FETTI (Felti), Mariano
Nacque a Firenze nel 1460, come si deduce da una sua lettera a Lorenzo de' Medici (poi duca d'Urbino), nipote di papa Leone X, del 9 giugno 1515 in cui si dice "vecchio di 55 anni" (Cian). Che fosse barbiere di Lorenzo il Magnifico è notizia che si deve al Ragionamento delle corti di Pietro Aretino e al Testamento dell'elefante. Nel 1495 entrò nell'Ordine dei predicatori nel convento di S. Marco in Firenze (Cian), e fra gli studiosi prevale la tesi del Graf che seguisse Giovanni de' Medici, il futuro papa Leone X, a Roma all'epoca del suo cardinalato.
Le prime notizie sulla carriera di "buffone" del F., esperto in "capricci e pazie", sono tramandate dal Cortegiano di B. Castiglione: Cesare Gonzaga, proponendo come tema di conversazione la pazzia, lo cita come esperto in materia e addirittura come fondatore di una dottrina al riguardo. Del resto, lo stesso F. si conferma detentore di una speciale virtù nella lettera citata a Lorenzo: "Io quando vi tochai, immediate nato, così tenerello, in quel tochare vi detti la gratia delle pazie, che senza me non le haresti mai havute".
Ma è a Bernardo Dovizi da Bibbiena - di cui il F. si dice "maestro" nella lettera del 29 genn. 1513 (Luzio) - che si deve uno squarcio informativo sul repertorio del F.: "io fui già converso in un fonte, non d'alcuno degli antichi Dei, ma dal nostro fra Mariano", racconta in Cortegiano, I,XLIV, 36, alludendo ad una "piacevolezza intervenuta in Roma... a tutti" allora "notissima", ma oggi non ulteriormente ricostruibile. Ed è sempre il Bibbiena a inserire il F. nell'elenco degli "omini piacevoli" in II, LXXXIX, 35, insieme ai burlatori del passato, come Gonella e il Meliolo, e del presente, come quel frate Serafino "che nel più raccolto ambiente della corte urbinate ripete le rabelaisiane buffonerie di fra Mariano a Roma" (Apollonio).
Testimonianze altrettanto parsimoniose sulle performances di buffone del F., ma significative della loro qualità, risalgono agli anni che Federico, primogenito di Isabella d'Este e Francesco Gonzaga marchesi di Mantova, trascorse come ostaggio dell'imperatore e del re di Francia presso la corte pontificia di Giulio II. Il F., passato alla storia come il "buffone di Leone X", era dunque attivo e molto noto già durante il pontificato del papa precedente: al 4 luglio 1512 risalgono due lettere ad Isabella, ansiosa di avere minuziose notizie del figlio (ambedue edite in Luzio). V. Grossino la informa che "Monsignor l'arcivescovo di Napoli dui di fa menò il signor Federico a una sua vigna a Monte Cavallo ... E frate Mariano vi era che coni li soi caprizi fece rider assai". Stazio Gadio aggiunge qualche informazione sul F. che "fece qualche piacevoleza per far ridere benché mal possa scherzare perché è mal sano"; di malattie il F. si lamenta anche nella lett. del 29 genn. 1513 e in quella del 24 dic. 1524 (Rossi) in cui si dice "malato in fine di morte di male della pietra".
Nel carnevale 1513 il F. consolidò la sua posizione di buffone favorito: il Grossino, in una lettera del 10 gennaio (Luzio) conferma alla marchesa la fortuna del F. e la sua alleanza con il Bibbiena e al marchese, in una lettera dello stesso giorno (sempre in Luzio), descrive con maggiori dettagli i capricci del F., seduto in un banchetto addirittura a capotavola in assoluta familiarità con vescovi e cardinali ("Frate Mariano capo di tavola fece de le pacie a suo modo in quantità; a mezo la zena a l'improviso saltò in pede in su la tavola, corendo in fino di capo, menando di man a cardinali, a veschovi; non sparamiava niuno"). L'11 gennaio Stazio Gadio informando, il marchese che Federico, la domenica precedente, è stato a cena dal "monsignor reverendissimo di Mantua", sembra accennare con stanchezza alle "pacie" del F. ("che altramente ove è frate Mariano non si po' fare"), ma nello stesso tempo offre una rara indicazione sulla comicità di tipo prevalentemente gastronomico del F., incarnazione dei tanti parassiti di commedia e precursore di un "numero" che sarà tipico dei comici dell'arte: "alla secunda vivanda, li polastri volavano per la tavola caciati dal frate, poi da li preti; con li sapori et minestre se dipingevano li volti et panni" (Luzio).
Anche in questa occasione compare Bernardo da Bibbiena, accoppiato al F. nell'interpretazione in stile comico di un'"urgenza aggressiva", di un "tumulto inesausto": "egli è, nei "capricci" dell'intelletto quello che fra Mariano nei "capricci" dei gesti: la trovata comica del Dovizi portava scompiglio nelle categorie intellettuali, come le trovate del Fetti sconvolgevano le adunanze eleganti" (Apollonio).
Nel gennaio 1513 il cardinale Giovanni de' Medici chiamò a Firenze, dove si trovava, il F. affinché preparasse per il carnevale "triomphi, comoedie et moresche di mano dello abbate di Gaieta principe et inventore d'una nuova pazia"; l'abate è quel Cosimo Baraballo che, a dorso d'elefante, fu incoronato archipoeta "tra le odi beffarde dei letterati e le risa dei cortigiani" (Cruciani, 1983), e a cui si dedicò una rappresentazione di cui resta il Prologus in comoediam habitam in coronatione Baraballi di F. Beroaldo (Roma, Blado, 1530), e in cui si nomina tra gli altri buffoni anche fra' Mariano. L'elefante morì poco dopo la recita e fu oggetto di satira nel Testamento, attribuito da V. Rossi all'Aretino, di cui tra gli esecutori testamentari figura "fra Marian altre volte barbier de la diocese fiorentina".
La già citata lettera del F. del 29 genn. 1513 dal convento di S. Marco a Firenze è uno dei pochi documenti autografi e permette di ricostruire la sua giovinezza fiorentina, trascorsa tra "capricci facti in questo palazo et in questa magna città", all'insegna degli "incapriccati ingegni", e la maturità romana, scandita da "le magne cene et feste facte alli signori cardinali", interrotte "in sul bello del triompho" dalla perdita dei "du elementi principali, messer Bernardo da Biena [sic] et fra Mariano suo maestro", costretto quest'ultimo alla partenza, benché vecchio "et mezo malato", dalla volontà del padrone. Certo tono "pensoso" che l'Apollonio intravede nella "turbolenza gaudiosa e minacciosa di fra' Mariano, imperversante a tempo di danza sopra le tavole pontificali e prelatizie", affiora nel desiderio dell'anziano buffone di tornare "doppo camovale ... al mio convento et frati". Ma questa vena malinconica è presto sopraffatta da altri motivi, dall'encomio cortigiano a fine utilitaristico alla prima testimonianza di una grande passione per l'arte (che gli fa desiderare di recarsi presso il marchese a godersi "accapriccando tutta la palazzina vostra composta di camei, cinamomi et triumphatio petrarcorum. picturas Andreas Mantegnis gloria mantuanis") alla riaffermazione dell'altra grande passione, quella per il cibo.
Il 20 febbr. 1513 Giovanni de' Medici fu eletto papa con il nome di Leone X e probabilmente il F. rientrò allora in Roma: da allora divenne inseparabile compagno del pontefice a tavola, nelle feste, a caccia. Restano testimonianze (Gnoli, 1938) della sua partecipazione alla caccia organizzata il 17 genn. 1514 a Canino dal cardinal A. Farnese e a quella del novembre 1520 a Palo: in ambedue le occasioni il F. viene ritratto in situazione comica, o caduto giù dalla mula in un fosso colmo di fango nel primo caso, o appollaiato su un cipresso, ben provvisto di vino nel secondo. Da queste immagini emerge una problematica del "buffone", in bilico tra scena e realtà, tra virtualità teatrale ed'effettualità della vita, tra professionismo e quotidiano.
Finalmente, salito al soglio pontificio il Medici, il F. fu largamente ricompensato: Leone X lo chiamò a succedere al Bramante, poco dopo la morte di quest'ultimo, nell'ufficio del Piombo, carica molto remunerativa e di nessun impegno tanto che per tradizione si affidava ad artisti, perché potessero tranquillamente continuare ad occuparsi delle loro imprese. Testimonianza diretta della lucrosità dell'incarico è nella lettera del F. del 10 genn. 1519 al marchese di Mantova, da Roma, a firma "Frate Mariano Piombatore" (Luzio): in essa egli ironizza sul fatto "che in mia vecchiaia mi son posto all'archimista. Questo è che del piombo ne fo oro, et rendemi l'anno questa mia bottega 800 ducati d'oro".
Il 6 maggio 1514 il F. fu trasferito con bolla papale dall'Ordine domenicano all'Ordine dei cistercensi presso il convento di S. Silvestro "in Esquiliis de urbe", a Monte Cavallo (Rossi). Ma in realtà il F. usava molto liberamente degli appartamenti papali, grazie ad una posizione di, potere e privilegio ormai consolidata.
Del resto, questa posizione di favore, eccezionale per un buffone, fa fede di un'indiscutibile notorietà, di un'emblematicità comica già leggendaria. La rappresentazione dei Suppositi dell'Ariosto, con le scene di Raffaello, avvenuta negli appartamenti del cardinale I. Cibo in Vaticano, sembra di fronte a 2.000 spettatori scelti personalmente dal papa, fu l'evento più atteso del carnevale 1519: ebbene, sul sipario che, prima dell'inizio della rappresentazione, nascondeva le magnifiche scene, erano dipinti "li capreci di fra Mariano" e lo stesso frate "con alcuni diavoli che giugavano con esso da ogni lato de la tela" (lettera di A. Paolucci da Roma al duca di Ferrara dell'8 marzo 1519: cfr. Cruciani).
Analogamente, il F. fu tra i pochi eletti a partecipare, insieme col buffone Brandino, detto Cordiale, a un avvenimento di eccezionale originalità per Roma: la cena "lugubre" organizzata da Lorenzo di Filippo Strozzi per "quatro reverendissimi cardinali, zoè Rossi, Cibo, Salviati et Redolfi, tutti nepoti et zermani dil Papa, et certi altri fiorentini bufoni et tre putane", che trovò in T. Lippomano, relatore veneto, un testimone non oculare ma partecipe (lettera da Roma del 13 marzo 1519: Cruciani, 1983). La grande beffa, "una vera e propria farsa" inusuale per Roma, a Firenze è un uso e Cruciani ne ricostruisce i precedenti e la natura di "spettacolo privatissimo"; Andrea Gareffi sottolinea l'"animus savonaroliano" del suo regista, la sua "aspirazione ad una renovatio".
Una lettera del 21 dic. 1521 (cfr. Cesareo) liquida severamente il pontificato di Leone X: "non è mai morto papa cum peggiore fama... perché è proprio morto da cane senza confessione et comunione, et frate Mariano buffone li raccomandava l'anima". Al prologo della Rodiana di A. Calmo si deve invece un ricordo più svagato del F. e del suo papa, dinanzi al quale il buffone esclama: "Viviamo, babbo santo, che ogni altra cosa è burla". Il breve e terribile pontificato di Adriano VI vide il F. protagonista di una delle poche pasquinate del periodo, la Confessione di mastro Pasquino a fra M. martire e confessore (Cesareo): ruolo non inusuale per il F. in molte composizioni popolareggianti di questo tipo.
Riuscì a mantenere la sua posizione di prestigio anche durante il pontificato di Clemente VII: le ultime testimonianze vertono soprattutto sulla passione per l'arte e la vocazione di mecenate che il F. coltivò sempre. Il suo giardino a Monte Cavallo è già una piccola opera d'arte, se l'Aretino nella III giornata del Dialogo lomette a paragone con quello "del Chisi in Trastevere".
Qui il Peruzzi fece un S. Bernardo di terracotta; fra Bartolomeo Della Porta due quadri dei Ss. Pietro e Paolo; Mariotto Albertinelli una tavola ad olio con lo Sposalizio di s. Caterina;Polidoro da Caravaggio e Maturino Fiorentino due Storie di s. Maria Maddalena, secondo il minuzioso elenco compilato da D. Gnoli.
Della morte del F. si ha notizia indiretta da una lettera del 4 dic. 1531 di Sebastiano Luciani all'Aretino (Graf), in cui il pittore lo informa di essere succeduto al F. nell'incarico di "frate piombatore" (donde il soprannome "del Piombo"). La notizia è confermata da una precedente lettera del 2 dic. 1531, sempre all'Aretino, di G. Schio, vescovo di Vaison, che si dice "essecutore del suo testamento" e soprattutto in possesso del "secreto de li capricci suoi"; ma nei fatti, in materia di capricci, non restano che le congetture sulla battuta della Cortigiana, 1525, dell'Aretino (in atto I, scena quarta, il Furfante tra le "Istorie" che vende ha anche "i caprici de fra Mariano in ottava rima").
Fonti e Bibl.: A. Luzio, Federico Gonzaga ostaggio alla corte di Giulio II, in Arch. d. R. Soc. romana di st. patria, IX (1886), pp. 509-82; A. Graf, Attraverso il Cinquecento, Torino 1888, pp. 367-94; D. Gnoli, Raffaello alla corte di Leon X, in Nuova Antologia, 16 apr. 1888, p. 585; V. Rossi, Introd. a Le lettere di messer Andrea Calmo, Torino 1888, pp. 63 ss.; Id., Un elefante famoso, in Intermezzo, Torino 1890, p. 13; G. Taormina, Un frate alla corte di Leon X, Palermo 1890; D. Gnoli, La cappella di fra' M., in Arch. st. dell'arte, IV(1891), pp. 117-26; V. Rossi, Pasquinate di P. Aretino ed anonime per il conclave e l'elezione di Adriano VI, Palermo-Torino 1891, pp. 15, 49 s., 84-94, 154-58, 164, 167; E. Rodocanachi, Courtisanes et bouffons, Paris 1894, pp. 129-64; G. A. Cesareo, Pasquino e pasquinate nella Roma di Leone X, Roma 1938, passim; D. Gnoli, La Roma di Leone X, Milano,1938,pp. 217-65; M. Apollonio, Storia del teatro ital., Firenze 1940, II, pp. 18, 35 ss., 75, 256; A. G. Bragaglia, Maschere romane, Roma 1947, p. 32; V. Cian, Introd. a B. Castiglione, Illibro del cortegiano, Firenze s.d. [1947], pp. 520 s.; F. Cruciani-F. Taviani, Discorso preliminare per una ricerca in collaborazione, in Quaderni di teatro, II,marzo 1980, 7, pp. 31-66; F. Cruciani, Materiali del teatro-teatro materiale: la scena, gli attori, ibid., III, novembre 1980, 10, pp. 76-86; A. Gareffi, Introd. a L. Strozzi, Commedie, Ravenna 1980, pp. 27 s.; F. Cruciani, Teatro nel Rinascimento. Roma 1450-1550, Roma 1983, passim.