CALLAS, Maria
CALLAS, Maria (Sophie Cecelia Anna Maria Kalogeropoulos)
Nacque a New York il 2 dicembre 1923 da Georgios (George) Kalogeropoulos, farmacista di scarse ambizioni, e da Evangelia (Litsa) Dimitriadou, donna volitiva e vanagloriosa col sogno di una carriera teatrale ostacolato dalla famiglia altolocata. Dopo il matrimonio (1916) i due sposi si erano stabiliti a Meligala, nel Peloponneso. Nel 1917 era nata Jakinthy, detta Tsaky (Jacquie); nel 1919 Vassilios, morto di meningite a soli tre anni. L’annuncio della terza gravidanza, nella primavera 1923, aveva fatto sorgere improvvisamente in Georgios l’idea di cercar fortuna in America (ma in seguito la moglie lo accusò di essere fuggito perché aveva messo incinta la figlia del sindaco). Erano quindi giunti a New York il 3 agosto e si erano sistemati nel quartiere greco di Astoria (Queens), semplificando il nome di famiglia in Kalos.
Sophie Cecelia nacque al Flower Hospital di Manhattan (così all’anagrafe newyorkese, benché Litsa diffuse come data del parto il 4 dicembre, giorno poi sempre festeggiato come compleanno); i nomi di Anna e Maria vennero aggiunti al momento del tardivo battesimo (26 febbraio 1926) e Mary Kalos divenne il nome d’uso comune per la bambina.
La piccola venne inizialmente rifiutata dalla madre, che attendeva la nascita di un secondo Vassilios. Le continue insoddisfazioni della donna segnarono negativamente il clima familiare, marcato da ripetute scenate al marito e assurde proibizioni alle figlie. Il terribile investimento stradale che nel 1928 procurò a Mary un coma di 22 giorni parve influire durevolmente sull’indole della piccola, che divenne umbratile e ostinata. Nel 1929 si aggiunsero le problematiche economiche: George vendette la farmacia e s’improvvisò commesso viaggiatore, moltiplicando le sue assenze dalla nuova casa nella 192ª Strada di Manhattan.
Le due bambine trovarono sollievo psicologico nella musica: le lezioni su una pianola con una vicina italiana, i rudimenti del canto con un vicino svedese, l’ascolto della radio con le dirette operistiche dal Metropolitan di New York il sabato pomeriggio. Sicura del talento in erba, la madre si riavvicinò emotivamente a Mary e la spinse a partecipare a vari concorsi canori per dilettanti; fra le registrazioni superstiti, c’è chi ha preteso di identificare in lei la bambina di nome Nina Foresti che nel 1935 intona con voce incerta «Un bel dì vedremo» (Madama Butterfly) nel programma radiofonico Major Bowes’ amateur hour.
Mary si lasciò dunque contagiare dalla madre e il canto divenne per lei una valvola di sfogo. Alla festa per il graduation day (licenza scolastica di medio percorso) si esibì in canzoni di Gilbert & Sullivan e nell’aria «Play, gypsies, dance, gypsies!» dall’operetta La contessa Maritza di Emmerich Kálmán (28 gennaio 1937).
Nel febbraio 1937 Litsa decise di abbandonare il marito e rientrare in patria con Mary (Tsaky le aveva precedute di un paio di mesi). La convivenza con la famiglia d’origine era difficile e sterile, per cui la donna decise di stabilirsi nella capitale, dove prosperavano il Conservatorio di Atene (Odeìon athinòn), di tradizione ottocentesca, e il Conservatorio nazionale (Ethnikon odeìon), di recente fondazione. Rifiutata dal primo, l’aspirante cantante s’iscrisse all’altro col nome di Marianna Kalogeropoulou (settembre 1937), spacciandosi per sedicenne al fine di eludere il limite d’età previsto.
Affidata alle cure di Maria Trivella (che le insegnava canto e lingua francese) e di Hevi Pana (per il pianoforte), sfoderò subito instancabile determinazione, dedicando allo studio ogni ora della giornata. Nella foga di una vita in cui solo il canto trovava posto, mangiava disordinatamente e cominciava a ingrassare. Per sopperire all’estrema indigenza familiare (George non faceva arrivare dall’America l’assegno promesso), Litsa indusse Tsaky a diventare l’amante del figlio d’un facoltoso armatore, che risollevò le sorti delle tre donne, fra l’altro permettendo a Marianna di assistere al suo primo spettacolo operistico in teatro: una Traviata ad Atene (1938).
Nelle varie esibizioni scolastiche, la giovane affrontò l’aria della protagonista nella Semiramide (Rossini) e il duetto con Adalgisa dalla Norma (Bellini), segno d’un interesse precoce per il belcanto italiano; ma l’insegnante la spingeva di preferenza verso parti più ‘pesanti’: debuttò in scena, appena quindicenne, in Cavalleria rusticana (Mascagni) al teatro Olýmpia di Atene il 2 aprile 1939 (altre date diffuse nelle comuni biografie sono errate, come molte del periodo greco, finalmente ristabilite dalle ricerche di Marsan, 1983). Dopo i saggi di fine anno il critico Ioannis Psaroudas scrisse: «La signorina Marianna Kalogeropoulou ha una delle più belle voci per ogni genere di canto. Sono certo che con lo studio e i consigli della sua insegnante otterrà l’omogeneità assoluta che talvolta le manca» (Eleftherion Vima, 31 maggio 1939), evidenziando così da subito quella discrepanza di registri vocali che le verrà sempre imputata.
L’ascoltò il basso greco Nicola Moscona e l’indirizzò a un’insegnante dell’altro Conservatorio, la spagnola Elvira de Hidalgo (1892-1980), che le diede lezioni in segreto parallelamente a quelle ufficiali, divenendo poi sua confidente privilegiata negli anni futuri. Soprano leggero reduce da una splendida carriera internazionale, Hidalgo s’impuntò contro il volere del direttore della scuola per averla alfine come allieva ufficiale: dal novembre 1939 Marianna passò dunque al Conservatorio di Atene, dove fu sottoposta a un lungo training di arte scenica per vincere la goffaggine e venne nutrita ad arie settecentesche per schiarire il colore della voce e conquistare il settore sopracuto: «Il mio timbro era scuro, nerastro (a pensarlo mi viene in mente un olio grasso) e complicato dai limiti nel registro superiore», raccontò a Eugenio Gara vent’anni dopo (R. Hauert - E. Gara, I grandi interpreti: M. C., Milano 1957, p. 12). Il repertorio in cui la nuova insegnante la faceva esibire in pubblico era comunque il più vario. Suor Angelica (Puccini) eseguita in forma scenica come saggio scolastico (16 giugno 1940) le procurò un contratto di 12 mesi quale corista al neoeretto Teatro nazionale dell’Opera (Ethniki lyriki skini).
Il 28 ottobre 1940 l’Italia dichiarò guerra alla Grecia; Marianna, cittadina americana, faceva da interprete per i soldati britannici giunti in difesa. L’insperata esibizione come seconda donna in qualche replica dell’operetta Boccaccio di Franz von Suppé in lingua greca (gennaio 1941), sua prima recita professionale, fu causa di malignità e dileggio da parte dei colleghi coristi, che si fecero beffe della sua obesità e dell’accento americano. Col passaporto statunitense avrebbe potuto lasciare il paese, ma non se la sentì di abbandonare madre e sorella.
Il 27 aprile 1941 i carri armati nazisti entrarono in Atene e il paese venne ridotto in miseria. Le due sorelle diedero asilo a militari inglesi fuggiaschi, ma poi per sopravvivere si concedettero ai soldati tedeschi, mentre la madre divenne amante di un colonnello italiano. Marianna studiò di nascosto la parte di Konstanze nel Ratto dal serraglio (Mozart), sperando di poter subentrare alla titolare nella stagione organizzata dai tedeschi al Teatro nazionale; l’ingaggio, a sostituire la protagonista indisposta, giunse invece per Tosca di Puccini (27 agosto 1942, teatro all’aperto in piazza Klafthmonos), lodatissima dal quotidiano tedesco d’occupazione (Deutsche Nachrichten in Griechenland, 20 luglio 1942). «Vissi d’arte» fu da allora il cavallo di battaglia nelle ambitissime cene-concerto organizzate dagli italiani, spesso su invito del maggiore Attilio Di Stasio, suo primo devoto fan. Marianna rinunciò tuttavia all’offerta di una borsa di studio per perfezionarsi a Milano, ritenendola una concessione troppo alta al nemico.
Conclusosi il contratto da corista, si esibì in nuovi concerti grazie alle spinte dell’insegnante (che in forza della sua passata carriera internazionale intratteneva buoni rapporti con le truppe straniere), venendone remunerata con generi alimentari: ed ecco una serata a Salonicco per celebrare l’anno rossiniano (ottobre 1942), lo Stabat Mater di Pergolesi all’Istituto di cultura italiana in Atene (22 aprile 1943) e due serate liederistiche ancora a Salonicco con Schubert e Brahms, e l’aggiunta di arie dall’Otello rossiniano – una di Desdemona, una del Moro! – «cantate con innumerevoli fioriture» (Deutsche Nachrichten in Griechenland, 2-3 settembre 1943). Quale formazione più completa per un’apprendista di canto?
Marianna aveva ormai vent’anni: dopo varie avventure avviò una relazione col maturo medico Ilias Papatestas, prima fra le figure paterne e protettive che andò cercando lungo tutta la sua esistenza. Dopo l’8 settembre 1943 la Grecia restava in mano ai soli tedeschi, che fecero razzia delle derrate alimentari trasferendole in Germania. Per sopravvivere fu giocoforza affidarsi a loro. Venne coinvolta nella produzione di Tiefland di Eugen d’Albert (22 aprile 1944), l’opera preferita da Hitler, imposta dal comando d’occupazione al direttore del teatro Olýmpia, considerato troppo indulgente verso il repertorio italiano. Regista era il viennese Renato Mordo, dal quale la cantante dichiarò di aver imparato a muoversi in scena; co-protagonista il baritono Evangelos Mangliveras, noto tombeur de femmes (a dispetto di moglie e figli), cui Marianna affidò corpo e voce rinnegando l’insegnamento tecnico di Hidalgo e rifiutando nel contempo le offerte di matrimonio di un industriale tessile greco (che foraggiava la famiglia di viveri) e di un aitante soldato tedesco (supportato da Litsa). Per il soprano fu un trionfo personale, la cui eco fece risuonare il suo nome oltre i confini nazionali, presentata come «la prima e più amata cantante d’opera oggi in Grecia» (Wiener Illustrierte, 21 giugno 1944). Si ipotizzò una tournée a Vienna: ma le sorti del Terzo Reich erano ormai pericolanti e il progetto sfumò.
Gli ultimi, tesissimi mesi di occupazione registrarono una serie di verbali disciplinari che videro l'artista coinvolta in continui e violenti alterchi con le colleghe del teatro ateniese. C’era in palio, fra l’altro, la parte della protagonista nel primo allestimento greco del Fidelio di Beethoven, all’Odeìon di Erode Attico e Marianna riuscì a strapparla alla titolare; fu l’ultima – e trionfale – sua prestazione professionale per il regime nazista (14 agosto 1944, in greco), che le sarebbe poi costata non poche critiche al rientro in Grecia nel 1957.
Il 12 ottobre 1944 le truppe tedesche abbandonarono Atene. Saltò la stagione operistica invernale (previste per lei Fedora di Giordano e L’olandese volante di Wagner) e scoppiò la guerra civile, fra caccia ai collaborazionisti e tentativi di rivoluzione comunista. Marianna, aggredita dagli stessi colleghi del teatro, rispolverò le sue competenze linguistiche e si mise al servizio del Quartier generale britannico, arrotondando con qualche concerto per i liberatori che l’applaudivano ora sotto il nome di Mary Kallas.
L’arrivo inatteso di una lettera del padre, che dopo otto anni di silenzio la invitava a New York consigliandole di usufruire dei trasporti organizzati dal governo statunitense per il rimpatrio degli americani, la convinse a imbarcarsi il 14 settembre 1945, fra l’indifferenza di madre e sorella.
Il sogno americano svanì presto. L’audizione al teatro Metropolitan (3 dicembre) non portò a nulla, a dispetto del rapporto entusiastico («Exceptional voice») dell’assistente che l’ascoltò. La United States Opera Company progettata dall’avvocato Eddie Bagarozy – marito della cantante Louise Caselotti, improvvisatosi suo amante –, che aveva attirato in America uno splendido contingente di artisti europei in cerca di contratti, tracollò finanziariamente alla vigilia del debutto (Mary avrebbe dovuto cantare Turandot e Aida a Chicago).
L’unica fonte di reddito proveniva da un impiego come «cameriera del bel canto» al ristorante Asti nel Greenwich Village, dove la 'bagna cauda' veniva servita gorgheggiando. Lì il basso Nicola Rossi Lemeni la sentì intonare «Suicidio!» dalla Gioconda e le segnalò che l’anziano tenore Giovanni Zenatello, fondatore della stagione estiva all’Arena di Verona, era a New York per cercare la protagonista dell’opera di Ponchielli. Si presentò all’audizione scortata da Bagarozy, il quale, ottenuta la scrittura per Verona, la legò a sé con un contratto in esclusiva che gli riconosceva il 10% di ogni futuro provento.
Attraversato nuovamente l’Atlantico nel giugno 1947 con Caselotti, anch’essa in cerca di scritture, Mary venne derubata delle valige al porto di Napoli e proseguì il viaggio come poté. La prima sera a Verona (30 giugno), Rossi Lemeni la presentò al direttore d’orchestra Tullio Serafin, il decano fra gli specialisti dell’opera attivi in Italia, ormai quasi settantenne; al ristorante li raggiunse casualmente un industriale in laterizi appassionato di canto lirico, che parlava sempre in dialetto: Giovanni Battista Meneghini (Ronco all’Adige, 19 agosto 1895 - Desenzano del Garda, 21 gennaio 1981). A dispetto dei 28 anni d’età che li separavano, il 24 luglio erano già pubblicamente amanti. Nell’arco di pochi minuti, Mary aveva dunque conosciuto i due uomini che più avrebbero contribuito ad avviare e sostenere la sua carriera teatrale: fino alle soglie del 1960, l’uno le avrebbe insegnato i segreti dell’interpretazione operistica, addestrandola nota per nota in Verdi come in Wagner, in Rossini come in Puccini; l’altro l’avrebbe introdotta in un mondo che aveva sempre visto da lontano, fatto di agi, incontri importanti, successi.
Il 2 agosto 1947 viene considerato il debutto ufficiale di Maria Kallas (questo il nome d’arte assunto, presto convertito in Callas): aveva 23 anni e in quella Gioconda areniana che la vide protagonista fu attorniata da colleghi di primo livello (Elena Nicolai, Richard Tucker, Carlo Tagliabue, Nicola Rossi Lemeni, Tullio Serafin). Secondo il giornalista che l’intervistò durante le prove, esibiva già un «quasi perfetto italiano» (Il Gazzettino, 22 luglio 1947), che si tinse ben presto di un accento veneto poi mantenuto per tutta la vita. Nessuno gridò al miracolo per quella interpretazione, ma già alla sua seconda prova italiana – Serafin la portò con sé per il Tristano e Isotta inaugurale alla Fenice di Venezia, rigorosamente in italiano – un orecchio attento come quello di Giuseppe Pugliese la salutò «artista d’una sensibilità musicale non comune, dal gioco scenico felicissimo e sicuro» (Il Gazzettino, 31 dicembre 1947).
Da quel momento Meneghini s’incaricò di gestire il lato commerciale e organizzativo della sua carriera: poca diplomazia (il che divenne anche motivo di antipatie nell’ambiente) e gestione del ‘prodotto’ Callas con mentalità affaristica. Ancora sconosciuta fino a poche settimane prima, la cantante costellò già l’anno 1948 d’impegni importanti in vari teatri del Nord d’Italia (11 allestimenti in soli 12 mesi). Le opere affrontate furono tutte da soprano drammatico, con in testa le parti ‘spaccagola’: tante Turandot, tante Aide e Valchirie (ma rifiutò Cardillac di Hindemith alla Biennale di Venezia). Giorgio Graziosi avvertiva già i segni di una rivoluzione interpretativa: «Preparatasi scenicamente con cura quasi meticolosa, sì da fornire una raffigurazione volutamente stilizzata della principessa cinese. Mimica, gesto, passo e perfino l’atteggiamento delle mani ci parvero studiati in funzione di tale prezioso e intelligente assunto. Un risultato tanto più lodevole in quanto la preoccupazione di creare il personaggio è molto rara tra i nostri cantanti» (L’Avanti!, 6 luglio 1948). Ma stava ormai per compiersi anche la rivoluzione vocale.
Il 1° ottobre 1948 Francesco Siciliani assunse a Firenze l’incarico di direttore artistico; a metà mese Serafin gli fece ascoltare Callas in parti drammatiche ma, appreso degli studi con Elvira de Hidalgo, Siciliani azzardò la richiesta di sentirla in qualche pagina più leggera: con le lacrime agli occhi, l’espertissimo organizzatore teatrale sentenziò allora di avere miracolosamente davanti a sé l’antico «soprano drammatico di coloratura», scuro e corposo nella voce ma capace di un canto agile ed espressivo. In pochi giorni rivoluzionò il cartellone già pronto e predispose il debutto immediato di Maria Callas in Norma con Serafin (Firenze, 30 novembre 1948). Col senno di poi, si disse che Callas aveva scritto in quell’interpretazione la più bella pagina musicologica sulla prassi esecutiva dell’opera italiana.
Quattro settimane dopo, Serafin raddoppiò la posta e le chiese l’impossibile: studiare I Puritani durante le repliche della Valchiria per sostituire una collega ammalata (che sarebbe come chiedere a un lottatore di sumo d’improvvisarsi campione di salto in alto fra un combattimento e l’altro). Alla Fenice, l’ultima Brunilde fu il 16 gennaio, la prima Elvira il 19. Commentò Mario Nordio: «Molti avranno fatto un balzo leggendo il nome della magnifica Brunilde, Isotta e Turandot quale interprete di Elvira. Iersera tutti l’hanno sentita e anche i più scettici – pur riconoscendo fin dai primi accenti che non era il classico ‘soprano leggero’ della tradizione – hanno dovuto convenire che il ‘miracolo’ Maria Callas l’aveva compiuto» (Il Gazzettino - Sera, 20-21 gennaio 1949).
Il miracolo di natura tecnica, frutto di un’imbattibile disciplina artistica, comportava un miracolo di natura stilistica, nell’inconsapevole recupero di quella vocalità perduta che tanto aveva commosso l’esperto Siciliani. Le grandi primedonne del belcanto ottocentesco (Isabella Colbran, Maria Malibran, Giuditta Pasta), che si suole considerare emblemi del sopranismo protoromantico, avevano in realtà una classica impostazione da contralto, tipologia canora oggi trascurata che garantiva alla cantante la possibilità di esprimersi con due voci distinte: una grave, scura, possente, virileggiante, e una acuta, sottile, cristallina, che diremmo di ‘soprano leggero’. Ciò andava a discapito dell’uniformità timbrica lungo l’intera gamma vocale, cosa che Malibran ostentava quale elemento di seducente attrattiva, mentre ai tempi di Callas veniva giudicato un limite tecnico e un errore stilistico, più volte rimproveratole. Letteralmente inaudito per un ascoltatore come Nordio era dunque che una voce possente e di grande caratura drammatica potesse piegarsi alle leggerezze e alle agilità che solo vocine di limitato spessore sembrava potessero affrontare. La riunificazione delle due tipologie canore in un unico ‘soprano drammatico di agilità’ fu, sul piano storico, il più importante esito dell’arte callasiana, capace di riattribuire un peso espressivo a parti drammatico-vocali che la tradizione d’ascendenza liberty aveva banalizzato in fatue evoluzioni canore. A ciò si aggiunse l’apporto interpretativo, anch’esso trascurato da una tradizione teatrale ormai stanca e ripetitiva, che Maria Callas contribuì a rivivificare in misura determinante, dimostrandosi presto attrice grandiosa.
Il 21 aprile 1949 giunse il matrimonio con Meneghini, da lei richiesto con insistenza per metter fine alle umiliazioni che le venivano dalla bigotta campagna veronese (i due risiedevano a Zevio), ma contro il volere dei familiari di lui, i quali brigarono in Curia per impedire le nozze fra un cattolico e una greco-ortodossa che vivevano nel peccato. Solo dopo che Meneghini ebbe minacciato di accontentarsi del matrimonio civile le autorità ecclesiastiche fecero giungere da Roma la dispensa necessaria all’unione interconfessionale, purché il tutto avvenisse in sordina: fu dunque una celebrazione serale nella sagrestia dei Filippini a Verona (chiesa dei Ss. Fermo e Rustico), senza invitati.
Immediata ma vana la ricerca di un figlio. Il viaggio di nozze coincise con una tournée in Sud America (Buenos Aires), di cui rimangono le prime, frammentarie testimonianze sonore (Turandot con Mario Del Monaco, Norma con Fedora Barbieri). Al rientro, ormai cittadina italiana, la cantante ottenne la carta di identità (6 settembre 1949) come Sofia Cecilia Kalos, «altezza m. 1,73», «occhi castani», «capelli castani», «colorito bruno»; ma per dieci anni il suo nuovo nome d’arte sarebbe stato Maria Meneghini Callas.
In settembre ebbe modo di ascoltare la propria voce registrata, a Perugia durante l’intervallo dell’oratorio San Giovanni Battista di Stradella (la musica più antica che abbia mai cantato in pubblico). Poi in novembre registrò tre arie negli studi torinesi della RAI, pubblicate dalla Cetra nel maggio 1950 in tre dischi a 78 giri: si affiancarono – per lo stupore degli intenditori – Isotta, Elvira e Norma. George Lascelles, settimo conte di Harewood e cugino della futura regina Elisabetta II, la definì «l’interpretazione sopranile più emozionante che ci sia giunta in disco dall’Italia dalla fine della guerra» (Opera, aprile 1952); ma quei dischi di altissima qualità interpretativa rimasero invenduti, sopraffatti dai nuovi microsolco a lunga durata.
Il Nabucco napoletano del dicembre 1949 dà invece la prima testimonianza sonora di un’opera completa, proveniente da una registrazione amatoriale via radio su filo metallico. La parte di Abigaille racchiude le tre vette interpretative di Callas: esplosioni d’ira, dolcezze patetiche, agilità vorticose; ma non avrebbe cantato mai più quest’opera.
Nel 1950, col crescere della popolarità, cominciarono i dissensi verso quella voce indefinibile che tanti trovavano brutta e disomogenea. A Brescia (febbraio) venne ‘zittita’ dal loggione in Aida; a Roma (febbraio) Guido Pannain stigmatizzò la sua Norma e la sua Isotta dalle colonne del Tempo; a Milano (aprile), chiamata a sostituire Renata Tebaldi per qualche replica di Aida, passò inosservato il debutto alla Scala, né convinse il sovrintendente Antonio Ghiringhelli, che si rifiutò di scritturarla nel Console di Giancarlo Menotti, contro la richiesta dell’autore stesso. Ma ci fu anche chi cominciò a esaltarsi: il tenore Giacomo Lauri Volpi, che l’ascoltò dalla platea, appunta nel suo diario (26 febbraio 1950): «La Norma è divina! [...] Bisogna aver sentito Maria Callas per capire che Bellini ebbe ragione di affidare la parte ad una voce complessa. La voce, lo stile, il portamento, la forza di concentrazione e di espansione [...] raggiungono in questa donna un’efficacia non comune. [...] Nell’ultimo atto la voce implorante di Norma m’ha dato la gioia più pura dell’arte» (G. Lauri Volpi, A viso aperto, Milano 1953, p. 331).
Le tre tournées a Città del Messico (1950, 1951, 1952) le consentirono di rodare in tutta tranquillità le opere con cui era intenzionata a conquistare l’Italia: una dopo l’altra, affrontò Il trovatore, La traviata, Rigoletto, I Puritani, Lucia di Lammermoor, con esiti interessantissimi, tutti testimoniati da registrazioni più o meno precarie. Mentre facevano capolino Rossini e l’opera comica con una produzione fuori circuito (e mai retribuitale) del Turco in Italia al teatro Eliseo di Roma (ottobre 1950), Wagner usciva definitivamente dal suo carnet dopo il Parsifal alla radio italiana che incantò Pio XII (novembre 1950); ma le scelte vocali di Callas continuarono a procedere sul doppio binario: il soprano leggero e brillante (Fiorilla) accostato al soprano corposo e brunito (Kundry) ne sono l’ulteriore riprova. Il meglio sortiva quando le due vocalità opposte si combinavano nel medesimo personaggio, come nelle prime opere di Verdi. Arturo Toscanini, rientrato temporaneamente dall’America, la convocò nella casa milanese per sentirla cantare Macbeth (27 settembre 1950): aveva un progetto ambizioso, fra Milano e Busseto, che solo l’età avanzata impedì; ma era proprio quella la voce ‘ambigua’ che cercava.
Il 1951 fu un anno spartiacque. Sospinta da Siciliani, cominciava la lunga lista di recuperi operistici: a Firenze debuttò nei rari Vespri siciliani di Verdi (26 maggio), dove si produsse dal Fa diesis grave al Mi bemolle sovracuto, seguiti a ruota dalla prima esecuzione assoluta dell’Orfeo ed Euridice di Haydn (9 giugno), entrambe sotto la direzione di Erich Kleiber. La Cetra le offrì un contratto per la registrazione discografica di opere complete, avviando un interesse commerciale attorno alla sua voce che per un decennio la vide in prima linea, contribuendo non poco al successo mondiale del nuovo long-playing. In Brasile prese corpo il confronto diretto fra Callas e Tebaldi, che si alternarono in varie recite di Tosca e La traviata; il 14 settembre, per l’unica volta, si esibirono persino nello stesso concerto a Rio de Janeiro: la «voce d’angelo» (per dirla con Toscanini) dell’italiana venne palesemente preferita alla «gran vociaccia» (per dirla con Serafin) della greco-americana. Sempre nel 1951 la Scala modificò la tradizionale data d’inizio stagione (il 26 dicembre, vigente sin dal Settecento), inventandosi la nuova tradizione del ‘Sant’Ambrogio’ (7 dicembre), per favorire la vacanza natalizia della ricca borghesia che non voleva mancare all’appuntamento teatrale più mondano dell’anno; e fu l'occasione dei Vespri siciliani in cui la Callas cantò diretta da Victor de Sabata.
Per sei volte, dal 1951 al 1960, l’inaugurazione della Scala fu sua: non molte, in termini assoluti, ma sufficienti per forgiare nell’immaginario collettivo l’imperituro binomio Callas-Scala. Era accaduto che, dopo tanto tergiversare, Ghiringhelli fosse venuto a Canossa raggiungendola al Maggio musicale fiorentino durante I Vespri siciliani, per proporle un contratto assai interessante: l’inaugurazione scaligera con nuovi Vespri, dieci recite di Norma e la prima rappresentazione italiana del mozartiano Ratto dal serraglio. Maria lo aveva tenuto sulle spine, costringendolo a tornare in pellegrinaggio qualche settimana dopo a Verona; e lì aveva aggiunto la sua personale richiesta: cantare alla Scala anche La traviata. Ghiringhelli accettò sapendo di mentire: non avrebbe mai consentito che quella ragazzona vicina ai 90 chili interpretasse nel suo teatro l’eroina che muore di tisi.
Il 1952 fu forse l’anno artisticamente più alto nella carriera di Maria Callas, assolutamente padrona, come attestano le registrazioni dal vivo, di una tecnica completa e onnipotente: un’ultima recita dei Vespri alla Scala, poi i trionfali Puritani di Firenze per due sole recite che registrarono forme di delirio collettivo; Norma alla Scala fra gennaio e febbraio; un mirabile concerto radiofonico nella popolarissima serie del lunedì sera sponsorizzata da Martini & Rossi (18 febbraio), in cui allineò nell’arco di un’ora le quattro arie più difficili (e vocalmente più distanti) che aveva allora in gola: da Macbeth (cavatina), Lucia di Lammermoor (scena della pazzia), Nabucco (aria di Abigaille) e Lakmé (aria delle campanelle); poi La traviata a Catania (marzo); il suddetto Ratto dal serraglio alla Scala (aprile); l’Armida di Rossini al Maggio musicale fiorentino (aprile-maggio), ulteriore intuizione di Siciliani additata ancor oggi come l’inizio della moderna 'Rossini-Renaissance' (scrisse Fedele d’Amico: «Scagliò su e giù per tutta la sera le sue volatine, ora furibonde ora tenere, senza lasciare inerte una nota sola»: Vie nuove, 11 maggio 1952); i Puritani a Roma con Lauri Volpi (maggio); la terza e ultima tournée messicana col debutto scenico di Rigoletto e Lucia (scena della pazzia bissata!), accanto a Traviata, Puritani e Tosca, tutte col tenore Giuseppe Di Stefano (maggio-luglio); la ripresa della Gioconda in Arena (luglio), con successiva registrazione per la Cetra (settembre), sua prima e fra le migliori opere complete in disco; ci fu poi il debutto europeo fuori d’Italia, al Covent Garden di Londra, in una Norma che vide al suo fianco la giovane Joan Sutherland come comprimaria (novembre); infine l’apertura della nuova stagione scaligera, con quel Macbeth all’epoca fuori repertorio che Toscanini aveva sognato e che De Sabata realizzò (dicembre), seguito da qualche recita della Gioconda. Questa la fittissima agenda callasiana tipica di quegli anni, con minimi periodi di pausa fra un impegno e l’altro. Mancò invero La traviata alla Scala, per i noti motivi; ma Meneghini non si fece intimidire e, contratto alla mano, pretese e ottenne che il pagamento avvenisse ugualmente.
L’evento catalizzante del 1953 fu di certo la Medea di Cherubini, dapprima a Firenze (maggio), poi alla Scala (dicembre), con la direzione del giovane Leonard Bernstein, ma non in serata inaugurale, riservata per l’ultima volta a Renata Tebaldi nella più popolare Wally di Catalani; dopo di che l’italiana dovette stabilire altrove il suo regno (al S. Carlo di Napoli e soprattutto al Metropolitan di New York), lasciando Callas sovrana incontrastata della Scala. Furono in particolare le opere ‘aristocratiche’ prescelte anno dopo anno per quel teatro a renderla tale: Alceste di Gluck alternata alle recite dell’allora desueto Don Carlo di Verdi (aprile 1954), La vestale di Spontini (dicembre 1954), una ripresa del Turco in Italia (aprile 1955), Anna Bolena di Donizetti (aprile 1957), Ifigenia in Tauride di Gluck (giugno 1957), Il pirata di Bellini (maggio 1958). Ma il pubblico si appassionava obiettivamente assai più alle opere del grande repertorio, che pure «la Divina» (come venne sempre più spesso chiamata) non disdegnò: Il trovatore (febbraio 1953), Lucia di Lammermoor con Di Stefano, direttore Karajan (gennaio 1954), Andrea Chénier con Del Monaco (gennaio 1955), La sonnambula diretta da Bernstein (marzo 1955), La traviata con Di Stefano, direttore Giulini (maggio 1955), Norma con Del Monaco (dicembre 1955), Il barbiere di Siviglia diretto da Giulini (febbraio 1956), Fedora con Corelli (maggio 1956), Un ballo in maschera con Di Stefano, direttore Gavazzeni (dicembre 1957).
Ad accrescere l’aura di fascinoso mistero attorno all’artista era giunta un’improvvisa ridelineazione della donna. Chi poté seguire le sue interpretazioni di Medea succedutesi in pochi mesi (Firenze, Milano, Venezia, Roma) notò in lei un progressivo dimagrimento corporeo (circa 30 chili!), accompagnato da una maggiore vitalità nel movimento scenico e da un impoverimento timbrico nella voce. Non senza una punta di risentimento snobistico, i critici romani stroncarono quel ‘gran miracolo’ giunto alla capitale solo in quarta battuta: «Maria Meneghini Callas si agita troppo. Quella non è Medea, la Medea classica. La quale è un’altra, tutta chiusa nel suo dolore. [...] Vocalmente poi la Callas dà in asprezze metalliche che distolgono dalla commozione. I trapassi, specialmente dal medio all’acuto, sono bruschi; i suoni gravi, sordi; la pronunzia è offuscata». Così Guido Pannain sul Tempo (23 gennaio 1955), suscitando l’indignata reazione d’intellettuali come Mario Praz (Il Tempo, 3 febbraio 1955) o Ettore Paratore (Idea, febbraio 1955), che scesero in campo per difendere le intuizioni interpretative della Callas. L’Opera, insomma, usciva dai teatri ed entrava nelle discussioni letterarie come da oltre un secolo non avveniva; attraverso la Callas cominciarono a interessarsi al melodramma anche coloro che – specie fra le generazioni più giovani – fino al giorno prima l’avevano ritenuto uno spettacolo disdicevolmente popolare.
In questo clima, a completarne la trasformazione sociale era approdato all’Opera un regista aristocratico non solo d’idee ma anche di lignaggio: Luchino Visconti. Le sue istanze innovative, tese a sottrarre lo spettacolo lirico a una tradizione concentrata esclusivamente sull’esito vocale, si sposavano perfettamente con le aspirazioni della ‘nuova’ Callas, ulteriormente scesa di peso e decisa a realizzare anche sul piano visivo il suo sovvertimento interpretativo. La vestale, La sonnambula, La traviata (finalmente ammissibile agli occhi di Ghiringhelli), Anna Bolena e Ifigenia in Tauride sono i cinque irripetibili frutti di tale collaborazione – ancora inedita in ambito operistico – fra un regista e la ‘sua’ interprete. Ma se l’occhio godeva della perfezione, l’orecchio ne risentiva per l’asprezza sempre più evidente degli acuti e una perdita di voluminosità sonora contrastata con pericolose emissioni forzate. Quel dimagrimento di cui tanto si parlò (fosse dovuto a un volontario ingerimento di tenia, a un intervento sulla tiroide o più semplicemente a una dieta ferrea) e che contribuì non poco a demolire il comune apprezzamento per le donne ‘in carne’, diffondendo un nuovo gusto per il corpo slanciato; quella trasformazione radicale nell’abbigliamento e nei gesti (ispirata alla Audrey Hepburn di Vacanze romane) che catapultò ‘la Divina’ sui rotocalchi popolari, migliorò la donna anche psicologicamente ma penalizzò irreversibilmente l’artista.
La casa discografica angloamericana Columbia era entrata nel 1953 a gamba tesa contro la Cetra (che riuscì a produrre con Callas ancora solo una Traviata), legando a sé l’artista con contratti reiterati, fino al 1964. Le opere complete venivano registrate d’estate con i complessi della Scala, cercando di coprire nel più breve tempo il grande repertorio italiano in concorrenza con l’inglese Decca, che aveva invece sotto contratto la sempre più ‘rivale’ Tebaldi (specialista del tardo Ottocento), e con la statunitense RCA, che s’avvaleva dei divi del Metropolitan. In poche settimane Callas si trovò dunque a registrare I Puritani, Cavalleria rusticana e Tosca nel 1953, Norma, Pagliacci, La forza del destino e Il turco in Italia nel 1954, Madama Butterfly, Aida e Rigoletto nel 1955: la multinazionale, cui non interessavano le poco commerciali Medea, Vestale, Alceste, spinse l’artista verso titoli più ‘popolari’, anche opere che non cantò mai in teatro (Manon Lescaut, La bohème), affiancate da numerosi recital di arie staccate. Ma in seguito all’insorgere dei problemi vocali, il ritmo delle registrazioni rallentò bruscamente (dal 1957), inibendo la fissazione in disco delle sue più originali interpretazioni, sempre rimandate.
L’internazionalizzazione discografica coincise con l’internazionalizzazione della carriera teatrale. Dopo il 1953 sparirono quasi del tutto i teatri minori italiani dall’agenda callasiana, mentre si moltiplicarono le esibizioni inglesi e soprattutto americane. Norma è l’opera con cui più spesso amò presentarsi a un nuovo pubblico. Ad aprirle le porte degli Stati Uniti non fu la città natale, bensì Chicago (1954-55). Al termine dell’ultima recita di Madama Butterfly (17 novembre 1955), Bagarozy si rifece vivo per reclamare i suoi antichi diritti contrattuali, con la minaccia di divulgare al mondo le lettere d’amore ricevute nel 1947, quando Callas stava già con Meneghini; la foto in cui Maria, in costume da Cio-Cio-San, insegue l’ufficiale giudiziario per i corridoi del teatro col volto da tigre inferocita fece il giro del mondo, alimentando l’immagine della primadonna terribile e volitiva (la causa si chiuse in forma privata nel 1958, con un irrisorio pagamento forfetario). Il Metropolitan di New York accolse la Callas solo nel 1956, dopo lunghe trattative imputate pubblicamente alle inarrivabili pretese dell’artista (ma chiedeva solo di non debuttare con un vecchio allestimento e pretendeva una quantità di prove adeguate: due condizioni estranee alla vita di quel teatro).
Fra il 1954 e il 1958 fu comunque soprattutto la regina di Milano, divenendo un simbolo del boom economico nella lussuosa villa di via Buonarroti fatta costruire da Meneghini (1955). Suoi furono i salotti più ambiti, quello di Arnoldo Mondadori e quello di Wally Toscanini, dei Belgioioso e dei Castelbarco, dove – scesa ormai alla soglia dei 57 chili – sfoggiava gli abiti della stilista Biki, atteggiandosi a indossatrice per le riviste patinate (pur pesantemente miope, sono ben poche le foto che la ritraggono con gli occhiali). Per quanti successi ottenesse fuori dal teatro, non mancava tuttavia mai chi ne criticasse le prestazioni alla Scala, con frequenza crescente mano a mano che la popolarità aumentava. La critica sparò a zero sulla sua Rosina nel Barbiere di Siviglia, e anche Fedora venne sentita inadatta alla sua vocalità. Persino la tanto osannata Traviata con Visconti fu tacciata d’inelegante realismo. Anche fra i colleghi italiani, sempre più invidiosi per le tante attenzioni riservate a una straniera, non mancarono i mugugni, alimentati ulteriormente dal conferimento a Callas del titolo di Commendatore della Repubblica (1957).
Alle invidie si aggiunsero presto i malintesi, scambiati per nevrotici capricci: la mancata quinta recita della Sonnambula a Edimburgo con la Scala in tournée (3 settembre 1957) per poter partecipare a una festa veneziana (ma così era stato concordato con Ghiringhelli); l’annullamento di un impegno all’Opera di San Francisco per poter registrare Medea a Milano (settembre 1957); l’interruzione della Norma romana al primo intervallo per afonia (2 gennaio 1958), presente in sala il presidente Giovanni Gronchi che l’aveva da poco onorificata e con mezza Europa incollata alla radio. La stampa internazionale si scagliò contro la diva bizzosa e in Italia vi furono ben cinque interrogazioni parlamentari per denunciare l’offesa al capo dello Stato e l’onta dinanzi al mondo (la causa legale si chiuse nel 1971 con la vittoria di Meneghini contro il teatro dell’Opera per inadempienza contrattuale: Callas si era infatti resa disponibile a cantare le successive quattro recite in programma, ma la sovrintendenza aveva ricusato).
Ora che l’unica sua arma – la voce – le veniva meno, cominciava dunque il linciaggio morale. Il governo vietò alla Scala di farsi rappresentare in tournée da Callas (a Bruxelles, Tosca fu Tebaldi) e Ghiringhelli, per ossequio a chi gestiva le sovvenzioni teatrali, fece ancor di più, annullando tutti i progetti con Callas per la successiva stagione 1958-59 (I Puritani, Francesca da Rimini, Mosè). Ma i contratti di quella primavera 1958 erano già sottoscritti. Le prove per la ripresa di Anna Bolena trascorsero così in un teatro di gelo (aprile); le recite furono però trionfali, tanto che nel finale del successivo Pirata belliniano (maggio) Maria poté prendersi la rivincita: avvalendosi d’una coincidenza lessicale presente nel libretto, accusò pubblicamente Ghiringhelli coll’indicarne in modo plateale «il palco funesto» e il loggione la salutò all’ultima recita sventolando fazzoletti bianchi, come per un addio.
Anche nel privato i coniugi Meneghini vennero presi di mira da alcuni facinorosi con gesti oltraggiosi, alimentati dal risentimento della stessa madre di lei che, a distanza, lamentava pubblicamente il divario fra la sua precaria esistenza e il lusso in cui prosperava la figlia. Per Callas non rimase dunque che rivolgersi totalmente all’estero, mentre dai microfoni della BBC annunciava (settembre 1958) di voler abbandonare presto il canto, sentendo che stava sprecando la sua ancor giovane vita per mero amore di celebrità.
La stagione 1958-59, programmata da Meneghini in quattro e quattr’otto a colmare l’inatteso vuoto scaligero, fu dunque in gran parte americana e limitata per forza di cose a una lunga, defatigante tournée di concerti assai poco soddisfacente per l’artista (ma assai redditizia per il marito agente), che finì per minare il rapporto fra i coniugi.
Il 17 giugno 1959, al termine d’una trionfale Medea londinese, i Meneghini e tutto il pubblico che conta confluirono al party che il cinquantatreenne armatore greco Aristoteles Onassis (forse, in quel momento, l’uomo più ricco del mondo) aveva organizzato in onore della diva; Maria ballò con lui fino a notte fonda. I due si erano già conosciuti il 3 settembre 1957 alla suddetta festa veneziana organizzata dalla velenosissima star del gossip Elsa Maxwell, all’epoca palesemente innamorata di Maria. Onassis, all’apice del successo economico, amava collezionare celebrità fra le sue amicizie, spesso per tornaconto commerciale, e negli anni Venti aveva già avuto una primadonna come amante: il soprano Claudia Muzio, uno dei modelli canori della stessa Callas. Ma detestava l’opera, cosa che – pare – aveva indotto il ritardo con cui si avvicinava ora alla diva del giorno. Come da copione, al termine della festa Onassis invitò i Meneghini a una crociera sullo splendido yacht Christina: i due accettarono di malavoglia e solo perché il medico aveva consigliato a lei aria di mare.
L’imbarco avviene a Montecarlo il 23 luglio 1959. Con Onassis viaggiarono i due bambini e la moglie Athinà, trentenne (da tre anni notoriamente legata a un giovane brasiliano); ospiti, il medico personale con famiglia, sir Winston Churchill con famiglia e i Meneghini. Elsa Maxwell, accorsa in preda a gelosia, dovette accontentarsi di presenziare alla cena di commiato, durante la quale instillò il dubbio del sottile progetto di Onassis in Athinà, la quale però non attendeva altro che un pretesto per ottenere il divorzio dal marito. Meneghini, tagliato fuori dalle conversazioni ora in greco ora in inglese, non si rese conto di quanto stava accadendo attorno a lui, fino a quando Athinà scoprì i due nuovi amanti in flagrante.
Onassis entrò nella vita di Callas nel momento in cui, realizzatasi come artista, trentaseienne sentiva impellente il bisogno di realizzarsi anche come donna: abbandonò dunque Meneghini (che avrebbe voluto farla arrestare come adultera, secondo la legge italiana) e si buttò unilateralmente a capofitto nella nuova passione. Non fu mai vera convivenza fra i due, né il matrimonio che Onassis le aveva promesso dopo il divorzio da Athinà (1960) arrivò mai.
Contrariamente a quanto si usa dire, Callas non interruppe la carriera ma soltanto la rallentò, causa anche le condizioni vocali sempre più precarie: in settembre registrò una nuova Gioconda e in novembre cantò Lucia e Medea a Dallas. La sosta di qualche mese che seguì corrispose (solo oggi è noto) alla segreta gravidanza, conclusasi tristemente a Milano con la morte del piccolo Omero (30 marzo 1960). Se il figlio fosse sopravissuto, forse il rapporto con Onassis avrebbe preso una diversa svolta; si trascinò invece dolorosamente fino all’estate 1968, con Callas a Parigi in continua e speranzosa attesa ch’egli si dimostrasse un vero marito e Onassis in giro per il mondo, tra affari e nuove liaisons, fra le quali, una dopo l’altra, le sorelle Lee (1963) e Jacqueline (dal 1965) Bouvier, rispettivamente moglie del principe polacco Stanisław Radziwiłł e vedova del presidente americano John F. Kennedy, entrambe utili per sistemare alcune pendenze giudiziarie negli Stati Uniti. Dell’improvviso matrimonio di Onassis con Jacqueline (20 ottobre 1968), Maria ebbe notizia dai giornali.
Fu sui giornali, fra le cronache del jet set, che la stessa Callas visse negli anni Sessanta, più che nei teatri: le ultime recite, vocalmente sempre più precarie ma sempre più intense sul piano espressivo – Norma e Medea nel teatro antico di Epidauro (1960-61), Poliuto e Medea alla Scala (1960-62) e infine una reiterata alternanza di Norma e Tosca fra Londra, Parigi e New York (1964-65) portate faticosamente a termine grazie a un cocktail di volontà, tecnica, azione e disperazione – furono eventi presi d’assalto da spettatori che non avevano magari mai visto uno spettacolo operistico, ma vi accorrevano per l’interesse mediatico cresciuto attorno a quell’artista dalla biografia tanto affascinante: le notti all’addiaccio per accaparrarsi un biglietto anticiparono quelle cui si sarebbero ben presto assoggettati i fans dei Beatles. Contemporaneamente si moltiplicarono i cosiddetti ‘vedovi Callas’, che specie a Milano non tolleravano altri soprani a interpretare i principali personaggi «della Maria». E dal 1965 ebbe inizio un rigoglioso mercato clandestino di ‘dischi pirata’ che diffondevano su vinile le registrazioni dal vivo superstiti di quelle opere che la Columbia non aveva voluto registrare in studio. Il mito si consolidava nel momento del distacco.
La decisione di ripresentarsi un’ultima volta come Medea nell’omonimo film di Pierpaolo Pasolini (estate 1969) servì a uscire dallo choc affettivo, sostituendo Onassis con un’altra infatuazione sbagliata per il poeta-regista notoriamente omosessuale. Dalla sceneggiatura, scarsissima di dialoghi, venne consensualmente eliminato il frammento di ninna-nanna che Medea avrebbe dovuto cantare ai figli; ma lei non poteva immaginare che nella pellicola distribuita in Italia sarebbe stata eliminata unilateralmente anche la sua voce parlata, non scevra da qualche inflessione straniera (mentre è sua la voce – da grande tragica – nell’edizione in lingua inglese). La pellicola, uscita nel 1970, venne accolta da un successo di stima, il che per la Callas significava un fallimento; un diverso esito avrebbe forse potuto aprire all’artista nuove frontiere.
Nel 1971-72 si dedicò all’insegnamento in brevi masterclasses a Filadelfia e, per due anni, alla Juilliard School di New York alla presenza di un pubblico internazionale di curiosi (fra cui spiccavano Elisabeth Schwarzkopf, Plácido Domingo, Franco Zeffirelli, Alexis Weissenberg), suscitando il risentimento dei docenti titolari. Per gli studenti, travolti da tanto clamore, non fu un’esperienza formativa positiva; fra i partecipanti, l’unica entrata poi in duratura carriera fu Barbara Hendricks.
Nel maggio 1972 venne a cercarla l’antico collega Giuseppe Di Stefano, che aveva bisogno di raccogliere fondi per curare la figlia colpita da un cancro. Dapprima s’improvvisarono registi per I Vespri siciliani che tennero a battesimo il nuovo teatro Regio di Torino (marzo-aprile 1973): la stroncatura della stampa fu completa; poi Di Stefano le chiese di unirsi a lui in un lungo giro di concerti per le maggiori città del mondo, compreso l’Estremo Oriente (25 ottobre 1973 - 11 ottobre 1974): nella casa milanese del tenore in cui per mesi i due vecchi leoni cercarono a fatica di ricostruire i rispettivi organi vocali distrutti, e sotto gli occhi stessi della moglie di lui, si consumò una nuova love story. I concerti, esauritissimi al botteghino e accolti in sala all’insegna del fanatismo, si rivelarono una débâcle vocale.
Onassis, che dopo il matrimonio con Jacqueline Kennedy aveva continuato a inseguire Callas con telefonate che ammettevano l’errore e la volontà di un rapido divorzio per sposare finalmente la cantante, si spense il 15 marzo 1975 in un ospedale alle porte di Parigi. Il 2 novembre morì assassinato Pasolini, il 17 marzo 1976 scomparve Visconti. Si concluse anche la relazione con Di Stefano, sopraffatto dalla morte della figlia ventenne. In pochi mesi, Maria si vide insomma abbandonata dalle persone che più aveva amato: si chiuse in casa e divenne l’ombra di sé stessa, preda dei sonniferi.
Il decesso a Parigi, nell’appartamento di Avenue Mandel, il 16 settembre 1977, venne da molti imputato a suicidio. Acquisizioni tardive sulla sua affezione da dermatomiosite (patologia degenerativa che provoca il cedimento di muscoli e tessuti) ha indotto i foniatri Franco Fussi e Nico Paolillo (2011) a imputare a tale malattia il rapido declino vocale e da ultimo l’insufficienza cardiaca di cui parlò il referto di morte. La subitanea cremazione senza autopsia celò per sempre la verità. Il funerale sontuoso, le liti sull’eredità fra marito e sorella (ma a guadagnarci di più fu forse la segretaria factotum degli ultimi anni, l’amica pianista Vasso Devetzi, che fece da intermediaria fra i due), il trafugamento delle ceneri dal cimitero parigino del Père-Lachaise, il loro presunto ritrovamento – c’è chi sospetta che le vere ceneri siano sepolte a Sirmione, nel giardino della casa in cui Meneghini trascorse gli ultimi anni di vita – e la loro simbolica dispersione nel Mar Egeo (3 giugno 1979), tutto contribuì ad arricchire il mito post mortem, che trascende l’angusto mondo del melodramma di tradizione per elevare Callas a vera icona dei tempi moderni (specie nella comunità gay): testi teatrali come The Lisbon Traviata di Terrence McNally (1989), film come Philadelphia di Jonathan Demme (1993), opere liriche come Jackie O di Michael Daugherty (1997) ne danno viva testimonianza, confermando quanto ebbe a scrivere John Rosselli (Il cantante d’opera, Bologna 1993, p. 12): «Le ondate di erotismo sollevate dalle incisioni discografiche della Callas sono ancora avvertibili a tanti anni di distanza».
La maggior parte delle registrazioni audio in studio (opere complete e recital) sono reperibili su etichetta EMI; i 30 titoli di opere complete disponibili nell’interpretazione di Callas (molti derivanti dagli archivi EMI) sono editi cumulativamente da Membran. Per le registrazioni dal vivo (alcune ancora inedite), la Divina Records sta conducendo un’attentissima opera di recupero e restauro.
La bibliografia sulla primadonna per antonomasia del Novecento prese il via nel 1957, quando ‘la Callas’ assurse a personaggio da rotocalco recuperando alla cantante d’opera il glamour ch’era stato di alcune dive ottocentesche, e si moltiplicò in misura esponenziale dopo il 1977, alimentata dalla morte prematura e misteriosa, replicandosi stancamente fra la biografia scandalistica, l’agiografia mitizzante e il reportage fotografico, mentre l’approfondimento critico è limitato a pochi stereotipi consolidati. Nelle varie lingue, supera ormai il migliaio di titoli (cfr. www.callas-club.de).
Di certo Maria Callas sgombrò il campo da una concezione dell’opera pigra e stagnante che si trascinava da decenni, introducendovi nuovi valori che nella vocalità in quanto tale trovavano una sola delle tante componenti messe in gioco. In questa concezione ‘globale’ dell’interpretazione operistica, la sua grandezza non è stata nell’essere inimitabile, ma nell’aver posto le basi per poter venire superata, come un punto di non ritorno che si può soltanto migliorare.
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