare i tagli al bilancio del Pentagono. Il Giappone ha annunciato un aumento del budget del 5% tra il 2014 e il 2019, con lo stanziamento di 175 miliardi di euro per acquisire nuovi mezzi militari per poter disporre di una flotta d’altura composta da 54 navi di superficie e 22 sottomarini. Tokyo e Seoul si dotano di navi, droni, cacciabombardieri F-35 e sistemi di difesa contro i missili balistici (con un occhio anche alla minaccia nordcoreana) e stanno costruendo piccole portaerei da 25-30.000 tonnellate (la metà della cinese Liaoning), simili per dimensioni e caratteristiche all’italiana Cavour. Il Vietnam ha acquistato in Olanda e Russia otto corvette e sei moderni sottomarini, i cui equipaggi vengono addestrati dalla Marina indiana. Singapore, che dispone di sei sottomarini svedesi, ne ha ordinati due nuovi in Germania e ha prenotato sei fregate in Francia. Intanto nella base di Changi, in grado di accogliere una portaerei, verrà basata una squadra dell’US Navy. La Malaysia si è rivolta a Parigi per acquistare due sottomarini e sei corvette ‘stealth’, mentre le Filippine stanno costruendo una nuova base sull’isola di Palawan e hanno acquistato due cutter di seconda mano appartenuti alla USCoast Guard e sei moderne corvette in Corea del Sud.
Nel complesso, la corsa al riarmo, sopratutto di carattere navale, in atto in Asia orientale sembra destinata a protarsi a lungo e potrebbe accentuarsi o subire brusche accelerazioni se le tensioni dovessero sfociare in scontri a fuoco.