Monroe, Marilyn
Nome d'arte di Norma Jean (Jeane) Baker o Mortenson, nata a Los Angeles il 1° giugno 1926 e morta a Santa Monica (Los Angeles) il 5 agosto 1962. Per molti versi la figura in cui si sono concentrate tutte le contraddizioni, le fantasie, l'originalità, l'attrazione profonda, l'assoluta fascinazione che danno origine al mito cinematografico, quel punto di misterioso contatto in cui la finzione, ossia il personaggio costruito, si fonde con la realtà nascosta, molto spesso dolorosa, di un'individualità singola, lasciando emergere squarci di sconcertante autenticità. Con il suo fascino estremo e al contempo infantile, giocato sul gusto di piacere, costantemente esibito con conturbante sensualità, privo di ogni minaccia aggressiva e pervaso di fragilità e insicurezze, la M. dominò incontrastata i sogni e i desideri sessuali del pubblico degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, rappresentando l'immaginario erotico nell'intera gamma di negate e prepotenti pulsioni. Ma la sua immagine, fissata e riproposta in innumerevoli foto di copertina e in raffinati servizi fotografici, poi consacrata e serializzata da Andy Warhol, complici una vita presentata come un feuilleton e tragicamente interrotta da una morte avvolta nel mistero, ha acquisito un'immortalità mediatica che prescinde dai ruoli e dai film interpretati, dai registi che la diressero e dagli stessi eventi che la segnarono e la travolsero, e si basa sulla bellezza assoluta della bionda diva dallo sguardo morbidamente languido e dalla complessa personalità che appartiene ormai a ogni tempo.
Figlia di Gladys Monroe e di padre ignoto (probabilmente Stanley Gifford, impiegato alla Consolidated Film Industries come Gladys, mentre Baker e Mortenson erano i cognomi rispettivamente del primo e del secondo marito della donna), rimase ben presto priva delle cure della madre (che venne internata in una clinica per malattie mentali) e trascorse l'infanzia e l'adolescenza affidata a famiglie adottive e, per un periodo, a un orfanotrofio dove si sentì poco amata e infelice. Una volta diventata famosa sarebbe tornata spesso, nelle interviste rilasciate, su questi eventi per lo più traumatici (tra i quali una violenza subita da bambina) che, al di là dell'attendibilità del ricordo, rivelano solitudine e sperdimento. Alla ricerca di una stabilità affettiva accettò di sposare nel 1942 il giovane meccanico Jim Dougherty e nel 1944, mentre il marito era al fronte, cominciò a lavorare in uno stabilimento militare dove si fabbricavano paracadute. Le foto che le vennero scattate da D. Conover, inviato per realizzare un servizio sulle operaie, attirarono immediatamente l'attenzione e la giovane venne reclutata dalla prestigiosa Blue Book Model Agency. Disciplinata e decisa ad assecondare i suggerimenti di chi intendeva valorizzarla attraverso l'obiettivo (come il fotografo A. de Dienes), in breve si propose con la maliziosa sicurezza della pin-up in grado di esaltare e al tempo stesso superare i limiti dell'immagine fissa provocando un clamoroso impatto sul pubblico. Era iniziato un periodo esaltante e difficile: nel 1946 infatti Norma Jean ottenne il divorzio, un contratto con la 20th Century-Fox, un nuovo nome (Marilyn Monroe) e, per molti versi, una nuova identità. Quella della bionda starlette dalla camminata ancheggiante e flessuosa, dal tono di voce sussurrato e sexy. Mentre affrontava i suoi primi impegni cinematografici (la commedia Scudda-hoo! Scudda-hay!, uscita solo nel 1948, di F. Hugh Herbert, in cui appare di sfuggita in un'inquadratura; una piccola parte in Dangerous years, 1947, di Arthur Pierson), contemporaneamente seguiva i corsi di teatro presso l'Actors Lab di Los Angeles. Licenziata dalla casa di produzione, grazie all'interessamento del potente Joseph Schenk, cofondatore della Fox, ottenne presso la Columbia Pictures una parte di rilievo nel musical a basso costo Ladies of the chorus (1948; Orchidea bionda) di Phil Karlson. Fu quindi l'agente cinematografico Johnny Hyde a farle ottenere ruoli ben più significativi dopo averla notata in una breve ma sfolgorante apparizione al fianco di Groucho Marx in Love happy (1949; Una notte sui tetti) di David Miller: dapprima in The asphalt jungle (1950; Giungla d'asfalto) di John Huston, quello di Angela, l'amante a un tempo provocante e infantile di un losco e maturo avvocato (Louis Calhern), e quindi quello inconsapevolmente autoironico di un'ambiziosa attricetta in All about Eve (1950; Eva contro Eva) di Joseph L. Mankiewicz. Gli altri film del periodo sembrarono invece imprigionarla nel cliché della bionda vistosa e svampita, destinata a suscitare l'interesse degli uomini ma anche una vena di crudele sarcasmo, dal quale sembrò liberarsi con il bel personaggio di una giovane donna sensibile interpretato nel 1952 per la RKO nel melodramma Clash by night (La confessione della signora Doyle) di Fritz Lang. In quello stesso anno si moltiplicarono le occasioni per consolidare il sempre più consistente favore del pubblico ormai infatuato della giovane promessa. Da un lato l'attrice s'impegnò a calibrare le sue doti drammatiche nel confuso mélo dai risvolti psicoanalitici Don't bother to knock (La tua bocca brucia) di Roy Ward Baker, e in The cop and the anthem di Henry Koster, episodio del collettivo O. Henry's full house (La giostra umana), in cui disegna una sfrontata prostituta. Dall'altro poté perfezionare il suo innato talento comico in We're not married (Matrimoni a sorpresa) di Edmund Goulding, ma soprattutto in Monkey business (Il magnifico scherzo) di Howard Hawks, irresistibile apoteosi del suo ruolo di segretaria sexy. Nel frattempo moltiplicava i suoi sforzi per perfezionarsi (aveva accanto a sé, dai tempi di Ladies of the chorus, una maestra di recitazione, Natasha Lytess), divorata dall'ansia di colmare i propri limiti culturali.
Trasformato in pubblicità l'improvviso scandalo causato dalla diffusione delle foto di nudo che T. Kelley le aveva scattato nel 1949 e che erano state utilizzate per il calendario Golden dreams del 1950, la M. si affermò definitivamente con il personaggio per lei anomalo di una dark lady in Niagara (1953) di Henry Hathaway: fasciata in un abito rosso fiamma, sfacciata ed eccessiva mentre si abbandona alle note della canzone Kiss o quando si allontana lungo la strada indulgendo nella sua tipica andatura, inseguita dalla macchina da presa in una lunga carrellata. Il successo fu enorme ma la consacrazione assoluta doveva arrivare grazie ad altri due film interpretati nel 1953 e in cui risultano calibrati in un'estrema sintesi tutti gli elementi che più o meno confusamente avevano caratterizzato i suoi precedenti personaggi: il brioso cinismo, la superficialità assoluta, la calcolata capitalizzazione della propria bellezza in una voluta esasperazione comica destinata a suscitare nel pubblico un'indulgente sensazione di superiorità. Nella scintillante commedia dagli umori taglienti Gentlemen prefer blondes (Gli uomini preferiscono le bionde) di Hawks, vivacizzata da brillanti numeri musicali (su tutti Diamonds are a girl's best friend e Bye bye baby cantati dalla M.), su tali caratteristiche è costruita la biondissima e rapace Lorelei, perfetta metà complementare della giunonica, protettiva e bruna Dorothy (Jane Russell). Lo schema del film si ripete anche nel più convenzionale How to marry a millionaire (Come sposare un milionario) diretto da Jean Negulesco, che intreccia la storia di tre amiche impegnate nella ricerca del matrimonio economicamente risolutivo. In questo gioco di stereotipi l'esile figura di gold digger della M. (la cui bellezza abbagliante viene celebrata dalla scelta inusuale per una commedia di un formato come il Cinemascope) è costruita sulla blanda gag della miopia e del rifiuto degli occhiali. Malgrado il rinnovato successo, il bisogno della diva di confrontarsi con ruoli più stimolanti si scontrò con la rigidità di Darryl F. Zanuck che le impose di interpretare l'anomalo western, dai risvolti intimisti, River of no return (1954; La magnifica preda) di Otto Preminger in cui le fece riproporre, in un'infinita, calcolata ripetizione, la figura della ballerina, in questo caso dominata da desideri di riscatto e di maternità. La M. non amò questo film e rifiutò di girare il successivo Pink tights, mentre accettò di prendere parte al musical There's no business like show business (1954; Follie dell'anno) di Walter Lang in cui si propose in un conturbante numero musicale, suscitando un notevole clamore. Nel frattempo era scoppiato il grande amore tra la star e l'introverso campione di baseball Joe DiMaggio. Il matrimonio della coppia, celebrato agli inizi del 1954, fu racchiuso tra due eventi di grande clamore pubblico: il viaggio in Giappone durante la luna di miele con l'invito rivolto alla M. a fare una breve tappa in Corea per intrattenere le truppe e la famosa scena della metropolitana di The seven year itch (1955; Quando la moglie è in vacanza), girata da Billy Wilder nel settembre del 1954, con l'aria della grata che, nel sollevarle la gonna, provocò un delirio nella folla presente e l'umiliazione di DiMaggio, accelerando di fatto la fine del loro legame. Il film stigmatizza le debolezze e i desideri dell'americano medio, imprigionandolo tra suggestioni metacinematografiche e il fascino di Marilyn, chiamata a impersonare The girl, la ragazza senza nome dal forte e giocoso potere seduttivo, ma anche ad alludere esplicitamente a sé stessa, in quanto acclamata star del cinema e gioiosa incarnazione della sessualità.
Decisa comunque a dare un più profondo spessore al suo lavoro di attrice, la M. si recò nel 1955 a New York per seguire le lezioni di Lee Strasberg all'Actors Sudio. Volle inoltre dar vita a una propria casa di produzione con il fotografo di moda M. Greene, interrompendo il contratto con la 20th Century-Fox che le imponeva parti considerate riduttive e umilianti. La major fu così costretta a concederle un nuovo contratto che la impegnava a girare quattro film in sette anni consentendole di approvare i copioni e di lavorare con registi che incontrassero il suo favore. Il primo esito di questo accordo fu Bus stop (1956; Fermata d'autobus) di Joshua Logan, il risultato più personale e sereno della carriera dell'attrice e la convincente dimostrazione della sua capacità di sfumare i tratti comici in una dolente umanità ("qualcosa tra Chaplin e James Dean", F. Truffaut, Les films de ma vie, 1975; trad. it. 1978, p. 157). Tratto da una pièce di W. Inge, ma modellato dallo sceneggiatore George Axelrod sulla personalità della M., il film risulta impreziosito dalla sua totale immedesimazione nella dolce ballerina Chérie, dal patetico e scarso talento, proiettata verso Hollywood da un sogno impossibile, costretta a esibirsi in locali di infimo ordine e segnata per la stanchezza da un innaturale pallore. Frattanto il suo nuovo legame con il commediografo Arthur Miller aveva suscitato il morboso interesse della stampa pronta a ironizzare sull'amore tra il brillante intellettuale e la diva, così come irrideva i tentativi dell'attrice di cimentarsi in parti più impegnative. Perseguitato dalla Commissione McCarthy e privato del passaporto, Miller poté invece seguire la M. in Inghilterra sul set del suo film The prince and the showgirl (1957; Il principe e la ballerina) di Laurence Olivier, in quanto l'eco del matrimonio fra i due fu tale che le autorità non osarono dividere la famosa coppia. I rapporti non facili con Olivier (infastidito per la presenza della nuova maestra di recitazione dell'attrice, Paula Strasberg) e l'affiorare delle prime incomprensioni con Miller pesarono sulla M., che pure appare luminosa nell'animare l'ennesima figura di ballerina in grado di conquistare con il suo vivace candore il freddo reggente di Carpazia (interpretato dallo stesso Olivier).
Fu però solo dopo due anni trascorsi tra devastanti crisi personali che poté tornare a recitare sul grande schermo, nuovamente diretta da Wilder. Se il risultato fu il capolavoro della commedia Some like it hot (1959; A qualcuno piace caldo), farsa vivace, in un bianco e nero ricco e pastoso, dell'America del proibizionismo e del cinema dei gangster, la lavorazione risultò drammatica per i cronici ritardi dell'attrice, le sue paure, le improvvise amnesie. Allo stesso tempo mai era apparsa così evidente la sua estrema padronanza dei tempi comici (che le valse un Golden Globe e le venne riconosciuta dallo stesso Wilder) come nel dare vita alla deliziosa suonatrice di ukulele Sugar Kane, vittima prediletta di sassofonisti senza scrupoli e di troppi alcolici, che canta con irresistibile sex appeal I wanna be loved by you e con la sua sola presenza rende ancora più paradossale la situazione dei due jazzisti di quart'ordine (Tony Curtis e Jack Lemmon) costretti a fingersi donne per sfuggire a morte sicura in quanto testimoni involontari a Chicago della famigerata strage di San Valentino. Nel film successivo, Let's make love (1960; Facciamo l'amore), una garbata commedia musicale diretta da George Cukor, l'attrice fu affiancata da un affascinante Yves Montand con il quale ebbe un flirt ampiamente pubblicizzato dalla major. Ma l'appuntamento tanto atteso, carico di aspettative e su cui drammaticamente si riverberarono i tragici eventi successivi, fu quello con The misfits (1961; Gli spostati) diretto da Huston su sceneggiatura di Miller. In questo universo maschile piuttosto convenzionale, in cui alcuni cowboys moderni sono costretti a cacciare cavalli destinati a diventare cibo per cani, il personaggio più reale e intenso, perturbante con la sua emotività esplosiva e volutamente costruito per mettere a nudo la sensibilità dell'attrice, è proprio quello di Roslyn, cui la M. aderì senza difese, portando alle estreme conseguenze il 'metodo' strasberghiano e rivelando una bellezza improvvisamente sofferta, splendidamente colta dal bianco e nero di Russell Metty.
La morte di Clark Gable (interprete del film e padre immaginario dell'attrice nei suoi sogni da bambina) poco dopo la fine delle riprese e il divorzio da Miller gettarono la M. in una spirale di depressione e i mesi successivi furono segnati da un inarrestabile male di vivere di fronte al susseguirsi degli eventi. Tra questi, il ricovero avvenuto agli inizi del 1961 al Payne-Whitney di New York, un ospedale per malattie mentali, subìto come una devastante prigionia e da cui sarebbe uscita per l'intervento di DiMaggio. Il tentativo di riprendere a recitare con Something's got to give, per la regia di Cukor e accanto all'amico Dean Martin, con le splendide foto di nudo scattate sul set ai bordi della piscina, in cui l'attrice sembra offrirsi in un'ultima gioiosa resa di sé al mondo intero. L'abuso di farmaci, le continue assenze durante la lavorazione del film, compresa quella famosa del 19 maggio 1962 per cantare come una bambola vuota Happy birthday al Madison Square Garden in occasione del compleanno del presidente John F. Kennedy. I chiacchierati rapporti con quest'ultimo e quelli presunti con il fratello di lui, Robert. Infine il licenziamento dal set da parte della Fox e, di fronte all'opposizione di Dean Martin, la decisione di riassumere l'attrice.
Il clamore suscitato dal presunto suicidio fu tale che immediatamente vennero avanzate le ipotesi più diverse, compresa, più tardi, quella dell'omicidio, con una curiosità e una psicosi da isteria collettiva che provocarono un distacco sempre più profondo dalla tormentata individualità della donna, divenuta suggestiva fonte di ispirazione per artisti oltre che inesauribile 'caso giornalistico'. Su di lei infatti negli anni non si è mai cessato di scrivere: dal dramma di Miller After the fall (1964) al romanzo Blonde (2000) di J.C. Oates. Passando per i versi dell'Oración por Marilyn Monroe (1965) scritta dal poeta nicaraguense E. Cardenal e per le belle pagine dedicatele in Music for chameleons (1975) da T. Capote che, nel ricordare un pomeriggio trascorso con lei nel 1955, la descrive come una "bellissima bambina" dalle mille insicurezze e dal linguaggio spesso sboccato, capace però di rispondere con disarmante dolore a un passante che le consigliava di non toccare cani sconosciuti: "I cani non mi mordono mai. Solo gli esseri umani" (trad. it. 2000, p. 239).
Nell'ambito dello sterminato numero di opere dedicate alla vita dell'attrice, ai suoi film, alle ipotesi sulle circostanze della morte, all'analisi del mito, oltre al testo di B. Hecht, basato sulle dichiarazioni della M. e pubblicato per la prima volta nel 1954 a puntate sull'"Empire news", poi in volume con il titolo M. Monroe, My story, New York 1974, 2000², v.:
J. Franklin, L. Palmer, The Marilyn Monroe story, New York 1953.
S. Skolski, Marilyn, New York 1954.
M. Zolotow, Marilyn Monroe, New York 1960, nuova ed. riv. 1990.
J. Goode, The story of The misfits, Indianapolis 1963.
The films of Marilyn Monroe, ed. M. Conway, M. Ricci, New York 1964 (trad. it. Roma 1992, con saggio di E. Magrelli).
E.P. Hoyt, Marilyn, the tragic Venus, New York 1965, nuova ed. Radnor (PA) 1973.
F.L. Guiles, Norma Jean: the life of Marilyn Monroe, New York 1969.
A. Kyrou, Marilyn Monroe, Paris 1972.
N. Mailer, Marilyn, New York 1973, 1987² (trad. it. Milano 1982).
J. Mellen, Marilyn Monroe, New York 1973 (trad. it. Milano 1975).
R.F. Slatzer, The life and curious death of Marilyn Monroe, New York 1974.
A. Summers, Goddess. The secret lives of Marilyn Monroe, New York 1985.
A. Miller, Timebends: a life, Franklin Center (PA) 1987 (trad. it. Milano 1988).
G. McCann, Marilyn Monroe, Cambridge 1988.
S. Strasberg, Marilyn and me. Sisters, rivals, friends, New York 1992.
D. Spoto, Marilyn Monroe. The biography, New York 1993 (trad. it. Milano 1994).
C. Ascione, Marilyn Monroe, Roma 1996.
A. Victor, The Marilyn encyclopedia, New York 1999.
C. Kidder, Marilyn memorabilia: putting a price on the princeless performer, Iola (WI) 2002.