CAPECE, Marino (Marinus Capece de Monacho de Neapoli, Capice, Capicius, Cacapice)
Apparteneva a quel ramo della nobile famiglia napoletana che verso la metà del sec. XIII assunse il soprannome "de Monacho". Nacque probabilmente verso il 1230, figlio primogenito di Giacomo morto prima del 1248, il quale al tempo di Federico II era stato investito di vari grandi feudi e verso la fine della sua vita aveva ricoperto la carica di siniscalco imperiale. Pare che al C. sia passata la maggior parte dei feudi paterni.
Nell'ottobre del 1248 risulta già signore di Atripalda, Montefredane e altri castelli nei dintorni di Avellino. In quella data restituì al monastero della SS. Trinità di Cava la metà del mulino "di Archi" presso Atripalda, oggetto di una controversia tra il padre Giacomo e il monastero di Cava portata davanti al tribunale della Magna Curia. In qualità di signore del luogo nel novembre del 1253il C. tenne un giorno di udienza ad Atripalda, nel corso della quale il rettore della chiesa di S. Germano fece redigere davanti ai giudici locali un atto di affitto.
Quando Manfredi la sera del 25 ottobre del 1254iniziò ad Acerra la sua fuga verso Lucera, davanti all'esercito pontificio che avanzava su Napoli, il C. e il fratello Corrado lo raggiunsero da Marigliano e l'accompagnarono nella marcia attraverso le prime catene dell'Appennino, consentendogli di raggiungere per via indiretta la sicura Atripalda, dove il figlio dell'imperatore fu accolto ospitalmente dai fratelli Capece e dalle loro mogli, prima di rimontare in sella per recarsi a Nusco, ancora nella stessa giornata. Questo incontro risultò decisivo per l'atteggiamento politico del C., che restò di assoluta fedeltà agli Svevi per tutta la vita.
Sebbene fosse di quei nobili campani fedeli a Manfredi, non sembra tuttavia essere stato investito, a differenza dei fratelli, di un ufficio statale, né risulta che abbia soggiornato per un periodo prolungato alla corte del re. L'affermazione spesso ripetuta, sulla base di un passo dei Diurnali di Matteo Spinelli, che il C. al tempo di Manfredi, e più precisamente a partire dal 1259circa, abbia diretto i lavori per la fondazione della nuova città di Manfredonia, non è per niente confermata dalle fonti contemporanee, anche se alcuni storici recenti, come per esempio P. F. Palumbo, sembrano propensi - e a torto - a dare qualche credito ai Diurnali per quel che riguarda questo punto. Nella fondazione di Manfredonia Manfredi era invece assistito dal suo conte camerario Manfredi Maletta. Non è confermata neanche un'altra notizia fornita dai Diurnali, cioè che il C. nel 1262abbia condotto trattative con Urbano IV a nome di Manfredi. Soltanto i conti presentati da Angelo di Vito relativi alla sua attività di secreto di Principato, Terra di Lavoro e Abruzzo nell'anno 1265-66 attestano di nuovo l'esistenza di rapporti personali tra il C. e re Manfredi: Angelo pagò al C. 10 once d'oro, parte di un dono di 40 once d'oro promesso da Manfredi al C. e al fratello Corrado. Nei confronti del C. Manfredi dimostrò dunque la stessa munificenza manifestata verso quasi tutti i nobili fautori del suo regno.
Quando Manfredi nel 1259 decise di fare un nuovo censimento dei feudi nella provincia di Principato affidando, l'incarico ai "reintegratores pheudorum curie" Ruggiero di Amendolara, Giovanni di Melfi e Bartolomeo di Corneto, furono riesaminati anche i titoli legali del mulino "di Archi" appartenente al demanio di Atripalda. Con un mandato generale emanato mentre era già in corso l'inchiesta, Manfredi negò valore di prova alla testimonianza dei vassalli di un feudatario resa a suo favore nei processi feudali, e visto che il C. non era in grado di presentare testimoni che non fossero suoi vassalli i tre "reintegratores", con un atto conclusivo redatto il 20 marzo 1260 a Salerno, aggiudicarono definitivamente i diritti sul mulino, che dopo il 1232 era stato diverse volte oggetto di controversia, al monastero di Cava.
Nella battaglia di Benevento del febbraio 1266 il C. combatté a fianco di Manfredi. Dopo la sconfitta pare abbia tentato in un primo momento di nascondersi nella casa del nobile Pietro Carbone di Acerra a Pacciano (presso Pomigliano d'Arco) assente in quel momento. Al suo ritorno Pietro Carbone gli ingiunse tuttavia di abbandonare la casa e così pare che il C. sia caduto prigioniero nelle mani del nuovo re. L'intervento dell'arcivescovo napoletano di Cosenza Bartolomeo Pignatelli gli salvò allora la vita. Nel 1266 il C. perse tuttavia i suoi feudi di Atripalda e di Montefredane e si recò in esilio in Toscana.
Quivi fu tra i fuorusciti del Regno che posero tutte le loro speranze in Corradino, anche se non compare in prima linea durante le trattative con il giovane. Non pare neanche che abbia partecipato al grande progetto del fratello Corrado di tentare la riconquista, con l'aiuto pisano, attaccando la Sicilia da Tunisi. Attese invece l'arrivo di Corradino a Pisa, assumendosi poi un importante compito nel quadro dell'impresa navale pisana comandata da Federico Lancia e Guido Bocci: parallelamente all'invasione per terra portata avanti da Corradino, doveva tentare di minare le difese angioine al confine settentrionale del Regno provocando un'ondata di ribellioni a partire dalla costa campana. Dopo che la flotta pisana e i capi ghibellini venuti con essa, tra i quali il C., avevano costretto i riluttanti Ischitani a riconoscere Corradino conseguendo con ciò un primo successo, il C. sbarcò presso Castellammare di Stabia sotto la protezione della flotta pisana. Insieme con alcuni partigiani campani del giovane re svevo e con l'appoggio del capitano di Corradino in questa provincia, il conte Corrado di Caserta, iniziò la sua opera di sobillazione a Somma, Palma, Castelcicala e Nola, inducendo gli abitanti, di solito con la violenza e le minacce, a riconoscere Corradino come re. I beni e le case di quelli che si opponevano furono svaligiati e saccheggiati. Da Nola il C. si precipitò con i suoi seguaci ad Aversa per soccorrere Riccardo di Ribursa. I ghibellini campani non osarono tuttavia attaccare direttamente Napoli, dove l'arcivescovo Aiglerio era l'anima della resistenza angioina. Un tentativo del C. di conquistare, con una rapida puntata su Montemarano, il controllo delle vie di comunicazione tra la Puglia e la Campania, fu sventato dall'abile capitano di Carlo I nel Principato, Pandolfo di Fasanella, che lo prevenne mandando a Montemarano un presidio angioino.
Dopo la sconfitta di Corradino la rivolta in Campania si esaurì presto. Non sappiamo in quali circostanze il C. sia caduto nelle mani di Carlo d'Angiò, nella tarda estate del 1268. È noto soltanto che ancora nello stesso 1268 fu giustiziato come ribelle, insieme al fratello Giacomo, sulla via Capuana davanti alle porte di Napoli. Se possiamo identificare con il C. il Marinus Capice de Monacho il cui nome è segnato nell'obituario di S. Patrizia di Napoli alla data dell'8 ottobre, l'esecuzione avvenne l'8 ott. 1268. I beni allodiali del C. in Aversa, Napoli ed altri luoghi furonoconfiscati come già prima i suoi feudi nel Principato.
Il C. fu l'unico dei fratelli Capece a lasciare figli. Giacomo dopo la rivolta del Vespro siciliano nel 1282 passò dalla parte di Pietro d'Aragona, mantenendosi così fedele alla tradizione ghibellina della sua famiglia. Anche i nipoti del C., avversari degli Angioini, vissero in esilio finché non ottennero da Carlo II, nel 1306, la revoca dell'infamia e la restituzione dei loro titoli nobiliari, ma non dei feudi e dei beni.
Fonti e Bibl.: Cava de' Tirreni, Badia d. SS. Trinità, Armadio Magno M. 49 (1248 ott.); Ibid., Arca Nuova 54, 75 (1260 marzo 20); Napoli, Biblioteca della Società napoletana di storia patria, Fondo Cuomo 2.4.10, ff. 223v-224 (Obituario di S. Patrizia, 8 ottobre); Nicolaus de Jamsilla, Historia de rebus gestis Friderici II imperatoris eiusque filiorum, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., VIII, Mediolani 1726, coll. 522-24; S. Malaspina, Rerum Sicularum Historia,ibid., coll.832 s., 857; Gli Diurnali di messer Mattheo Spinelli da Giovenazzo, in Monum. Germ. Hist.,Scriptores, XIX, a cura di H. Pabst, Hannoverae 1866, pp. 482 s., 486; Codice dipl. del regno di Carlo I e II d'Angiò, a c. di G. Del Giudice, II, 1, Napoli 1869, pp. 170 ss., 179 ss., 184 s., 268, 308 s.; J. F.Böhmer, Regesta Imperii, a cura di J. Ficker E. Winkelmann, Innsbruck 1881-1901, nn. 4644, 14389 e 14391; E. Sthamer, Bruchstücke mittelalterlicher Enqueten aus Unteritalien, in Abh. der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Phil. hist. Klasse, 1933, II, pp. 37 s., 41 s., 44 s.; R. Filangieri, I registri della cancelleria angioina…, I, Napoli 1950, pp. 107, 272; II, ibid. 1951, pp. 191 193, 239 s.; V, ibid. 1953, pp. 187 s.; VI, ibid. 1954, p. 127; V, ibid. 1955, p. 21; XVIII, ibid. 1964, p. 155; XIX, ibid. 1964, p. 56; P. Collenuccio, Compendio de le istorie del regno di Napoli (1539), a cura di A. Saviotti, Bari 1929, pp. 162 s., 167, 173; F. W. Schirrmacher, Die letzten Hohenstaufen, Göttingen 1871, pp. 89, 317, 376; G. Del Giudice, Il giudizio e la condanna di Corradino, Napoli 1876, pp. 135 s. n. 10; K. Hampe, Geschichte Konradins von Hohenstaufen, a cura di H. Kämpf, Leipzig 1942, pp. 69, 101, 120, 268, 276, 320, 356; H. Arndt, Studien zur inneren Regierungsgeschichte Manfreds, Heidelberg 1911, p. 100; E. Tuccio, I moti sicil. in favore di Corradino di Svevia, Palermo 1922, pp. 15, 21, 38; R. Morghen, Il tramonto della potenza sveva in Italia 1250-1266, Roma 1936, pp. 162 s., 243, 262; F. Scandone, Storia di Avellino, II, 2, Napoli 1950, pp. 28, 111 s., 203 n. 101, 207 s. n. 112, 210-12 n. 119, 215 n. 129; Id., Profili di storia feudale dei comuni compresi nell'antica contea di Avellino, Avellino 1951, pp. 19, 47 s., 117; E.-G. Léonard, Les Angevins de Naples, Paris 1954, pp. 63, 72; P. F. Palumbo, Contributi alla storia dell'età di Manfredi, Roma 1959, pp. 80 s., 86 s., 173, 229, 232-34, 239-42, 244 s., 262 s., 273 s., 278-81; A. Nitschke, Der sizilian. Adel unter Karl von Anjou und Peter von Aragon, in Quellen und Forsch. aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XLV (1965), pp. 249 s.