Sanudo, Marin
Detto il Giovane per distinguerlo dal suo omonimo, operante nella prima metà del 14° secolo. Nacque nel 1466 a Venezia da un’antica famiglia del patriziato veneto e, anche se perse il padre all’età di dieci anni, ebbe la possibilità di frequentare le migliori scuole del tempo, e di diventare allievo di tutti i grandi umanisti che davano lustro alla città lagunare, da Giorgio Merula a Leonardo Giustinian a Ermolao Barbaro. Già a quindici anni componeva Memorabilia deorum dearumque, erudita compilazione mitologica da far risalire a modelli boccacciani, e soprattutto iniziava a raccogliere e trascrivere testi di ogni tipo, fino ad assemblare una biblioteca già famosa ai suoi tempi, arrivata a contare più di seimila volumi, ma anche quadri, disegni, carte geografiche.
A seguito di un viaggio nella terraferma veneta e in Istria, in cui accompagnò il cugino Marco inviato dalla Repubblica, S. scrisse nel 1483 un Itinerarium cum sindycis terrae firmae, e l’anno dopo produsse in volgare la sua prima opera storica, i Commentari della guerra di Ferrara, incentrati sullo scontro appena concluso con Ercole d’Este e dedicati al doge Giovanni Mocenigo. Se la prima operetta, ricca di descrizioni geografiche e aneddotiche, fa chiaramente riferimento a modelli moderni – l’Italia illustrata di Biondo Flavio, stampata dieci anni prima – i Commentari richiamano fin dal titolo l’opera di Cesare, ben presente nella cultura umanistica di quegli anni, e certamente fonte di un precipuo interesse storiografico sul passato più recente che S. coltiverà per tutta la vita. Allo stesso periodo si fa risalire la prima stesura del De origine, situ et magistratibus urbis venetae, opera descrittiva mai definitivamente pubblicata dall’autore, e a lungo rielaborata e accresciuta. Una versione di tale opera, alla quale si può riconoscere il merito di aver contribuito all’ammodernamento delle vecchie Laudes civitatum adattandolo a nuove esigenze topografiche e documentarie, fu dedicata nel 1493 al doge Agostino Barbarigo.
In quell’anno S. stava già lavorando a una delle sue opere più ambiziose, Le vite dei dogi, dove si proponeva di ricostruire tutta la storia della città attraverso la successione dei dogi dal 7° sec., e dove apertamente si confrontava, pur usando la lingua volgare, con simili prove di illustri contemporanei come i Rerum Venetarum ab urbe condita libri XXXIII di Marcantonio Sabellico, pubblicati nel 1487, o il De origine urbis Venetiarum di Bernardo Giustinian, di poco posteriore. Qui S. fece confluire materiali delle sue stesse operette precedenti, i Commentari e il De origine, e, abbandonato il modello cesariano del commentario, si accostò a una tipologia storiografica più vicina ai canoni umanistici, frutto di un solido progetto in cui la ricostruzione di una vicenda tutta proiettata all’esterno e gli ampi discorsi affidati ai protagonisti della storia si incaricano di sostenerel’ideologia politica propria della città. È in quegli anni infatti che anche a Venezia si avvertiva l’esigenza di una storiografia ‘pubblica’, alla quale, sul modello della Laudatio bruniana, si potesse affidare il compito di giustificare le scelte politiche e le necessità territoriali dello Stato. S. lavorò alle sue Vite almeno fino al 1530, producendo una narrazione di mole ingente, parte della quale è andata perduta, e la cui vicenda editoriale, avviata già da Ludovico Antonio Muratori, si è conclusa solo in anni recenti, per opera di Angela Caracciolo Aricò.
Di lì a poco, comunque, la prevista e temuta discesa in Italia di Carlo VIII fece sentire di nuovo preponderante l’urgenza di una storia forgiata sulla contemporaneità. S. volle essere diretto testimone degli eventi, e si recò prima a Milano e poi a Novara fra il 1494 e il 1495: ne nacque La spedizione di Carlo VIII in Italia, opera ricchissima di notizie e di precisi riferimenti, in cui l’autore torna a una struttura meno classicamente preordinata, più simile al modello del commentario e più vicina ai fatti narrati, a lui evidentemente più congeniale. Dedicata al doge Barbarigo già all’inizio del 1496, La spedizione subì poi il plagio di Marco Guazzo nel 1547, ed è stata attribuita nuovamente a S. solo nel 1873, in una edizione curata da Rinaldo Fulin. Per l’autore la narrazione della discesa di Carlo VIII fu comunque fondamentalmente l’avvio di un nuovo lavoro storiografico di ampio respiro, condotto nelle stesse modalità: se La spedizione si conclude il 31 dicembre 1495, dal 1° gennaio 1496 prendono infatti inizio i Diari, l’altra opera storica, insieme alle Vite, che accompagnerà S. lungo tutta la sua esistenza. E se La spedizione si presenta come un immediato e scarsamente organizzato resoconto di eventi recentissimi, i Diari cresceranno come un accumulo spesso disordinato e confuso di testimonianze dirette, di lettere, documenti e relazioni, ma anche di ragguagli su opere pubbliche e in genere sulla vita della città e sulle abitudini dei suoi abitanti: un patrimonio cronachistico e documentario fra i più estesi e preziosi dell’epoca, giunto a contare ben 58 volumi in folio che sono stati pubblicati dalla Regia deputazione veneta di storia patria fra il 1879 e il 1903.
Negli anni in cui cominciò la stesura dei Diari, per S. iniziò anche una carriera politica che lo vide, come tanti altri giovani suoi pari, più volte fra i «Savi agli Ordini» o «Camerlengo». Ma S., a differenza di altri che non gli erano superiori per censo, lignaggio o cultura, non arrivò mai alle più alte magistrature degli ordinamenti veneziani: forse giocò a suo sfavore un carattere rigido e poco incline al compromesso, o forse una condotta morale non del tutto irreprensibile; in ogni caso non è dato capire se l’aperto dissenso con il governo della Repubblica, più volte manifestato negli ultimi anni, sia il risultato o la causa di un cursus honorum non certo soddisfacente. L’impegno politico non distolse comunque S. dalla scrittura; anzi, la stesura delle Vite e dei Diari fu per molti anni intrecciata e quasi sostenuta dall’attività civile, in un connubio strettissimo che ricorda, per certi versi, quello di M. negli anni della Segreteria. Tanto è vero che la delusione più forte dovette essere, per S., non tanto per una carriera politica di basso profilo, quanto per non avere mai ottenuto l’incarico di storico ufficiale della Repubblica veneta.
Infatti, nonostante che nell’agosto del 1515 il Consiglio dei Dieci avesse ufficialmente concesso a S. la possibilità di consultare gli archivi segreti del governo per la stesura delle sue opere, solo cinque mesi dopo lo stesso Consiglio affidò al più giovane Andrea Navagero l’incarico di redigere una storia della città. Alla morte di quest’ultimo, nel 1529, niente era stato ancora prodotto: leggenda vuole che Navagero abbia fatto bruciare le sue carte, ma nei suoi stessi Diari S. poté esprimere la convinzione, fra ironia e sdegno, che «sia per non haver scritto nulla, né cosa bona». A niente valse comunque l’orgoglio di chi nel frattempo continuava infaticabilmente a raccogliere documenti e ad accumulare scrittura: nel settembre 1530, l’incarico di «pubblico storiografo» passò non a S. ma a Pietro Bembo, il quale ebbe anche per decreto del governo l’autorizzazione a consultare per il proprio lavoro gli stessi Diari di S., che in un primo momento aveva sdegnosamente rifiutato tale richiesta. Come unica consolazione, lo stesso decreto, che imponeva l’uso dei Diari da parte di Bembo, attribuiva a S. una provvisione pubblica per la continuazione di quegli stessi Diari, condotti poi fino al 1533, a tre anni dalla morte. Del 1533 è anche un testamento, in cui l’epitaffio da lui stesso voluto – ma non si è mai ritrovata la sepoltura – rimane come triste sigillo di un’ambizione mai soddisfatta e di un troppo parziale e tardivo riconoscimento: «Ossa sunt hic sita / Marini Sanuti Leonardi filii / senatoris clarissimi / rerum antiquarum indagatoris / historiae venetorum ex publico decreto / scriptoris solertissimi». Morì a Venezia nel 1536.
Nel clima culturale veneto ormai in realtà retrogrado, che nel campo storiografico insisteva a privilegiare la pulchritudo sulla veritas, e a considerare le compilazioni annalistiche, ancora nei primi decenni del Cinquecento, come semplici repertori documentari per narrazioni di più ordinata progettualità e rigorosamente latine, S. fu perdente in scelte che privilegiarono umanisti di stampo più tradizionale o, come si direbbe oggi, di più chiara fama, ma non si deve pensare che sia stato vittima inconsapevole di un meccanismo che lo sovrastava. Se il suo produrre instancabilmente narrazioni storiografiche voleva essere certo la dimostrazione della sua capacità di reperire materiali e della sua attendibilità, in vista di un incarico pubblico, d’altra parte S. non poteva certo non sapere, vista la sua alta formazione umanistica, che la sua insistenza nello scrivere in lingua volgare e municipale lo allontanava, di per sé, dai grandi modelli classici a cui la cultura dominante guardava, e a cui comunque molti intellettuali dei suoi tempi ancora si rifacevano. Ma S. evidentemente riteneva che il dissidio fra veritas e pulchritudo dovesse essere elaborato all’interno del volgare, e forse gli mancò solo la visione della necessità di un preliminare lavoro sulla lingua volgare stessa, visto anche che il problema era già stato risolto, paradossalmente, proprio dal Bembo delle Prose della volgar lingua, stampate nel 1525, ma, come si sa, diffuse già dieci anni prima. Impossibile sapere se e quanto, nei suoi ultimi anni, S. fu consapevole di tenere una posizione avanzata in un ambiente culturale arretrato, e che il divario con la tradizione fiorentina era ormai irrecuperabile, sia a livello municipale – M. ebbe infatti, in tutt’altra situazione, quell’incarico di storico ufficiale in volgare cui S. aspirava – sia soprattutto a livello culturale, per cui da allora in poi anche la scrittura volgare avrebbe avuto i suoi modelli, ben lontani dalla lingua delle Vite e dei Diari.
Proprio i Diari danno diffusa notizia di una rappresentazione della Mandragola avvenuta a Venezia durante il carnevale del 1522, il cui successo fu tale che per la ressa del pubblico «non fu fatto il quinto atto, perché non si poté farlo, tanto era il gran numero di le persone», e quindi, tre giorni dopo, «fu di novo a li Crosechieri recitata la comedia dil fiorentino non compita l’altro zorno» (32° vol., coll. 458 e 466).
Bibliografia: I Diarii di Marino Sanuto, a cura di R. Fulin, F. Stefani, N. Barozzi et al., 58 voll., Venezia 1879-1903; Le vite dei dogi, 1474-1494, a cura di A. Caracciolo Aricò, 2 voll., Padova 19892001; I diarii (1496-1533): pagine scelte, a cura di P. Margaroli, Vicenza 1997; Le vite dei dogi, 1423-1457, a cura di A. Caracciolo Aricò, Venezia 2002; Itinerario per la terraferma veneta nel 1483, a cura di R. Bruni, L. Bellini, Padova 2008; De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di A. Caracciolo Aricò, P. Zolli, Venezia 2011.
Per gli studi critici si vedano: M. Brunetti, Banche e banchieri veneziani nei Diarii di Marin Sanudo, in Studi in onore di Gino Luzzatto, 2° vol., Milano 1950, pp. 26-47; G. Zorzi, Notizie di arte e di artisti nei diarii di Marino Sanudo, Venezia 1961; G. Cozzi, Marin Sanudo il giovane dalla cronaca alla storia, «Rivista storica italiana», 1968, 2, pp. 297-314; G. Padoan, La raccolta di testi teatrali di Marin Sanudo, «Italia medioevale e umanistica», 1970, 13, pp. 181-203; M. Billanovich, Michele Ferrarini, Aldo Manuzio, Marin Sanudo, «Italia medioevale e umanistica», 1979, 22, pp. 52529; A. Caracciolo Aricò, Marin Sanudo il giovane, precursore di Francesco Sansovino, «Lettere italiane», 1979, 31, pp. 419-37.