marina militare
La m.m. comprende l’insieme dei mezzi, delle organizzazioni e degli apprestamenti destinati ad assicurare il potere navale (oggi aeronavale) necessario per garantire l’indipendenza politica e la vita economica di un Paese. Essa comprende il naviglio, combattente e ausiliario, con il relativo personale; le basi attrezzate e protette (porti, arsenali ecc.); gli approvvigionamenti, e quanto altro occorre per l’esercizio efficace di tutti gli apprestamenti. Nell’insieme, gli apprestamenti militari marittimi sono stati e sono sempre complessi e costosi, e richiedono l’intervento diretto dello Stato e una lunga preparazione, anche se trovano base naturale nelle condizioni geografiche del Paese e complemento nella sua marina mercantile. L’evoluzione delle m.m. è strettamente legata a quella del naviglio, che ne costituisce fattore tecnico essenziale: qui si richiameranno solo alcuni punti caratteristici dell’evoluzione delle forze militari marittime.
La comparsa di m.m., distinte da quelle mercantili, sembra essere avvenuta nel Mediterraneo sino dall’epoca minoica, già con caratteri propri stabili, che hanno continuato a distinguere il naviglio guerresco per tutto il millenario svolgimento del periodo remiero fino, si può dire, alla battaglia di Lepanto (1571). D’altra parte la differenziazione era necessaria giacché la libertà di manovra imponeva la propulsione a remi; il combattimento corpo a corpo – quasi come quello terrestre – presupponeva l’abbordaggio dell’avversario, e quindi imponeva il rostro. Lo sviluppo della tattica nei molti secoli del dominio del remo non ha modificato radicalmente i suoi primitivi concetti ispiratori; le navi sono, in qualche periodo, sensibilmente aumentate di grandezza, fino alle quadriremi e quinqueremi cartaginesi e romane; ma fra la pentecontero greca, la liburna romana, il drake scandinavo e la galea veneziana esistono analogie sorprendenti. Qualche modificazione si è avuta in particolari dispositivi, come quando il console Duilio introdusse i «corvi» (260 a.C.) per agevolare l’abbordaggio; quando Archimede inventò speciali macchine guerresche, i «tormenta» (212 a.C.), poi forse impiegati da Cesare; e finalmente quando i bizantini scoprirono il «fuoco greco», la prima vera arma navale da fuoco, che salvò Costantinopoli dagli attacchi degli arabi (secc. 7°-8°). Date le dimensioni tanto modeste delle navi e le scarse conoscenze dell’arte della navigazione, la navigazione stessa era limitata, nel tempo, alla buona stagione – anzi per molti secoli alle ore diurne – e, nell’estensione, alla navigazione costiera. Spesso le armate navali seguivano o fiancheggiavano le armate terrestri, ma più spesso servivano specialmente per trasportarle, benché si arrivasse a battaglie schierate e manovrate (Salamina, Milazzo, Azio, Meloria) tra flotte grandiose. Infatti caratteristica delle armate navali del tempo del remo – da Serse a Duilio, da Augusto a Marcantonio Colonna – era il gran numero delle navi e dei combattenti che partecipavano alle battaglie: a Ecnomo (256 a.C.) sembra che combattessero oltre 150.000 persone; a Lepanto 170.000. Ma è altrettanto sorprendente la celerità con la quale si costruivano e si armavano flotte di centinaia di unità (quando le foreste fornivano grandiose riserve di legnami), benché restasse pur sempre il difficile problema della formazione degli equipaggi e dei marinai, problema spesso risolto con il ricorso alla schiavitù. Queste flotte, quando gli Stati marittimi erano saldi e consci dell’importanza del potere navale, trovavano anche allora solido appoggio negli arsenali permanenti: celebri quelli del Pireo nell’epoca aurea di Atene, quelli di Miseno e di Ravenna nell’epoca romana, di Pisa, di Venezia, di Genova nell’epoca delle Repubbliche italiane. Le grandi potenze marittime del periodo remiero gravitarono quasi tutte nel Mare Mediterraneo: e il dominio su di esso passò successivamente, con alterne e drammatiche vicende, dai cretesi-micenei ai fenici, ai greci, ai romani, ai bizantini, agli arabi e ai turchi, alle Repubbliche italiane, agli iberici. Fuori del Mediterraneo, nell’Europa settentrionale, il potere marittimo degli scandinavi (normanni) passò prima alle città anseatiche e fiamminghe e poi, quando si era già agli albori del periodo velico, agli olandesi, agli inglesi e ai francesi.
Quando l’artiglieria divenne arma anche delle battaglie navali e impose la trasformazione dei grossi e capaci velieri da carico in navi militari armate di cannoni (poiché non era possibile disporre le nuove armi sulle navi a remi), la guerra marittima si trasformò radicalmente: al combattimento ravvicinato subentrò quello a distanza, all’abbordaggio si sostituirono in parte altre tattiche e insieme si pose il difficile problema nautico della manovra a vela, con l’avveduta utilizzazione del vento e della velatura (introduzione della vela latina). Questa evoluzione durò circa due secoli (secc. 15° e 16°), agevolata dai progressi compiuti dall’arte nautica, causa ed effetto insieme delle grandi scoperte geografiche, che trasformarono la navigazione da costiera e mediterranea in alturiera e oceanica. Nacque così, forse prima in Olanda, poi in Inghilterra e in Francia, la nuova unità militare: il «vascello», ben diverso dalle contemporanee unità mercantili, ma con uguale attrezzatura, capace di tenere qualunque mare in qualsiasi stagione, di giorno e di notte, superando così le limitazioni del naviglio remiero, benché non ne possedesse la libertà di manovra e richiedesse grande perizia da parte dei marinai. I vascelli presto raggiunsero la grandezza massima compatibile con il sistema di costruzione; ma nel grande periodo della vela, dal sec. 16° al 18°, le variazioni che si verificarono nei tipi delle navi (vascelli, fregate, corvette) e nel loro impiego furono relativamente secondarie. La strategia marittima invece mutò radicalmente: suo concetto fondamentale divenne il blocco delle forze avversarie a distanza più o meno ravvicinata, e la battaglia schierata quando si cerchi una soluzione definitiva. L’affermazione incontrastata della vela coincise con la nascita delle grandi m.m. moderne: la grandezza dei vascelli e delle unità minori, fregate e corvette, la difficoltà della loro costruzione, la grandiosità degli arsenali e dei porti adatti a contenerli, la complessità e l’importanza degli stati maggiori e degli equipaggi imposero alle grandi monarchie dell’epoca l’organizzazione permanente di potenti m. militari. Organizzazioni statali, alle quali qualche volta si affiancarono organizzazioni semiprivate, come quella della Compagnia inglese delle Indie con le sue squadre di Indiamen, costituite in parte da navi da guerra e in parte da navi mercantili; ancor più diffuse quelle dei corsari che, forniti di patenti rilasciate dai loro sovrani (lettere di marca), correvano i mari con navi mercantili, sommariamente armate con artiglieria, attaccando e depredando il naviglio mercantile delle nazioni nemiche (guerra di corsa). Questo periodo vide avvicendarsi nel potere marittimo la Spagna di Carlo V e di Filippo II; l’Inghilterra di Elisabetta, di O. Cromwell e dei loro successori; la Francia di Luigi XIV; l’Olanda di M. Tromp e di M. Ruyter, fino a quando durante il sec. 18° la Gran Bretagna conquistò e tenne vigorosamente per tutto il 19° e i primi decenni del 20° sec. il predominio militare marittimo mondiale.
All’inizio del sec. 19° maturarono altre rivoluzioni tecniche che mutarono profondamente le m.m. ormai definitivamente differenziate da quelle mercantili quanto a unità navali, ma pur sempre a esse intimamente legate, per gli equipaggi e per i servizi logistici. In quel periodo sorse la nave a elica a propulsione meccanica e a scafo metallico. Essa era completamente padrona della sua manovra, dotata di autonomia di gran lunga superiore a quella delle unità sia remiere sia veliche, capace di portare artiglierie più potenti e di resistere contro le avarie e gli incendi provocati dai nuovi proiettili esplosivi lanciati dai cannoni rigati e a caricamento celere, specie quando fu protetta con corazze (Warrior, Gran Bretagna, 1860). Con la guerra di Crimea e quella di Secessione, il naviglio militare cambiò profondamente i suoi elementi: armamento con grossi cannoni in torri, prima a tiro normale, poi a tiro rapido; strutture completamente metalliche; protezione con grosse corazze d’acciaio; propulsione a doppia elica, con macchine a vapore, elevata velocità, larga autonomia (corazzata a torri Duilio di B. Brin, 1872). Assunsero di conseguenza sempre maggiore importanza le basi navali disposte sulle rotte oceaniche, ma comparvero anche nuovi mezzi di combattimento, principali tra essi le armi subacquee, mine e siluri, che diedero al naviglio minore la possibilità di colpire a morte le unità maggiori, dal 1880 solo di notte, con le torpediniere, poi, alla fine del secolo, anche di giorno, con i sommergibili. La guerra di corsa assunse importanza impensata quando il sommergibile fu impiegato nella flotta senza limiti contro il naviglio mercantile. Nel sec. 19° la marina britannica affermava la politica del two power standard e ampliava il suo vasto sistema di basi navali in tutti i mari del mondo; la marina francese conservava il secondo posto mondiale, sostenuta dalla politica espansionistica della Terza Repubblica in Africa e in Asia; la marina russa era costretta ad armare tre flotte in scacchieri operativi molto lontani tra loro (Baltico, Mar Nero, Estremo Oriente). La m.m. italiana, sorta con l’unità nazionale, prima per la fusione della marina sarda, erede della genovese, con la marina napoletana (1860-61) e poi con quella veneta (1866), dopo la sconfitta di Lissa era stata potenziata per opera dell’ammiraglio S. Pacoret di Saint-Bon e del generale B. Brin, tanto che nel decennio 1880-90 era considerata la seconda del mondo, per qualità di mezzi, dopo quella britannica; ma poi verso il Novecento – per ragioni finanziarie – era rapidamente decaduta. Ancora in Europa, alla fine dell’Ottocento cominciava ad affermarsi la marina tedesca, che si sviluppò enormemente per volontà di Guglielmo II alla vigilia della Prima guerra mondiale. Fuori d’Europa, la m.m. degli USA assunse rapidamente grandi dimensioni e forza, dimostrate durante la guerra vittoriosa con la Spagna (1898); in Estremo Oriente, sorgeva infine una marina nuova, la giapponese, che aspirava al dominio del Pacifico. Al principio del sec. 20° le grandi nazioni marinare erano sette: Gran Bretagna, Francia, Russia, Germania, Italia, USA, Giappone. Tra di esse vi furono due antagonismi, uno fra Russia e Giappone in Asia, l’altro fra Gran Bretagna e Germania in Europa, entrati pesantemente in gioco il primo nella guerra russo-giapponese, dalla quale sotto il profilo tecnico sembrò emergere l’importanza della grande corazzata artiglieristica, l’altro nella Prima guerra mondiale.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale i concetti teorici generali della guerra marittima riposavano generalmente sulla potenza delle grandi navi corazzate: tanto che durante il conflitto le flotte degli imperi centrali furono potenzialmente bloccate dalle flotte dell’intesa e i rari, tardivi tentativi delle forze d’alto mare tedesche per allentare la stretta (battaglia dello Jütland, 1916 ecc.) furono vani. Allora per la prima volta la Germania usò il sommergibile quale arma contro la m. mercantile dell’intesa e benché in alcuni momenti questo metodo ottenesse risultati straordinari, grazie anche al vantaggio della sorpresa, essi non furono decisivi. Un ulteriore elemento importante e innovatore fu l’arma aerea, la quale, nonostante la novità dell’impiego, diede subito una preziosa collaborazione ai mezzi navali, specialmente nella esplorazione e nella lotta contro i sommergibili. Cominciarono allora i primi tentativi per la creazione delle navi portaerei. La Conferenza del Pacifico, e la relativa Convenzione navale (Washington 1922), riuscì a contenere la gara negli armamenti navali, specialmente nel campo delle corazzate, allora in atto fra le tre potenze oceaniche (USA, Gran Bretagna, Giappone) fissando un massimo di tonnellaggio globale, relativamente alle navi di linea (cioè ogni nave da guerra, non portaerei, di dislocamento superiore alle 10.000 t e armata con cannoni di calibro superiore a 203 mm) e alle portaerei per ciascuna delle principali m. nella seguente misura (con un predeterminato rapporto percentuale fra le varie quote): USA e Gran Bretagna 525.000 t per le navi di linea e 135.000 per le portaerei; Giappone rispettiv. 315.000 t e 81.000 (60% rispetto alla quota attribuita a USA e Gran Bretagna); Italia e Francia rispettiv. 175.000 t e 60.000 (rispettiv. 33,33% e 44,44% rispetto alla quota attribuita a USA e a impero britannico). Dislocamenti massimi consentiti erano 35.000 t per le corazzate e 27.000 t per le portaerei; il calibro massimo delle artiglierie non doveva superare i 406 mm. La successiva conferenza per il disarmo generale, convocata a Ginevra nel 1932 presso la Società delle nazioni, non portò ad alcuna utile conclusione: il Giappone denunciò (dic. 1934) la Convenzione di Washington e poi iniziò la costruzione delle corazzate tipo Yamato da 70.000 t armate con 9 cannoni da 460 mm; la Germania riprese la ricostruzione della sua flotta – compresi i sommergibili – e giunse a progettare corazzate da 140.000 t che avrebbero dovuto essere armate con cannoni da 506 mm. Gli armamenti navali ripresero vigorosamente dappertutto con la costruzione di naviglio di ogni specie: corazzate, portaerei, incrociatori, navi contraerei, siluranti, sommergibili, navi officina e navi appoggio. La Seconda guerra mondiale dimostrò, dal punto di vista tecnico, quanto la guerra marittima dipendesse dalla collaborazione tra le forze navali e quelle aeree, dall’organizzazione di nuovi mezzi e di nuove armi (creati anche nel periodo delle ostilità) e dalla disponibilità del naviglio militare e mercantile. Tanto la guerra del Pacifico, dove le portaerei approntate anche dopo l’episodio di Pearl Harbor ebbero il sopravvento, quanto la battaglia dell’Atlantico, dove i mezzi elettronici di ricerca permisero di soffocare la minaccia dei sommergibili, costituirono la dimostrazione evidente dell’importanza decisiva della gara tecnico-scientifica. Così pure la lotta nel Pacifico mostrò, su scala gigantesca, quanto fosse essenziale l’organizzazione logistica e tecnica, con l’immensa flotta ausiliaria che essa comportò, per alimentare le forze aeronavali combattenti a distanza di migliaia di miglia dalla madrepatria. La Seconda guerra mondiale vide la grande battaglia delle isole Midway (giugno 1942), la prima della storia moderna il cui esito si ebbe senza che le navi sparassero un solo colpo di cannone, e la battaglia definitiva di Leyte (ottobre 1944), la più grande battaglia navale di tutti i tempi (ammiraglio W.F. Halsey e ammiraglio Toyoda), anch’essa decisa dalla collaborazione aeronavale della m.m. statunitense. Da allora le azioni militari marittime sono state sempre aeromarittime per cui più che di «potere marittimo» si parla di «potere aeromarittimo». Le navi portaerei, nonostante la loro vulnerabilità, sono la spina dorsale del naviglio militare e il loro migliore impiego costituisce la base essenziale della strategia e della tattica navali. Questi concetti sono avvalorati dagli sviluppi raggiunti dalle armi e dai mezzi che la scienza militare ha messo a disposizione dopo il 1945: i missili, le armi nucleari e l’energia nucleare per la propulsione.
Negli ultimi decenni la rapidità straordinaria dei progressi tecnologici si è venuta conciliando sempre meno con i tempi lunghi di progettazione, costruzione e allestimento delle unità navali. Inoltre si è avuto un aumento vertiginoso dei costi (fino a 20÷30 volte, per unità similari, dal 1950 agli inizi degli anni Novanta). Le m.m. dell’ultima generazione appartengono all’era dell’energia nucleare, dei satelliti artificiali (che, oltre a consentire il controllo degli oceani, hanno rivoluzionato i sistemi di navigazione e comunicazione), degli elaboratori elettronici e dei missili (dei tipi superficie-superficie, superficie-aria e aria-superficie). Un interessante aspetto, da collegare all’avvento del missile antinave e alla conseguente necessità di proteggersi adeguatamente dalla sua offesa, è costituito dalla ricomparsa, sia pure in veste nuova, delle navi da battaglia quali componenti di rilievo delle due maggiori marine mondiali del secondo dopoguerra: gli incrociatori sovietici della classe Kirov (28.000 t, a propulsione nucleare) e le navi da battaglia degli USA della classe Iowa (49.000 t, trasformate e completamente ammodernate, prima tra esse la New Jersey). Assai meno vulnerabili, specie grazie alla corazzatura, munite di missili di crociera, di missili antinave e contraerei, nonché delle tradizionali artiglierie, e provviste di aeroplani imbarcati VTOL e STOL e di elicotteri, tali unità, dotate di straordinaria flessibilità di impiego, sembravano destinate a riassumere in prospettiva un ruolo importante. Tuttavia, l’allentamento della tensione fra le due massime potenze militari e, in seguito, lo smembramento nel 1991 dell’Unione Sovietica, hanno indotto da una parte gli USA a disarmare parzialmente le proprie navi da battaglia, dall’altra le Repubbliche eredi dell’URSS a rivedere i programmi relativi a questo tipo di costruzioni. Nella propulsione navale sono entrate nell’impiego le turbine a gas e l’energia nucleare: esse hanno portato a considerevoli aumenti di velocità e autonomia delle navi di superficie e subacquee. L’evoluzione più sensibile dei mezzi navali si è notata nei sommergibili, sui quali l’energia nucleare ha avuto le più significative applicazioni. Sulle navi di superficie, l’energia nucleare ha avuto invece applicazioni solo su unità maggiori (portaerei e incrociatori), soprattutto a causa dell’alto costo. Si è sviluppato il naviglio per operazioni anfibie. Ha acquistato sempre maggiore importanza il naviglio ausiliario di appoggio e di sostegno (rifornimenti di squadra, navi veloci per trasporto materiali, navi officina ecc.), atto a svincolare le forze navali operanti dall’obbligo di rientrare alle basi, permettendo così alle navi di agire in acque lontane in modo continuo. Anche le unità veloci costiere hanno avuto presso quasi tutte le marine un notevole sviluppo con l’evoluzione dei tipi tradizionali (MAS, motocannoniere, corvette ecc.) e con la comparsa di nuovi tipi di naviglio leggero (mezzi veloci ad ala portante, a cuscino d’aria, ecc., armati in genere con missili superficie-superficie). Per quanto riguarda la componente aeronavale, è da notare la sempre maggiore importanza attribuita agli elicotteri sia per l’individuazione e caccia dei sommergibili sia per le operazioni anfibie. Nonostante la politica di riduzione degli armamenti seguita alla dissoluzione del blocco sovietico, i mezzi per la guerra sul mare conservano immutato il loro peso militare. I sottomarini nucleari dotati di missili balistici a testate termonucleari MIRV (multiple independent reentry vehicles) hanno la possibilità di raggiungere, di fatto, ogni punto del territorio avversario garantendo nello stesso tempo la pratica invulnerabilità dei vettori (al contrario delle installazioni missilistiche terrestri); i mezzi di superficie in ogni tipo di situazione sono visti ancora come garanzia insostituibile per la protezione del proprio traffico marittimo e l’interdizione dell’uso dell’ambiente marittimo all’avversario.