Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Maria di Francia è il nome con cui accompagna i suoi testi una delle più importanti e ancora misteriose autrici del Medioevo occidentale. Pochissimi i dati documentari e incerta persino l’identità storica di tale scrittrice che, pur provenendo dall’Europa continentale, appare legata alla realtà insulare e al mondo delle corti dell’Inghilterra plantageneta. Maria è la prima donna a comporre un’opera di narrativa breve in volgare su argomenti profani (i Lais) oltre che a scrivere la prima raccolta in antico francese di favole esopiche (Fables) e uno dei più suggestivi viaggi nell’aldilà (l’Espurgatoire seint Patriz).
Maria di Francia
Lai de Guigemar, vv. 9-22
Lais
Era costume degli antichi,
come testimonia Prisciano,
nei libri che facevano a quel tempo,
esprimersi con grande oscurità
affinché i posteri
che dovevano studiarli,
potessero glossarne il testo
e arricchirli dell’ingegno acquisito.
I filosofi lo sapevano,
essi stessi capivano
che, col passar del tempo,
il senso dei loro scritti sarebbe apparso sottile
e meglio si sarebbero salvati
dalla caducità del tempo.
Testo originale:
Custume fu as ancïens,
Ceo testimoine Precïens,
Es livres ke jadis feseient,
Assez oscurement diseient
Pur ceus ki a venir esteient
E ki aprendre les deveient,
K’i peüssent gloser la lettre
E de lur sen le surplus mettre.
Li philosophes le saveient,
Par eus meïsmes entendeient,
Cum plus trespassereit li tens,
Plus serreient sutil de sens
E plus se savreient garder
De ceo k’i ert a passer.
Maria di Francia (attr.)
Lai du Laostic
Lais
Vi racconterò una storia
Di cui i Bretoni fecero un lai
Si chiama Laustic,
così la chiamano nel loro paese.
“Russignol” si chiama in francese,
“nihtegale” in corretto inglese.
Nella regione di Seint Mello
c’era una famosa città.
Due cavalieri vi abitavano
e vi avevano grandi case […].
Testo originale:
Une aventure vus dirai
Dunt li Bretun firent un lai.
Laüstic ad nun, ceo m’est vis,
Si l’apelent en lur païs;
Ceo est “russignol” en franceis
E “nihtegale” en dreit engleis.
En Seint Mello en la cuntree
Ot une vile renumee.
Dui chevalier ilec maneient
E deuz forz maisuns i aveient […].
Maria di Francia
Il gallo e la pietra preziosa
Ysopet, I, vv. 1-22
Si racconta di un gallo che salì
su un mucchio di letame e cominciò a raschiare.
Si procacciava il cibo secondo la sua natura
e come meglio sapeva fare.
Trovò una pietra preziosa
Vide che brillava, la guardò e disse:
“Io pensavo di cercare
il mio cibo in questo letame;
e ho trovato una pietra preziosa:
non verrete mai onorata da me come meritate!
Se vi avesse trovato un uomo ricco
sono sicuro che vi avrebbe ornata d’oro,
e avrebbe accresciuto la vostra bellezza.
con l’oro, che ha grande splendore.
E poiché non posso fare di voi quel che vorrei
non riceverete da me alcun onore”.
A molte persone,
se tutto non va secondo il loro volere,
succede come al gallo e alla pietra preziosa.
Capita spesso che molti, uomini e donne,
non apprezzino il bene né l’onore,
quando, prendendo il peggio, sottovalutano il meglio.
Testo originale:
Del coc recunte ki munta
sur un femier e si grata;
sulunc nature purchaçot
sa viande, si cum il sot.
Une chiere gemme trova;
clere la vit, si l’esguarda.
“Jeo quidai”, fet il, “purchacier
ma viande sur cest femier.
Or t’ai ici, gemme trovee;
je par mei n’en iers remuee!
S’uns riches hum ci vus trovast,
bien sai que d’or vus honurast,
si acreüst vostre clarté
par l’or, ki mult a grant bealté.
Quant ma volenté n’ai de te
ja nule honur n’avras par mei”.
Altresi est de meinte gent,
se tut ne vait a lur talent,
cum del coc e de la gemme.
Veü l’avuns d’ume e de femme:
bien ne honur nïent ne prisent;
le pis pernent, le mielz despisent.
Il nome di Maria ricorre, come firma, in tre opere scritte in antico francese (lingua d’oïl nella seconda metà del XII secolo: una raccolta di dodici lais, l’Espurgatoire seint Patriz e una raccolta di Fables. Proprio in queste ultime si trova scritto dall’autrice in un verso: me numerai per remembrance / Marie ai nun, si sui de France (“mi firmerò perché io sia ricordata, / mi chiamo Maria e vengo dalla Francia”, Epilogo, vv. 3-4).
Si sa dunque molto poco dell’identità e della vita di colei che resta una delle pochissime scrittrici e fra le migliori del Medioevo volgare, anche se numerose sono state le proposte di identificazione di quest’autrice, nessuna pare attualmente da giudicarsi più che un’ipotesi di maggiore o minore plausibilità. Resta il fatto che l’autrice fu una donna colta, capace di comprendere diverse lingue (latino, francese, medioinglese e forse anche le varietà celtiche), che si chiamava Maria e che indicava la sua origine – e la sua appartenenza culturale – come continentale mentre viveva dunque, o scriveva temporaneamente, al di fuori della Francia e verosimilmente in quell’Inghilterra plantageneta, plurilingue e cortese, di Enrico II. È recente la proposta di attribuire alla stessa penna anche il poemetto agiografico Vie de seinte Audree dedicato alla vita della badessa sassone santa Etelreda di Ely. In quest’operetta compare infatti un’analoga firma: Ici escris mon nom Marie / Pur ce ke soie remembree (“iscrivo qui il mio nome: Maria / perché io sia ricordata”, vv. 4619-4620).
Riguardo le varie ipotesi di identificazione di Maria di Francia: secondo Holmes si trattava di Marie de Meulan, una figlia di Galeran IV de Meulan, primo dedicatario della Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth. Pare però che l’unica figlia di questo Galeran sia stata un’Isabelle e che si sia trattato di una svista fra le carte d’archivio, che documentano sì una Marie de Meulan, figlia di Galeran II, ma attorno all’anno Mille. Fra le altre proposte di identificazione si ricorda quella di Ezio Levi, che suggerì una Mary, badessa di Reading, in realtà anch’essa figura storicamente evanescente, e quella, proposta da Fox, che fa di Maria la badessa di Shaftesbury (sorellastra di Enrico II e di un casata de Ostilli). Un’ulteriore ipotesi, avanzata da Knapton, indusse a pensare piuttosto a Marie de Blois, contessa di Boulogne, quella figlia cioè di re Stefano d’Inghilterra e di Matilde de Boulogne, che nacque attorno al 1125 e fu più tardi badessa del monastero di Romsey. Nessuna di queste ipotesi risulta però convincente e solidamente fondata. Recentemente è stata proposta l’identificazione della scrittrice con Marie Becket, sorella del celebre arcivescovo di Canterbury Tommaso, assassinato nel 1170, che era stata esiliata in Francia dal 1167 e fu poi, due anni dopo l’assassinio, nella primavera del 1173, promossa badessa del monastero di Barking, nell’Essex (Rossi). Per quanto suggestiva, l’ipotesi non riposa tuttavia su dati documentari sicuri né si hanno testimonianze indirette dell’attività letteraria della Becket.
I riferimenti espliciti alle opere di Maria nei testi medievali antichi sono tre. Il primo è precoce (1175 ca.): Denis Pyramus, il chierico inglese dell’abbazia di Bury-Saint Edmond, nella Vie de seint Edmund le rei riferisce di una Dame Marie che ha scritto dei lais e che si allontana scrivendoli dalla verità. Gli altri due accenni si riferiscono entrambi alle Favole e si trovano nel più tardo Couronnement de Renard (dopo il 1232) e nell’Évangile aux femmes (seconda metà del secolo XIII) ove però si dice che le stesse sono state scritte da una Marie de Compiègne.
I dodici Lais di Maria (Guigemar, Equitan, Freisne, Bisclavret, Lanval, Deux Amants, Yonec, Laustic, Milun, Chaitivel, Chevrefeuille ed Eliduc) costituiscono la prima opera di narrativa volgare moderna scritta da una donna su argomenti profani. Si tratta di racconti brevi, in distici di octosyllabes a rima baciata, ossia nella medesima forma metrica del coevo romanzo, dedicati a storie d’amore, eroiche e meravigliose, sempre raffinate e sottili. Questi racconti di avventura e d’amore costituiscono, coi loro casi di storie straordinarie e fantastiche, una summa profana del tema amoroso indagato nei suoi effetti psicologici e nei suoi risvolti etici. I Lais costituiscono certamente l’opera più importante di Maria: si ipotizza siano stati scritti attorno al 1160-1170 e, secondo il prologo, sono dedicati a un nobile re (v. 43), identificato con Enrico II Plantageneto. Solo il manoscritto di Londra, British Library, Harley 978 (comunemente siglato H ed esemplato in Inghilterra alla metà del XIII secolo) li conserva tutti e tramanda anche il prologo; dei restanti quattro codici superstiti (di cui solo C insulare) alcuni conservano un solo racconto (CQ), un altro tre (P), l’ultimo nove (S). Difficile stabilire la cronologia interna dei lais e la loro prima diffusione.
Maria vi rivendica l’assoluta novità delle sue composizioni: molti si sono provati a fare qualcosa di utile traducendo in volgare romanzo dal latino mais ne me fust guaires de pris: / itant s’en sunt altres entremis! / Des lais pensai, k’oïs aveie (“ma mi accorsi che non ne valeva la pena: / tanti altri ci si sono provati. / Pensai allora ai lais, che avevo sentito narrare”, Prologo, vv. 31-33). Maria si riferisce qui ai conti che i bretoni suonatori d’arpa cantavano e che diventano sotto alla sua penna dei puri racconti brevi, destinati alla sola lettura (anche se lo spazio vuoto lasciato per la notazione musicale nell’anonimo lai di Graelent nel ms. Paris, BNF Fr. 2168, potrebbe forse far pensare a un previsto preludio musicale). L’autrice, che fonde nei suoi racconti il meraviglioso delle fate ai tratti più propriamente feudali e cortesi, dispiega un’abilità notevole nella gestione degli intrecci, anche fantastici (cavalieri invisibili, apparizioni di fate, lupi mannari e uomini-uccello), a cui accompagna un ventaglio ricco di caratteri, sfumature sentimentali, raffinate notazioni psicologiche che situano i racconti in un’atmosfera rarefatta e incantata, a tratti anche lirica. Oltre alle fonti celtiche, la cosiddetta “materia di Bretagna”, Maria dimostra di conoscere altrettanto bene i classici, Ovidio soprattutto, ed anche la coeva letteratura anglonormanna: fra i romanzi almeno il Brut di Wace, il roman de Thèbes, l’Eneas, una forma del roman de Tristan, ma anche, fra le novità in latino dell’epoca, il Metalogicon di Giovanni di Salisbury. Caratteristica è la lucidità programmatica enunciata nel prologo, sin dall’incipit, che richiama esplicitamente un topos classico, ma qui più esattamente evangelico e paolino: Ki Deus as duné escïence / e de parler bone eloquence / n’en s’en deit taisir ne celer, / ainz se deit voluntiers mustrer (“Chi ha avuto da Dio il dono della dottrina / e l’eloquenza della bella parola / non deve tacere né deve nascondersi, / ma anzi deve rivelarsi volentieri”); più avanti, è il tema specifico dell’opacità resa dal tempo ai testi del passato e della necessità, per i moderni, di gloser la letre / e de lur sen le surplus metre (“commentare il testo / arricchirlo con un’aggiunta di saggezza”) ove addirittura si coglie nell’esegesi un implicito riferimento alla nozione filosofica di integumentum. Su tutti, fondamentale, il tema della memoria e dell’oblio, della necessità, per lo scrittore in volgare, della remembrance delle cose narrate e insieme della propria opera, tema importante e condiviso da alcuni altri autori delle origini e da Maria qua e là, ma costantemente, richiamato in tutta la sua opera.
I Lais di Maria ebbero una fortuna considerevole e fondativa per il racconto breve in volgare (e segnatamente il Lai du Cor, d’Ignaure – col tema celebre del cuore mangiato, produttivo sino a Boccaccio – del Mantel mautaillé ecc.), ma non solo: riprese esplicite si ritrovano ad esempio nel Roman de Renart e, forse, nel Roman de Tristan di Thomas. I Lais furono inoltre tradotti in inglese e tanto precocemente in norreno da considerare quest’ultimo testo – il nome della raccolta è Strengleikar, una traduzione condotta per il re di Norvegia Hákon IV Hákonarson da un esemplare antico, prossimo ad H – un vero testimone accolto nella recensio dell’opera francese (N).
La raccolta di favole (Fables) è la più antica di quelle scritte in lingua d’oïl. Databile fra 1167 e 1189 – se il conte Guglielmo che è nominato nel testo si potesse con certezza identificare con Guillaume de Mandeville, morto appunto nel 1189 – o forse un po’ più tardi, fra 1189 e 1208.
Protagonisti sono, come per tradizione, principalmente gli animali, ma anche uomini e donne attraverso le cui vicende, narrate a scopo edificante, si scorge in controluce la società settentrionale del XII secolo. Conservate tutte (102, più prologo ed epilogo) nel medesimo manoscritto harleyano che conserva integralmente i Lais, le Favole avranno una consistente fortuna e fra XIII e XVI secolo furono copiate in più di 30 codici. Per comporre la sua opera Maria dice di aver adoperato un testo, probabilmente in medioinglese, scritto da re Alfredo (li reis Alvrez, que mut l’ama / le translata puis en engleis / e jeo l’ai rimee en franceis – “il re Alfredo, a cui piaceva molto l’Esopo / volle tradurlo in inglese / e io l’ho tradotto in francese”, Epilogo, vv. 16-18). Di questo libro di favole di re Alfredo non vi è traccia, ma almeno per la storia della vedova – che si rifà alla vicenda della matrona di Efeso del Satyricon di Petronio –, e per altri particolari, Maria dimostra di attingere anche ad altre fonti e ben più prossime: il Policraticus di Giovanni di Salisbury.
Quel che è certo è che le Fables utilizzano un ramo di quella complessa tradizione esopica attraverso cui l’Europa medievale conosce la favolistica classica, in particolare il cosiddetto Romulus anglo-latino ossia una collezione in latino della fine dell’XI secolo, arricchita probabilmente da una fonte propriamente inglese (quella attribuita ad Alfredo). Tale Romulus anglo-latino a sua volta doveva derivare da una forma del Romulus (Romulus Nilantii), ossia l’arricchita versione in prosa discendente dalla versione di Esopo, in latino e in versi, di Fedro, ma attraverso contaminazioni molteplici, con Aviano, ad esempio, ma anche con forme intermedie quali l’Esopo di Ademaro di Chabannes.
La terza opera di Maria, l’Espurgatoire Seint Patriz (trasmessa dall’unico, composito, ms. Paris, BN, Petits f. Fr. 25407) è un volgarizzamento del Tractatus de Purgatorio s. Patricii scritto in prosa latina dal cistercense inglese Henry de Saltrey verso il 1185. Tale testo ebbe larghissima diffusione e Maria ne traduce un rimaneggiamento (che non possediamo) probabilmente negli ultimi anni del XII secolo, su richiesta di un anomino valent’uomo. Il testo è di fatto tradotto perché sia compreso dai laici: [...] k’il seit entendebles / a laie gent e covenable (“[...] perché sia comprensibile, e di giovamento, ai profani”). Vi si racconta di san Patrizio che ottenne da Dio la rivelazione di un luogo (situato su un’isola del Lago Rosso, nell’Ulster) da cui si poteva accedere, penitenti, all’altro mondo. Tale luogo era custodito da canonici regolari e il cavaliere Owein, dopo aver ricevuto le raccomandazioni del priore, vi accede sottoponendosi alle numerose prove e assistendo ai molteplici prodigi di quella che resta una delle più celebri catabasi letterarie.