MOZZONI, Marianna
MOZZONI, Marianna (Anna Maria). – Nacque a Milano il 5 maggio 1837 da Giuseppe e da Delfina Piantanida, appartenenti entrambi a famiglie con ascendenze nobili e proprietà di terre nella pianura a ovest di Milano (a Cuggiono la madre, a Rescaldina il padre).
A cinque anni entrò nel collegio «per le fanciulle nobili e povere» della Guastalla a Milano, dove rimase fino al 1851 ricevendovi una «educazione ultraclericale» (cit. in Masini, 1978, p. 279), destinata a lasciare più di un segno nella sua cultura e nella sua scrittura, nonostante il precoce rifiuto di quelle idee e la condivisione degli orientamenti laici e progressisti propri dei genitori e delle persone che essi amavano frequentare, a partire dalla cerchia cui faceva riferimento il padre, dottore in fisica e matematica, sperimentatore e inventore multiforme attratto dalla teosofia e dallo spiritismo.
Affamata di attualità e di letture che le permettessero di comprenderne il retroterra e il senso, attribuì sempre particolare valore formativo a due esperienze della sua prima giovinezza: la vista in piazza Castello a Milano, nel 1853, dei sette patiboli del «cartolaio Sciesa» e dei suoi compagni operai («da quel giorno io ebbi convinzioni in politica, benché donna», scrisse nel 1880) e la lettura ne La Ragione di Ausonio Franchi, fra il 1855 e il 1857, degli articoli di Jenny d’Héricourt, fieramente avversa alle tesi proudhoniane sull’organica inferiorità mentale e morale della donna e della sua polemica con Giulia Molino Colombini, critica dell’egualitarismo fra i sessi propugnato dalla francese. Quali fossero i punti di riferimento ideali e politici della sua formazione rivelò lei stessa nel suo primo scritto importante (La donna e i suoi rapporti sociali, Milano 1864), ripubblicato a puntate (gennaio 1865) da L’Unità italiana di Maurizio Quadrio.
In quello scritto Mozzoni citava Giuseppe Mazzini, Salvatore Morelli e Ausonio Franchi, ma anche Charles Fourier e Henry de Saint-Simon e la sua scuola; sottolineava i meriti di Cesare Beccaria, di Condorcet e del pensiero illuminista; ringraziava le «donne del progresso» (fra cui le francesi del 1848), che avevano affermato «col fatto l’attitudine e la capacità femminile» a occuparsi di politica (ibid., cit. in La liberazione della donna, 1975, p. 90). Dedicato alla madre («A Te, che il comun pregiudizio non dividesti che alla donna interdice il libero pensiero»), il saggio si rivolgeva «Alle Giovani Donne» della nuova Italia, esortate a prendere coscienza della secolare oppressione delle donne «di qualunque rango» esercitata dall’opinione, dalla religione, dalla famiglia, dalla società, dalla scienza, dal diritto, e le sollecitava a impegnarsi in prima persona per cambiare questo stato di cose, perché «l’iniziativa d’ogni redenzione incombe all’oppresso medesimo» (pp. 33-35).
Subito dopo, diede alle stampe un’appassionata denuncia della trama di pregiudizi, interdizioni e contraddizioni che caratterizzava le norme sulle donne presenti nel testo del codice civile uscito dal Senato (La donna in faccia al progetto del nuovo Codice civile italiano,Milano 1865), oggetto anche della sua prima conferenza pubblica (il 2 aprile 1865, la prima in assoluto di una abitante del Regno) e ispirata alla convinzione, infrequente anche nell’ala più avanzata della Democrazia, che «il dovere, fonte del diritto, è cosa santa ed equa; ma il dovere da solo è schiavitù e oppressione» (ibid., p. 36). Non a caso le sue polemiche degli anni successivi in tema di concezione della donna ebbero come obiettivo prediletto scritti di persone appartenenti a quell’ambiente, come risulta dalla Risposta di Annamaria Mozzoni all’Opuscolo della Signora Elvira Ostacchini (ibid. 1866) o da quella rivolta «Al Signor Mastriani» (in La Donna, 1868, nn. 19-22), che in un volumetto di lezioni sui Doveri della donna (Napoli 1866) aveva definito «pervertitrice» ogni donna e ogni teoria emancipazionista.
Negli stessi anni il primo periodico femminile italiano laico e progressista, La Voce delle donne (edito a Parma da Giovannina Bertola Garcea), pubblicava a puntate il saggio di Mozzoni sul codice civile (febbraio-marzo 1865), ospitava sue Lettere intorno a temi di attualità e rassegne di Bibliografia, fino all’intervento su L’istruzione nelle campagne che occupava gran parte dell’ultimo numero del periodico (22 gennaio1867), evidenziando uno snodo cruciale di quella «battaglia per l’istruzione» che Mozzoni portò avanti per tutta la vita e che l’anno prima si era concretizzata nelle pagine di Un passo avanti nella cultura femminile. Tesi e progetto (Milano 1866).
Fondato su una colta rassegna delle «donne eccellenti» vissute in Europa e negli Stati Uniti, e dei recenti progressi dell’istruzione femminile, il saggio aveva un obiettivo pratico immediato: la creazione a Milano, per opera di una «società di azionisti», di un Istituto internazionale femminile che contribuisse a «sollevare la ragione e la coscienza della donna alla cognizione dei suoi doveri e dei suoi diritti [...] come essere intelligente e progressivo verso se stessa, come associata nel civile consorzio, come cittadina nella città, come operaia nel laboratorio sociale, come sposa e come madre di famiglia, nel qual posto soltanto la sua situazione si specializza da quella del suo compagno» (ibid., p. 99).
Poco dopo Mozzoni pubblicò un impegnativo pamphlet, Il Bonapartismo in Italia. Memoria (ibid. 1867), acuta analisi dell’equilibrio instabile di forze e di princìpi su cui si reggeva il Secondo Impero e della sua natura bifronte, inconciliabile con l’esito del «rivolgimento italiano», di cui si sottolineava il «carattere assolutamente rivoluzionario e radicale» (p. 10). Già allora era chiaro quali fossero i cardini delle sue convinzioni politico-culturali: adesione ai fondamenti egualitari e laici di un Ottantanove declinato secondo un’ottica che prevedeva libertà e giustizia per tutti, tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo; indiscussa fedeltà all’ideale di indipendenza e unità di una patria retta da istituzioni rappresentative; primato della ragione e dell’indagine razionale contro ogni dogmatismo di scuola e ogni formalismo dottrinario; centralità teorica, politica e pratica della ‘questione della donna’, vera e propria cartina di tornasole delle contraddizioni e delle ambiguità di un’epoca che pretendeva di parlare il linguaggio universale dei diritti escludendone a priori metà del genere umano. Di tutto questo, però, negli anni seguenti Mozzoni avrebbe preferito parlare attraverso articoli di giornale, lezioni e conferenze, che permettevano un intervento più diretto nella formazione dell’opinione.
Fra il 1868 e il 1872, dunque, si impegnò in un’intensa attività pubblicistica su La Donna, periodico emancipazionista diretto da Gualberta Alaide Beccari, tenendovi fra l’altro due rubriche – «Lettere lombarde» e «Fisica sintetica» – dedicate a temi di polemica filosofico-politica e di divulgazione scientifica. Ma collaborò anche con La Riforma del secolo XIX di Milano, «organo bimestrale dei Liberi Pensatori Cristiani», pubblicandovi nel 1870 la sua documentata risposta alla richiesta di informazioni «sugli effetti del regolamento sanitario della prostituzione» giuntale dall’Inghilterra (Lettera a Mrs. Josephine Butler, 15 agosto 1870), e nel 1871 con La Romadel popolo di Luigi Pianciani, discutendo della Questione dell’emancipazione femminile, definita cuore della «questione sociale», visto che essa riguardava solo «una parte degli uomini e invece la massa delle donne» (7 giugno 1871), e riflettendo in piena autonomia sulla Comune di Parigi, definita «apocalisse» e «lurido spettro», ma prima di tutto esito «putrido e sanguinante» di governi militaristi e fomentatori di immoralità, sordi e ciechi di fronte alla drammaticità della questione sociale (14 giugno 1871). Nel frattempo (1870), aveva pubblicato la traduzione di The subjection of women di John Stuart Mill, nitida denuncia della gravità teorica, politica e sociale della sottrazione della donna al diritto comune, e tenuto lezioni sul ruolo delle scienze morali nell’educazione delle donne al liceo femminile aperto a Milano da Vincenzo De Castro e all’istituto Pietrasanta della stessa città: temi che sarebbero stati ripresi nel tour di conferenze a Genova, Firenze e Bologna intrapreso nel marzo 1871 con Maria Antonietta Torriani (futura Marchesa Colombi).
Seguì un lungo periodo di stasi. Nel 1872 e nei primi mesi del 1873 firmò ancora qualche pezzo per La Donna, come le recensioni a Mogli e mariti di Malvina Frank (10 agosto 1872) e a un volume di Carlo Gallini, che le permetteva di rilevare le drammatiche conseguenze del divieto di ricerca della paternità (25 maggio 1873). Ma da allora fino alla primavera del 1876 il suo nome scompare dalle cronache. L’ipotesi (avanzata da Franca Pieroni Bortolotti nell’introduzione all’antologia La liberazione della donna, 1975, p. 15) di una relazione decennale con Gaspare Stampa, che potrebbe essere sfociata nell’inverno 1873-74 nella nascita di una figlia, Beatrice, resa più drammatica dalla morte di lui pochi mesi dopo, resta priva di riscontri documentari diretti, perché Mozzoni preferì che a lei si guardasse come a una figlia adottiva, tardivamente naturalizzata dalla nonna dopo i tentativi (fieramente avversati dagli zii Lucio Ottavio e Giacomo) di farla riconoscere come coerede e membro ufficiale della famiglia. Forse fu proprio quella congiuntura a tenerla lontana sia dal Congresso pedagogico di Bologna dove avrebbe dovuto tenere una relazione (La Donna del 25 agosto 1874 addebitava la sua impossibilità a parteciparvi a un «grave lutto») sia dalla tournée italiana di Butler, giunta nella Penisola per lanciarvi – auspici mazziniani come Giuseppe Nathan, Aurelio Saffi e Alberto Mario – la costituzione di una Federazione continentale britannica che combattesse il crescente coinvolgimento degli Stati nello sfruttamento legale della prostituzione. Nel Comitato italiano della Federazione, comunque, Mozzoni ricoprì fin dal 1876 un ruolo di rilievo, assumendo la responsabilità organizzativa per l’area lombardo-veneta, organizzando assemblee e incontri, partecipando a convegni nazionali e internazionali.
Nel 1877 a Ginevra prese più volte la parola, in commissione e in seduta plenaria, specie per perorare l’abolizione del divieto di ricerca della paternità, fino a lasciarsi andare a una «violenta requisitoria» (Il Dovere di Roma, 3 ottobre 1877) e, come ricorda Butler nella sua autobiografia, a una incontenibile crisi di pianto. La prostituzione legalizzata e sfruttata dallo Stato si configurava ai suoi occhi come l’emblema non solo dell’ineguaglianza delle leggi fra uomo e donna, ma degli arbitri e dei mercanteggiamenti dello Stato sul corpo e sulla vita di donne che esso avrebbe avuto il dovere di trattare da cittadine (Alla signora Giuseppina Butler, in La Donna, 30 novembre 1877). Tanto più le sembrava urgente e possibile voltar pagina in quanto al governo c’erano ormai uomini della Democrazia, presso cui si poteva sperare che tali questioni trovassero ascolto, nel quadro di una riconsiderazione complessiva della posizione giuridica delle donne.
Furono le aperture presenti nella relazione della Commissione parlamentare sulla riforma della legge elettorale amministrativa e le disponibilità emerse nelle discussioni sulla necessaria revisione di quella politica a spingerla a stilare la Petizione per il voto politico alle donne con cui chiedeva di guardare alle «italiane» per quello che erano «veramente: cittadine contribuenti e capaci, epperò non passibili, davanti al diritto di voto, che di quelle limitazioni che sono o verranno sancite per gli altri elettori»: un principio che – per potersi attuare – presupponeva la cancellazione degli articoli del codice civile relativi all’autorizzazione maritale. Quanto avvertiti fossero ormai quei temi lo dimostrò il primo Congresso internazionale per il diritto delle donne tenuto a livello europeo (Parigi, 25-27 luglio 1878), cui partecipò sia come delegata dell’Associazione democratica di Milano, sia come inviata ufficiale del ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, che la incaricò di stendere un rapporto ufficiale sull’evento (1880).
Rispetto a dieci anni prima, gli interventi del periodo 1877-81 mostrano una più nitida attenzione alla dimensione storica del problema: di qui il ripetuto richiamo alla condivisione del movimento risorgimentale da parte delle donne italiane, all’importanza della loro accresciuta frequenza scolastica, alla valenza civile della sempre più folta schiera di maestre, artiste e scrittrici. Se ne ha conferma anche nel magistrale discorso al Comizio dei comizi della Democrazia (Roma, 10-13 febbraio 1881) con cui strappò una renitente adesione dei presenti all’o.d.g. che reclamava l’ammissione delle donne all’elettorato politico, e nella sdegnata Lettera all’on. Zanardelli, relatore sul progetto di riforma della legge elettorale (Roma 1881), che si era opposto a ogni apertura tirando in ballo il «costume romano» e la «legge salica». È significativo che a più riprese Mozzoni sottolineasse come le istituzioni parlamentari, fin quando fossero rimaste una «confraternita maschile», erano oggettivamente inabilitate a rappresentare la nazione, «canone fondamentale della costituzione italiana» (Delle condizioni civili e politiche delle italiane, Bergamo 1878, p. 56).
All’assemblea romana della Democrazia Mozzoni intervenne come delegata della neonata Lega promotrice degli interessi femminili, per la quale aveva scritto Programma e Statuto (dicembre 1880), a conclusione di un impegno più diretto nella Lega della Democrazia e di un anno di intensa attività pubblica, scandita dalla polemica con Matilde Serao in merito alla possibilità che le donne avessero ragionate opinioni politiche; da una conferenza all’Università di Pavia per propugnare l’abolizione dei regolamenti sulla prostituzione (23 luglio) e dalle iniziative in Veneto per raccogliere consensi a quella campagna; dalla partecipazione al II Congresso internazionale della Federazione britannica continentale (Genova, 29 settembre) e a quello delle Società di mutuo soccorso tenutosi a Bologna nel novembre, quando ancora sembrava che la causa del voto alle donne avanzasse «come una vela nella quale soffi il vento» (La Donna, 10 gennaio 1881). La fine di quelle speranze le avrebbe suggerito parole amare nei confronti della Democrazia, che «non ha la donna, e non sa averla, la respinge, la brutalizza e non sa né darle né prometterle» (lettera ad Arcangelo Ghislieri, 10 aprile 1881, cit. in Diz. biografico delle donne lombarde, 1995, p. 61), nonostante le potenzialità presenti nella «scuola sociale» mazziniana, che almeno sul piano dei princìpi non ammetteva «limitazione alcuna» ai diritti delle donne.
Amica di atei e massoni, durissima contro l’apparato dogmatico costruito nei secoli dalla Chiesa ma lontana da un anticlericalismo di maniera, Mozzoni appare in molti scritti attenta a rilevare le ragioni profonde dell’influenza clericale sull’universo femminile, radicate nei «titoli di benemerenza» («reali» e «grandissimi») acquisiti dalla Chiesa sia sul piano dottrinario – con l’ammissione delle donne alla santità e l’importanza data a Maria deipara – sia «nell’ordine pratico», grazie alla versatilità della «parte illuminata del partito clericale», che richiamandosi a un pilastro fondativo della Chiesa, sorta chiedendo «libertà per loro come per tutti», nel corso del Risorgimento aveva «unito la sua voce a quella dei liberali» (Del voto politico delle donne, Venezia 1887, p. 27). Più in generale, Mozzoni sembra convinta della necessità di prestare grande attenzione alle strategie egemoniche messe in atto dalla Chiesa nel corso dei secoli a tutti i livelli: ne è un esempio la dotta lezione Da Ildebrando a Pio IX tenuta alla Società filotecnica di Torino nel 1884, dove la comparazione fra il Dettato di Gregorio VII e il Sillabo di Pio IX viene usata per evidenziare la capacità di interpretare lo spirito del tempo del primo di contro alla incapacità del secondo di «stare nella storia».
Fra il 1881 e il 1886 gran parte dell’attività della Mozzoni fu rivolta alla mobilitazione e all’organizzazione di operaie e donne del popolo, di «fanciulle» dedite allo studio o a un lavoro senza fine tra campi, filande e opifici. Lo sgretolarsi del mondo contadino sotto i colpi di una industrializzazione in cerca di manodopera a basso prezzo, di cui aveva scritto a Salvatore Morelli nella Letterasulla riforma delle scuole rurali (25 febbraio - 10 marzo 1876), aveva assunto ormai il ritmo di una frana: e il lavoro compiuto nei primi anni Ottanta al fianco e per conto di Agostino Bertani nell’inchiesta ufficiale sull’igiene delle popolazioni rurali le confermavano la centralità della questione femminile anche nelle dinamiche dell’industrializzazione delle zone rurali, emblematiche delle nuove forme assunte dalla questione sociale. Il ruolo di Bertani nella sua vita fu del resto, nel decennio 1876-86, ben più profondo e pervasivo di quanto si sia detto finora.
La lettera di Mozzoni a Diego Martelli del 19 giugno 1886 per ringraziarlo delle condoglianze inviatele per la morte del «comune ed ottimo amico» (Bertani era deceduto il 30 aprile) lascia pochi dubbi sul carattere e sulla forza del loro rapporto: «Pensi qual vuoto mi ha lasciato nella vita e quanto doloroso ingombro nella memoria, a me che lavoravo con Lui, e per Lui, da anni e che avevo comune con Lui la vita del pensiero e spesso la convivenza!», per concludere: «Se si potesse rivedersi!», e tornare più volte sugli ultimi giorni trascorsi con lui a Pisa, fino a 24 ore prima della morte, testimone impotente del «quotidiano precipitare delle sue forze» e dello «spaventoso e fatale progredire della paralisi».
Quella comunanza di vita e di pensiero non aveva peraltro impedito che negli ultimi anni le loro traiettorie politiche divergessero. Attraverso la Lega promotrice degli interessi femminili Mozzoni si era infatti venuta avvicinando all’operaismo lombardo e alle posizioni sempre più insofferenti delle cautele e delle transazioni parlamentari dell’Estrema che esso esprimeva e che lo condussero alla rottura con l’ala rappresentata da Bertani (novembre 1884), alla costituzione del Partito operaio italiano (aprile 1885), alla sua ‘fusione’ con la Confederazione operaia lombarda e con la Lega socialista milanese (dicembre 1885 - aprile 1886), fino alle aspre tensioni elettorali con la Democrazia di Felice Cavallotti della primavera 1886. Seppure con qualche distinguo, Mozzoni condivise quel percorso, scandito dalla lotta contro le leggi Berti, dalla campagna – con Anna Kulisciov – a sostegno dei russi e delle russe in fuga dalla repressione zarista, dalla solidarietà con i braccianti mantovani in sciopero, dall’appello Alle operaie uscito nel Fascio operaio del 30-31 gennaio 1885, e siglato dall’intensa attività da lei svolta nell’estate 1886 a sostegno del Partito operaio, accusato da Cavallotti di illeciti amministrativi e fatto oggetto di una durissima campagna intimidatoria da parte della questura milanese (Anzi, 1946, pp. 47 s.).
Emblematiche di questo percorso le due conferenze del 1884 rivolte Alle fanciulle che studiano (riedita nel 1891) e Alle figlie del popolo perché, consapevoli dell’impossibilità di preparare un futuro diverso senza una drastica svolta, si unissero a quanti si stavano organizzando in vista di «una rivoluzione che non lasci pietra dell’attuale organismo sociale» (Alle fanciulle, p. 17): parole che evidenziano una marcata radicalizzazione politica e ideale, resa esplicita dall’invito a «ribellarsi al dogma», a ripudiare «il vincolo autoritario del matrimonio», a ridimensionare il ruolo della famiglia, «divinità convenzionale alla quale si immola l’umanità reale», a chiedersi che cosa davvero rappresentasse la patria per le donne in generale e per le donne del popolo in particolare (cfr. pp. 14 s., 10, 23). In parallelo, si accentuava la disillusione per le scelte grettamente utilitariste di uomini di governo il cui passato e le cui idee avevano fatto sperare in ben altre scelte, e per quelle istituzioni parlamentari che Mozzoni aveva fin lì considerato una preziosa leva di progresso.
L’estate del 1886 segnò l’inizio di un altro cono d’ombra, difficile da decifrare. Sappiamo che proprio allora accettò di unirsi in matrimonio con Francesco Simoni, nato nel 1847, procuratore legale e figlio adottivo del conte Malatesta Covo, e che lo fece in chiesa, a Rescaldina, forse nella speranza di ‘normalizzare’ la posizione di Bice e i propri rapporti con la madre e i fratelli. Nemmeno la ripresa del dibattito sul voto alle donne la spinse a uscire dal silenzio. Il suo nome tornò a circolare, nel 1890, quando il matrimonio doveva essere già in difficoltà. Certo è che a partire da quell’anno la Mozzoni militante del Partito operaio si impegnò a fondo nella costruzione di un soggetto politico più aperto alle ragioni del socialismo: firmò il Saluto dei socialisti italiani ai socialdemocratici tedeschi riuniti a Halle, inaugurò con Filippo Turati la Casa del popolo di Milano, fece parte del ristretto drappello incaricato dal Congresso del partito operaio dell’agosto 1891 di preparare per l’anno dopo la nascita del Partito dei lavoratori italiani (L. Cortesi, La costituzione del Partito socialista italiano, Milano 1961, pp. 18, 252-256).
Di questo scrisse su L’Italia del popolo in Lettere domenicali di cui Turati raccomandava la lettura ad Antonio Labriola, pur precisando che «anche lei, a metterla coi socialisti, mi pare che bisogna storpiare il senso delle parole» (cit. in Pieroni Bortolotti, 1963, p. 227). Quegli appuntamenti settimanali servivano però alla Mozzoni anche per tornare su temi a lei cari: dalla polemica con Alexandre Dumas e Osvaldo Gnocchi Viani sul divieto di ricerca della paternità dell’agosto 1890 alla denuncia della «opposizione tutta di parole», «tanto per dire che c’è», fatta in parlamento dalla Sinistra di ogni sfumatura (19 settembre 1890); dall’appello al re contro l’«infamia senza nome» perpetrata ai danni di Giovanni Passanante (26 maggio 1891) all’esortazione a favorire percorsi scolastici comuni per giovani donne e uomini (23-25 aprile 1890), come già aveva fatto dieci anni prima in un interessante carteggio con De Sanctis e in una Memoria contro l’istituzione dei Magisteri femminili inviata nel 1882 al Parlamento a nome della Lega (cfr. Murari, 2011, pp. 169-172), fino all’appassionato appello alle operaie – «non accettate protezione, esigete giustizia!» – perché si opponessero al consolidarsi anche nel movimento operaio organizzato di tendenze volte a sollecitare la loro «tutela» per via legislativa (26-27 novembre 1890).
All’attività giornalistica si accompagnò come sempre quella di conferenziera. Se a Bologna, parlando nel 1890 de La donna nella famiglia, nella città e nello Stato, Mozzoni finì per replicare con pochi aggiustamenti il testo del 1877 sul Voto politico delle donne, a Cremona, chiamata dal Comitato operaio socialista a celebrare il Maggio 1891, focalizzò le sue considerazioni sulla necessità di dar vita al più presto a un quotidiano che fosse «centro di pensiero e di azione», nazionale nell’impostazione e nella diffusione, ma attento anche a fornire informazioni dall’estero, antidottrinario e gradualista in nome di un socialismo democratico, plurale ed eclettico. Turati commentava, toccando un tasto caro all’autrice: «L’ingegno della donna! Chi ha detto mai che è retorico, vago, sentimentale, inadatto al raziocinio, alle cose pratiche e salde?» (Critica sociale, 1891, n. 9, p. 149). In effetti, quel discorso era fatto per piacergli, col suo richiamo alla «tolleranza civile» contro ogni «bizantinismo dottrinario», e l’invito a potenziare il movimento attraverso «un’azione paziente», senza imporre ai proseliti «un credo da confessare, un solenne patto da giurare» (L’organizzazione dei lavoratori, Cremona 1891, rispett. pp. 20, 21, 16). Mozzoni non mancava di riflettere sulla problematicità dell’innesto dell’emancipazione femminile sulla questione operaia, sottolineando con Costantino Lazzari che «la formazione di un sistema sociale in cui non si conoscano monopolii né padroni» non implicava la scomparsa di «quel monopolista e [di] quel padrone che si trova nella pelle di tutti i maschi» (ibid.): ma il registro era ben diverso da quello usato pochi anni prima per rivolgersi Alle fanciulle, nonostante si ribadisse la valenza emancipativa del lavoro, e in particolare del «lavoro collettivo dell’opificio», che amplia gli orizzonti e spinge ad associarsi, tanto da esortare le operaie a non abbandonarlo, e semmai a impegnarsi per migliorare la propria condizione, respingendo «ogni legge inopportunamente […] protettrice», essendo tutte le donne fin «troppo tutelate, protette, custodite, difese» (ibid., pp. 25-27).
Preoccupazioni analoghe emergevano nella conferenza del 1892 «alle Sorelle del Lavoro» di Alessandria (I socialisti e l’emancipazione della donna, in Scrittrici dell’Ottocento, a cura di F. Sanvitale, Roma 1997, pp. 1039-1050), dove il ricordo degli uomini del Risorgimento fieri della libertà e del diritto di voto conquistati per sé, ma sordi alla richiesta di far partecipare a quelle conquiste anche le donne, serviva a Mozzoni per spostare il discorso sui socialisti, per lo più ostili – sull’onda di Pierre-Joseph Proudhon, Jules Michelet e Auguste Comte – all’emancipazione della donna, e comunque convinti che la risoluzione della questione economica portasse automaticamente con sé «la redenzione della donna», quasi che essa non fosse anche una «questione di dignità, di libertà, di moralità, d’indipendenza, di legittima influenza nella famiglia e nella società» (p. 1047).
La speranza che i socialisti potessero essere la forza organizzata capace di assumere la ‘questione della donna’ e la sua risoluzione come parte decisiva e peculiare della «moderna questione sociale» tramontò in breve volger di tempo. La partecipazione nel 1893 al Congresso internazionale operaio socialista di Zurigo con Rosa Genoni fu l’ultimo evento vissuto da Mozzoni in veste semiufficiale all’interno del movimento socialista. Negli anni successivi i suoi (rari) interventi in consessi e testate socialiste – dagli articoli sull’Avanti! del 1898 e del 1902 a quelli del 1899 sulla Rivista critica del socialismo fino al contraddittorio con Anna Kuliscioff e Oda Olberg Lerda al Congresso socialista di Roma del 1900, cui Mozzoni partecipò come semplice invitata – avevano ormai il sapore della outsider scettica, troppo ancorata alle ragioni di una vita per misurarsi con altre pagine di storia: il suo silenzio sulla drammatica congiuntura di fine secolo è in questo senso esemplare.
A rendere più netta la cesura seguita al suo allontanamento dalla politica attiva contribuì il trasferimento da Milano a Roma, dove ormai viveva l’ex marito e dove nel 1894 lei stessa si stabilì con la figlia, che si laureò in giurisprudenza a Roma nel 1897. A partire dai primi anni del secolo la sua attenzione tornò semmai a volgersi verso luoghi e aggregazioni dei nuovi movimenti femminili, iscrivendosi all’associazione «Per la donna» e partecipando attivamente alle sue iniziative; collaborando a periodici femminili minori (Il Corriere delle donne italiane, L’educazione delle donne, Eva moderna); dialogando con Maria Montessori sulla possibilità di utilizzare la Vergine come modello di «maternità sociale» (cit. da Babini e Lama, 2000, p. 188); partecipando alla pubblicazione Operosità femminile italiana. Esposizione di arte e di lavori femminili – curata da Rosy Amadori in occasione della mostra organizzata nel 1902 dalla Federazione romana delle opere femminili – con il saggio La donna nelle industrie, negli studi, nelle professioni e negli impieghi in Italia (pp. 195-215): un saggio che si apriva polemicamente con una parola in via di divenire desueta, «emancipazione», ma che metteva al centro del quadro le eccezionali difficoltà di autosostentamento delle donne borghesi, cui il codice civile aveva tolto privilegi senza dar loro diritti. Tema, questo, che aveva già costituito il Leitmotiv di un suo intervento nella Rivista critica del socialismo, centrato appunto sulle drammatiche ricadute della rivoluzione industriale nella vita della donna borghese, che «sembra un parassita ed è un paria» (n. 2, p. 159).
A ridarle la carica era stata probabilmente la presentazione, nel 1902, del progetto di legge sul suffragio universale maschile e femminile presentato dal deputato repubblicano Roberto Mirabelli: progetto che la spinse a promuovere, con Teresita Sandeschi Scelba, una Alleanza femminile per il suffragio cui sarebbe seguita una vivace trama associativa in varie città italiane. Fu appunto in quel clima, reso effervescente dalle notizie provenienti dall’estero, che nacque la Petizione delle donne italiane al Senato del Regno e alla Camera dei Deputati, ai sensi dell’art. 57 dello Statuto fondamentale del Regno (Roma 1906, ripubblicata in Il voto alle donne. Le donne dall’elettorato alla partecipazione politica, Roma 1965) alla cui scrittura sembra collaborasse Maria Montessori. La Petizione affermava il diritto delle donne al voto non solo perché «cittadine» che pagavano «tasse ed imposte», ma anche perché «produttrici di ricchezza» economica e cooperatrici «coll’opera e col denaro» al buon «funzionamento dello stato», e si concludeva con un inedito richiamo alla «imposta del sangue» pagata dalle donne «nei dolori della maternità» e alla loro «speciale missione» di «amore e tutela dell’umanità nella vita pubblica». Sappiamo della presenza di Mozzoni alla seduta parlamentare del 25 febbraio 1907 che discusse l’argomento e che terminò rinviando tutto a una apposita commissione di indagine, a conferma di quella strutturale renitenza dello Stato a considerare le donne cittadine soggette al diritto comune che Mozzoni veniva denunciando da una vita e stava sperimentando anche nell’estenuante vertenza con il ministero dell’Interno avviata al cader del secolo per vedersi riconosciuto il lavoro svolto e le spese sostenute per l’inchiesta Bertani.
La vertenza si sarebbe conclusa nel 1910 con una sentenza della Cassazione di Roma a lei favorevole e con un compenso monetario risibile: ormai, però, il tempo di Anna Maria Mozzoni era finito. Le parole con cui aveva salutato il primo Congresso delle donne italiane del 1908, dicendosi fiera di quella «eletta folla di donne italiane» in cui ravvisava la sua «spirituale eredità», affondarono nell’indifferenza generale. Da allora e per altri lunghi anni la sua voce tacque, riemergendo flebile solo allo scoppio della Grande Guerra, sul versante di un interventismo di stampo mazziniano che la spinse a unirsi a Beatrice Sacchi, Irma Melany Scodnik e Anita Pagliari per dar vita a un giornale, L’Unità d’Italia, che cercò invano di salvaguardare qualche timbro democratico-risorgimentale nel mare del dilagante nazionalismo della stampa fatta da e per le italiane acculturate e borghesi. Indicativa della sua indomita volontà di «stare in campo», quell’ultima esperienza la vide tornare a ragionare, con sempre minori certezze e un evidente rimpianto per il mondo perduto, degli effetti dell’industrializzazione sui contadini-operai, della «alterazione di valori» e degli «squilibri fra luogo e luogo» che ne erano derivati, della difficoltà di rendere efficace e fruttuoso l’impegno a dare «la terra ai contadini» (1° settembre e 1° ottobre 1918).
Solo la conquista di Gerusalemme sembrò risuscitare in lei una impennata di entusiasmi antichi e di antichi linguaggi: quelli dei testi sacri così presenti negli scritti giovanili, ma anche quelli della richiesta di «eguaglianza civile e politica per tutti gli abitanti» della Palestina, che sognava impegnati «senza distinzione di razza, di sesso e di religione» a costruire una società fondata su una rete di cooperative di produttori chiamate a gestire terre e risorse naturali opportunamente nazionalizzate (ibid., supplemento al n. 4 del 1919). È l’ultimo scritto noto di Mozzoni, quasi la summa di una vita.
Morì il 14 giugno 1920, nella solitudine del Policlinico di Roma: una solitudine resa ancor più emblematica dai pochi necrologi del momento e dal lungo oblio che li seguì.
Opere: alcuni degli scritti più significativi sono antologizzati, con tagli talora consistenti, in La liberazione della donna, a cura di F. Pieroni Bortolotti, Milano 1975, e in R. Macrelli, L’indegna schiavitù. A.M. M. e la lotta contro la prostituzione di Stato, Roma 1981. Oltre agli scritti citati nel testo si ricordano: La Masque de fer (commedia), Milano 1855; Il Congresso internazionale per i diritti delle donne in Parigi, in Il Dovere, 30 giugno 1878 (riedito in Genesis, 2002, n. 1, pp. 108 s.); Parole di A.M. M. rappresentante la Lega promotrice degli interessi femminili al Comizio di Roma nei giorni 11 e 12 febbraio 1881, Roma 1881; Lasciate che le ragazze vadano al liceo con i ragazzi, in L’Italia del popolo, 21-22 settembre 1890; Ricordi e note dell’isola d’Elba, in Critica sociale, 15 gennaio - 10 maggio 1891.
Fonti e Bibl.: La lettera a Martelli è conservata (sotto l’erronea indicazione: Anna Maria Mazzoni) nel Fondo Martelli della Biblioteca Marucelliana di Firenze, Carteggi, b. 327. Per la vertenza sul compenso richiesto per la collaborazione nell’inchiesta Bertani cfr. Atti parlamentari, Camera dei deputati, Documenti, ddl 15 marzo 1911 n. 831 e n. 831-A (Relazione della Giunta generale del bilancio, 24 giugno 1911). La bibliografia più completa (ma con errori e omissioni) è quella pubblicata in appendice a S. Murari, L’idea più avanzata del secolo. Anna Maria M. e il femminismo italiano, Roma 2011, pp. 265-272. Numerose indicazioni anche in F. Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia. 1848-1892, Torino 1962 e nelle citate antologie La liberazione della donna e L’indegna schiavitù. Per le testimonianze dei contemporanei cfr. M.A. Torriani, Dietro le scene, in Il Passatempo, 1871, nn. 12-15 e 18-19 e F. Anzi, Il movimento operaio socialista italiano (1882-1894), Milano-Roma 1946, pp. 47 s. Fra i dizionari biografici i meno sommari sono O. Greco, Bibliobiografia femminile italiana del XIX secolo, Venezia 1875, pp. 346-352; Il movimento operaio italiano. Diz. biografico 1853-1943, a cura di F. Andreucci - T. Detti, Roma 1977, III ad nomen(F. Pieroni Bortolotti); Dizionario biografico delle donne lombarde, a cura di R. Farina, Milano 1995 (Id.). Tutti i saggi sulle donne e sul movimento femminile postunitario parlano di Mozzoni, a partire da E. Garin, La questione femminile nelle varie correnti ideologiche negli ultimi cento anni, in L’emancipazione femminile in Italia. Un secolo di discussioni 1861-1961, Atti del convegno ..., Torino ... 1961, Firenze 1963, che segnò il riaprirsi dell’attenzione per l’argomento. Tra gli scritti che le dedicano un’attenzione specifica, oltre a quelli già citati, cfr. P.C. Masini, Matilde Serao e Anna Maria M.: una polemica sull’emancipazione femminile, in Id., Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana, Milano 1978, pp. 277-284; A. Buttafuoco, Apolidi. Suffragismo femminile e istituzioni politiche dall’Unità al fascismo, in Cittadine. La donna e la costituzione, Atti del convegno ... 1988, Roma, 1989, pp. 5-53; F. Taricone, Salvatore Morelli e Anna Maria M., in Salvatore Morelli. Emancipazionismo e democrazia nell’Ottocento, a cura di G. Conti Odorisio, Napoli 1992, pp. 169-186; V.P. Babini - L. Lama, Una donna nuova. Il femminismo scientifico di Maria Montessori, Milano 2000, ad ind.; R. Farina, Politica, amicizie e polemiche lungo la vita di Anna Maria M., in Politica e amicizia. Relazioni, conflitti e differenze di genere (1860-1915), a cura di E. Scaramuzza, Milano 2010, pp. 55-72.