Marino e i marinisti
Intellettualistica ricerca dello stupefacente, che si affida alla singolarità di argomenti non prima trattati nella lirica d'arte e all'inconsueto modo di elaborare concetti troppo ormai triti e vulgati; oppure autentico stupore dinanzi alle conquiste dell'ingegno umano e alla varia operosità degli uomini, e, più suggestivamente, all'apparire di forme, luci, ombre e colori che l'occhio contempla per la prima volta, come se una nuova magia operasse nelle cose? Ingegnosità che si esercita a freddo sulla metafora e mira all'argutezza, per dare apparenza di novità a temi e motivi ormai vieti; oppure ansioso studio di un eloquio nuovo, che risponda alle esigenze espressive di un nuovo sentire? E, ammesso che si possa parlare di autentico stupore e della conquista, sia pure parziale e frammentaria, di un eloquio nuovo, a che fu dovuto il finale fallimento, in Italia, della rivoluzione letteraria iniziata sul finire del '500 da una fitta coorte di rimatori, non tutti fiacchi, certamente, né tutti dozzinali? fu difetto di ingegno (vogliamo dire: di genialità creativa)? o fu difetto di impegno.
Queste domande si pongono insistenti a chi, non privo di gusto e di amore alla poesia e svincolato da ogni pregiudizio, si inoltri fra la selva dei poemi e dei canzonieri che costituiscono nel loro insieme quella che vien chiamata la poesia barocca italiana.
Domande forse troppo perentorie le prime due, che non consentono una risposta recisa, nell'un senso o nell'altro; ma utili a porre con evidenza il problema della valutazione storico-estetica di quella poesia; ingenua, in un certo senso, la terza, perché ci potrebbe condurre, disviandoci, non a indagare, con storica obiettività, quello che fu, ma a congetturare, con oziosa immaginazione, quello che sarebbe potuto essere; ma, anche, domanda attraente per chi ripensi alla veemente creatività di un Bernini e di un Caravaggio e ai felici e bizzarri ardimenti di un Borromini, di un Longhena, di un Guarini, o anche di un Andrea Pozzo o di un Pietro da Cortona, e di altri: contemporanei del Marino e dei marinisti, che lavorarono nella stessa temperie spirituale e pur seppero, in vario grado, genialmente innovare. (Ondulata meraviglia di Santa Maria della Pace; trionfale maestà della fronte di Santa Maria in via Lata; stupore dell'enorme, inebriamento di vitalità, che spirano dalla volta affrescata del salone di palazzo Barberini; portentoso insorgere di dipinte architetture, in alto, sotto il trionfo di sant'Ignazio, nell'aereo vano della chiesa che da lui prende il nome!) O forse il Marino e i suoi seguaci giacciono ancora ingiustamente del colpo che ad essi diede non l'invidia ma un'errata valutazione dell'opera loro, dettata da ragioni polemiche, un tempo, e, più recentemente, da preconcetti extra-estetici?
È noto che contro il marinismo «si ebbe, sulla fine del secolo decimosettimo, una reazione violenta, paragonabile, direi quasi, alle repressioni esercitate nel medio evo contro gli eretici e le jacqueries, e a quelle moderne contro i comunardi. La critica della reazione antisecentesca fece sommarie esecuzioni in massa, demolì le case dei nemici, sparse sul terreno il sale e vi eresse colonne d'infamia»: così scriveva, con argute metafore e iperboli intonate all'argomento, il Croce, più di quarantanni fa, aprendo coi Saggi sulla letteratura italiana del '600 e con l'antologia dei Lirici marinisti una nuova fase nella storia degli studi sulla poesia barocca italiana. «Non ho bisogno di rammentare - proseguiva il Croce - i giudizi del Crescimbeni, del Gravina, dello Zeno, del Muratori, ossia di coloro che furono, tutt'insieme, capi della reazione e storici dei loro vinti nemici, e altresì primi delineatori di una storia della letteratura e poesia italiana, nella quale si adoperarono a collocare in bieca luce il secolo che li aveva preceduti. Parlare della letteratura del Seicento come di una follia, di una pestilenza, di una decadenza, divenne consueto.» Neppure noi rammenteremo qui quei giudizi; né citeremo per intero l'esordio del Tiraboschi al capitolo sulla poesia italiana del '600, che il Croce riferisce in quella sua Prefazione (una fiera intemerata contro il «reo gusto» dei «tanti inutili poetastri» del secolo decimosettimo); né l'assai più recente esordio del Belloni alle pagine dedicate ai marinisti, che era nella prima edizione del Seicento (1899) un aperto giudizio di condanna, appena un poco attenuato nella nuova edizione fatta trent'anni dopo (1929).
Così la vecchia critica retorico-erudita del '700 e, più di cento anni dopo, la storiografia letteraria di derivazione positivistica si chiudevano con un giudizio più o meno recisamente negativo sulla nostra poesia barocca.
Ma più importa a noi rileggere e ripensare quel che il De Sanctis scrisse su quella poesia: «Cercavano novità, perché si sentivano innanzi ad una letteratura esaurita nel suo repertorio e nelle sue forme, divenuta tradizionale, meccanica ... Non solo la letteratura nelle sue forme e nel suo contenuto, ma è anche esaurita la vita religiosa, morale e politica, quantunque ce ne fosse una seria apparenza comandata e servile, via alla fortuna ... Tutti si sentivano innanzi a un mondo poetico invecchiato e volevano rinnovarlo, e non vedevano che bisognava innanzi tutto rinnovare la coscienza. Aguzzarono l'intelletto, gonfiarono le frasi e, non potendo esser nuovi, furono strani. L'attività si concentrò intorno alla frase, e il mondo letterario, segregato dalla vita e vuoto d'ogni scopo serio, divenne un esercizio accademico e rettorico.» Per il De Sanctis cotesto estenuamento della nostra letteratura, pomposamente celato sotto la veste dell'enfasi, delle iperboli e delle argutezze, era l'ultima conseguenza di un lento esaurirsi della vitalità delle lettere nostre, dal Boccaccio venendo giù fino all'Ariosto e al Tasso. Il suo vigile gusto e il suo acuto senso storico gli consentirono di avvertire qualche cosa di vivo nella poesia barocca: una sensualità ammorbidita in idillio e in languore voluttuoso; ma non è da stupirsi se egli (che, del resto, ebbe di quella poesia una conoscenza assai lacunosa: dei marinisti non era agevole allora fare estese letture) non seppe intuire a fondo quel che di intimamente vitale si può cogliere oggi sparsamente nelle ottave dell'Adone e nelle rime del Marino e de' suoi seguaci. Nonostante il vigore e l'ampiezza del suo ingegno, anche il De Sanctis aveva dei limiti alla sua esperienza umana. Il rigore della sua coscienza etico-civile e il suo senso agonistico della vita facevano ardua al De Sanctis la piena comprensione delle anime poetiche che hanno ad oggetto della loro contemplazione non una determinata idealità religiosa, etica, civile, o almeno un affetto che aderisca concretamente a cose e persone determinate, ma la loro stessa sensibilità fantasticante, cercatrice di sogni remoti dalla realtà quotidiana, incline a vedere nelle cose la presenza di una riposta operosa magia che non giova indagare né cercar di definire. E tale era lo spirito poetico del Marino e dei marinisti, nei momenti migliori, quando riuscivano ad essere qualche cosa di più che letterati di mestiere e ingegnosi verseggiatori.
Un buon passo avanti, forse decisivo, fu fatto, dopo il De Sanctis, dal Croce. Le sue ricerche, insigni per ampiezza e penetrazione, sulla nostra poesia barocca si accompagnarono felicemente alle nuove indagini che da più parti si facevano, tra la fine dell' '800 e i primi decenni del nuovo secolo, sul barocco nell'architettura e nelle arti figurative, in Italia e fuori d'Italia. Ma ci sembra che il Croce, dopo aver condotto un'esemplare analisi della nostra poesia barocca nel suo fondamentale saggio Sensualismo e ingegnosità nella lirica del '600 - dove l'autore viene rilevando, attraverso una fitta serie di citazioni dal Marino e dai marinisti, un gran numero di momenti fantastici singolari e suggestivi -, non ne abbia poi tratto, né in quel saggio né in altre sue pagine, conclusioni adeguate. Ché, in verità, ci sembra troppo poco affermare che ai secentisti sia da riconoscere soltanto il merito di aver compiuto un «addestramento stilistico», un «corso rettorico», e simili: come il Croce asserisce alla fine del capitolo «Il barocco», nella sua Storia dell'età barocca in Italia.
Più larghe e positive illazioni ha tratto dall'analisi del Croce, felicemente proseguita e integrata, il Flora nella sua «Antologia dell'esperienza lirica secentesca» (nella Storia della letteratura italiana. vol. 11, parte 11): «Certi impasti di metafore-osserva il Flora - nello scambio dei cinque sensi e nell'unione che forma un «incognito indistinto», riuscirono a felici prove: e quando altro mancasse svegliarono l'attenzione dei futuri poeti verso più profondi strati della sostanza analogica.» E riconoscendo a Francesco Fulvio Frugoni, l'autore del Cane di Diogene, il merito di aver stabilito «un principio che i moderni, per diverse vie, han ricevuto e professato strettamente nell'arte: l’allusivo che è maggiore assai dell'espresso», il Flora rivela: «L'allusivo dei secentisti fu spesso la vecchia e contorta allegoria; ma fu anche talvolta una gioia di rapporti analogici in cui palpitò il nuovo senso panico.» E più oltre: «Il fatto è che la poesia media dell'età barocca è piena di germi e fermenti; anzi è più inventiva e sciolta che non quella media dell'aureo Cinquecento.» E cotesti germi e fermenti il Flora viene enucleando e proponendo all'attenzione dei lettori in una copiosa filza di citazioni dai marinisti, in cui i versi vividi e nuovi non sono pochi davvero.1
Per poter giungere a conclusioni ben fondate e persuasive sulle questioni che si son poste all'inizio di queste pagine (che di proposito non investono tutto il complesso problema del barocco, ma, più modestamente, propongono l'istanza di un ragionato e documentato giudizio sul valore artistico e storico-letterario dell'opera del Marino e dei marinisti) pensiamo che sia opportuno mettersi per la stessa via che è stata felicemente percorsa dal Croce e dal Flora; e, senza temer di ripetere cose ch'essi già hanno detto, ma con buona fiducia di poter aggiungere qualche utile nota analitica, rilevare i più caratteristici momenti di poesia che rifulgono, tra il lussureggiare inverecondo dello stile e il ciarpame della rimeria d'occasione vietamente encomiastica, in quei poemi e in quei canzonieri.
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Vedete come tra l'enfasi e le iperboli non nuove affiora, in un sol verso, una visione atterrita della natura in tempesta: «Urtansi i venti in minaccioso aspetto, - de le concave nubi anime orrende» (Adone, I, 118); e come, per contro, si anima di vita riposta e muta un fonte solitario, nella gran calura estiva: «Fonticel di bell'ombre algente ed atro, - inghirlandato di fiorita treccia, - qui dal sol si difende, e sì traluce - ch'ai fondo cristallin l'occhio conduce» (ivi, V, 22). A una mirabile finzione scenica fa da sfondo, altrove, su un finto cielo, il crepuscolo della sera, a cui seguono in brevissimo giro di tempo la notte stellata e l'alba: «Nel fin di questo, in un azurro puro - a l'improviso il ciel si discolora, - e fregiando d'argento il campo oscuro - con le stelle la luna ecco vien fora ... - Vero il sol crederesti e vera l'alba - che le nebbie rischiara e l'ombre inalba» (ivi, V, 144). La storia di Pavone si colora di fiaba e di magia là dove il giovinetto irretisce col lembo del suo manto un gruppo di stelle che fuggivano al giungere dell'aurora: «Orbe del lume e de la scorta prive - fuggi an le stelle in varie schiere accolte;-e sì come talor per l'ombre estive, - quando l'aria è serena, avien più volte, - sbigottite, tremanti e fuggitive - per fretta nel fuggir ne cadean molte: - Pavone allora il suo mantel distese, - ed un gruppo nel lembo alfin ne prese» (ivi, VI, 93).
Forse non erano mai state così umane le stelle nella poesia precedente, come nel Marino e nei marinisti. Quando muore l'usignuolo, rotto dal travaglio e dall'affanno della gara col suonatore di liuto: «Le stelle poco dianzi innamorate - di quel soave e dilettevol canto - fuggir piangendo, e da le logge aurate - s'affacciò l'alba, e venne il sole intanto» (ivi, VII, 55). Come nel cielo le stelle, così hanno vita, più variamente umana, sulla terra i fiori; e per prima la loro regina, la rosa: che, se suggerisce al poeta una filza di argutezze, anche gli detta qualche immagine delicatamente fantastica: «... gemma di primavera, occhio d'aprile ... - Tu, qualor torna a gli alimenti usati - ape leggiadra o zefiro gentile, - dài lor da bere in tazza di rubini - rugiadosi licori e cristallini» (ivi, III, 158). E coi fiori, le piante donatrici d'ombra e di molteplici frutti: «Trionfante la palma in fra lo spesso - popolo de le piante il capo estolle. - Piramide de' boschi, alto il cipresso - signoreggia la valle, agguaglia il colle ... - Da la madre ritorta e pampinosa - pende la dolce e colorita figlia; - parte fra' tralci e fra le foglie ascosa, - parte dal sole il nutrimento piglia...»; la melagrana: «... fa scintillar dal guscio d'oro - molli rubini e teneri giacinti, - e quasi in picciol'iride commisti - sardonici, baiassi ed ametisti» (ivi, VII, 102-104). Altrove, i grandi alberi frondosi sono trasfigurati miticamente insieme col sole dardeggiante: «Incontro al biondo arcier, che folgoranti - dritto da l'arco d'or scoccava i raggi, - scudo faceano ai duo felici amanti - con torte braccia i Briarei selvaggi» (ivi, VIII, 107).
In un'aura di mito e di magia opera nei campi la dea Primavera: «Erano già per man di Primavera - d'odorate ricchezze i campi adorni ... - Fuggon per l'erba liberi i ruscelli ... - Van tra i folti querceti i vaghi augelli - disputando d'amor di stelo in stelo. - Treman l'ombre leggere ai venticelli, - ch'empion d'odori il disvelato cielo» (ivi, XV, 10-11): nel Marino e nei marinisti albeggia una nuova sensibilità agli aliti odorosi della primavera e dei prati fioriti. A primavera, qual mirabile coro di uccelli, tra le fronde rinnovellate! «Chiusa tra' rami d'una quercia antica, - di sua verde magion solinga cella, - la monichetta de' pastori amica - seco invita a cantar la rondinella ... - Saltellando garrisce e poi s'asconde - il calderugio infra i più densi rami ... - Con l'assiuolo il lugherin si lagna, - col sagace fringuel lo storno ingordo. - L'allodetta la passera accompagna ...» (ivi, VII, 26-29). E un'autentica nuova meraviglia, pur tra copioso sfoggio di argutezze, nasce dal canto antico dell'usignuolo: «Versa il suo spirto tremulo e sottile - la sirena de' boschi, il rosignuolo ... - Chi crederà che forze accoglier possa - animetta sì picciola cotante? - e celar tra le vene e dentro l'ossa - tanta dolcezza un atomo sonante?» (ivi, VII, 32-37).
Nella natura, tutta invasa dalla fascinazione d'Amore, anche le acque ne accolgono in sé l'invincibile potere, precipitando verso il mare che le chiama: «E s'al bel corso, che lasciar non sanno, - è precisa la via piana e spedita, - tal con forza amorosa impeto fanno, - che s'apron, rotti gli argini, l'uscita. - In seno il mar l'accoglie, e 'n lor trasfonde - prodigamente il proprio nome e l'onde» (ivi, VII, 240). Ma quella ferina veemenza si placa e «l'onda lucente» si fa persona umana quando si versa da canne ben terse nelle conche della fontana: «Pigra... sen va l'onda lucente, - e move tardi i cristallini passi; - che 'n sì ricco canal mentre s'aggira - le sue delizie ambiziosa ammira» (ivi, VIII, 51). E cantano le acque nelle varie cavità della fontana ingegnosa: «L'onda canora in cavo piombo chiusa - per molte canne l'anima comparte Piovuta si ringorga e si nasconde - l'acqua, e 'n cupo canal sup- pressa alquanto - singhiozza sì che '1 mormorio de l'onde - sembra di rosignuol gemito e pianto» (ivi, IX,99-io7); e rifulgono in volubili giochi: «S'intesse il fonte da tutte le bande - di traslucido argento un sottil velo, - e 'n tal guisa il suo giro allarga e spande - che vien quasi a formar coppa di gelo» (ivi, IX, 101). L'acqua, uscendo con forza dal chiuso, «si disfiocca in argentata spuma - e somiglia a veder candida piuma ...-Trasformasi l'umor liquido e molle: - volto in raggi, in comete, in stelle il miri» (ivi, IX, 107-108).
La donna bella gareggia con la natura bella, e le somiglia. Il vieto motivo della chioma bionda fluente si anima di quasi magico sfarzo: «Il groppo allor, che 'n su la fronte accolto - stringea del crine il lucido tesoro, - con la candida man lentato e sciolto - sparse Ciprigna in un diluvio d'oro; - onde a guisa d'un vel dorato e folto, - celando il bianco sen tra l'onde loro, - in mille minutissimi ruscelli - dal capo scaturir gli aurei capelli» (ivi, VIII, 46). Altrove la donna bella si circonda di fasto mondano e adorna la sua bellezza di squisito artificio: «A l'aura il crin, ch'a l'auro il pregio toglie, - si sparge e spande in mille giri avolto ...»; ma l'esperta ancella dà legge a quell'aurea dovizia: «Molti ne lascia abbandonati ad arte, - molti con morso d'or doma e corregge; - parte ne chiude in reticella, e parte - per ordir groppi e cerchi ella n'elegge; - e qual di lor, per emular l'aurora,-di fiori ingemma, e qual di gemme infiora» (ivi, XVII, 75, 77). Intorno alla dea, che così si adorna, giocano gli Amori, turba di monelli disfrenata in risse gioconde, in trastulli molteplici e bizzarri (scena da affresco pompeiano e da Antologia greca, moltiplicata e aggrandita dalla fantasia barocca!): «E l'aere, ov'ella ride, ond'ella spira, - d'anime tutto amorosette è pieno, - ch'ai vivo raggio, ond'è più chiaro il giorno, - sì com'ato- mi al sol, scherzano intorno. - Scherzale intorno lascivetto e folle - in mille groppi un nuvolo d'Amori» (ivi, XVII, 86-87).
E come non ricordare la vitalità veemente e leggiadra dei destrieri di gran pregio, di cui si fa distesa rassegna nell'ultimo canto del poema, nei ludi funebri per la morte di Adone? Il primo ha nome Balzanello: che «tosto che tre volte ode la tromba, - par sasso che volando esca di fromba». Né inferiore a lui è quello che gli vien dietro nella lizza: «Vergato a bruno e pien d'alto ardimento -vola, non corre, e nome ha Passavento.» Tutto candido «tranne il ciglio e 'l calcagno» è Armellino: «Sembra a l'andar, sì vago è quel cavallo, - sposa in passeggio, 0 donzelletta in ballo.» Impetuoso è il Turco, e di singolare aspetto: «Lungo e sottil la gamba, asciutto e breve - il capo, alto la fronte, altero il ciglio. - Di tutto il corpo, ch'è di bianca neve, - l'estremo de la coda ha sol vermiglio; - picchiato a schizzi e di macchiette fosche - puntellato il mantel, come di mosche». «Di pel simile a l'ambra» è una giumenta dal nome augurale: «Nel petto, ne le groppe e ne le spalle - pomellata è di macchie assai leggiadre. - Da la vivacità, che 'n lei sfavilla, - il nome tolse, e s'appellò Favilla» (ivi, XX, 263, 270, 283, 286, 289, 290).
Ma una vitalità incoercibile può albergare anche in un essere mutilo e sconcio, com'è Pasquino: «La lingua sua vie più che spada taglia, - la penna sua vie più che fiamma coce. - Con acuta favella il freno smaglia - e con ardente stil fulmina e nóce; - né contro i morsi suoi morso è che vaglia, - né giova schermo incontro a la sua voce ...» (ivi, VII, 170).
L'occhio del poeta barocco si indugia con singolare compiacimento sulle opere ardite e ingegnose dell'uomo e sulle sue invenzioni; e ne trae a volte motivo di autentico stupore. Ecco la scala tortile barocca, che s'erge nel mezzo d'uno spazioso cortile e dal suo vertice dirama quattro archi; e gli archi vanno a congiungersi con le logge che ricorrono tutt'intorno: «sì ch'una scala abbraccia e signoreggia - per quattro corridoi tutta la reggia» (ivi, III, 165). Nella gran sala degli elementi, meraviglia della reggia di Venere, s'erge, a modo di pilastro che sorregge la volta, «... un vasto Atlante - tutto d'un pezzo di diaspro fino - ... ferma ambe le piante-sovra un gran piedestallo adamantino; - e sotto l'alta cupola pesante - stassi con tergo curvo e volto chino» (ivi, V, 119). Il dio Mercurio, profetando l'invenzione del telescopio, si fa interprete dello stupore ammirativo dei contemporanei di Galileo: tempo verrà che le macchie della luna, su cui tanto si è favoleggiato, si faranno manifeste senza impedimento «mercé d'un ammirabile stromento - per cui ciò ch'è lontan vicino appare; -e con un occhio chiuso e l'altro intento, - speculando ciascun l'orbe lunare, - scorciar potrà lunghissimi intervalli - per un picciol cannone e duo cristalli» (ivi, X, 42).
Ma il poeta non appare in tutto inetto anche a contemplare con novità di sguardo l'umana sorte e le emozioni, se non proprio le passioni, per cui l'uomo esulta o si affrange. Ecco la dulcis amarities dell'amore: tra una girandola di oxymora, in cui l'artefice barocco ha fatto una delle sue massime prove di ingegno, si avverte, a tratti, un pensoso stupore: «Volontaria follia, piacevol male, - stanco riposo, utilità nocente, - desperato sperar, morir vitale, - temerario timor, riso dolente ...» (ivi, VI, 174). E preludendo di lontano a un tema romantico, il poeta favoleggia di un incontro tra Amore e Morte, onde da allora «Morte induce ad amar l'alme canute, - Amor tragge a morir la gioventute» (ivi, VI, 205). Ma il poeta è più propriamente al centro delle sue esperienze di vita là dove tratteggia l'ebbrezza e l'orgasmo dell'insaziata voglia d'amore: nell'ultima parte del canto VII si incontrano immagini di ingegnosa grazia e di aguzza lussuria (strofe 138, 144).
Un estro giocondo, un'autentica esultanza si avvertono a tratti in quel vistoso saggio di bravura stilistica e metrica che è l'inno bacchico (ivi, VII, 118-122): «Or d'ellera s'adornino e di pampino - i giovani e le vergini più tenere, - e gemina ne l'anima si stampino - l'imagine di Libero e di Venere.» Ma il poeta avverte, per contro, con amara acuzie, la pena della beltà caduca e il fastidio della deforme squallida vecchiezza: «Un lampo è la beltà, l'etate un'ombra, - né sa fermar l'irreparabil fuga. - Tosto le pompe di natura ingombra - invida piuma, ingiuriosa ruga. - Rapido il tempo si dilegua e sgombra, - cangia il pel, gli occhi oscura, il sangue asciuga ... - Vien dopo '1 verde con piè tardo e greve - la Penitenza squallida e canuta. - Dove spuntava il fior fiocca la neve, - e colori e pensier trasforma e muta» (ivi, VII, 91-92). Un'onda di autentico pianto si effonde sulla giovinezza leggiadra infranta dalla morte: la Morte che già si fece «gentile» sul volto di Beatrice, e «bella» apparve nel viso di Laura (se è lecito accostare il prestigioso rimatore barocco a Dante e al Petrarca!), ora si fa leggiadra e quasi morbidamente voluttuosa nel bel corpo insanguinato del giovinetto frigio: «Giace Adone il leggiadro, Adone il vanto - di queste valli, in grembo a l'erba giace - pallidetto e vermiglio ...» (ivi, XVIII, 134).
Né il voluttuoso artefice dell'Adone è in tutto inetto a intendere la vita come rischio e battaglia, sia pure soltanto per saziare la propria brama di agi e di onori. In quella copiosa parafrasi dello Scacchia ludus del Vida che è la descrizione della partita a scacchi, nel canto xv, v'è un luogo singolare (strofe 165-167), dove, sotto una finzione che può parere alquanto oziosa e goffa (la pedina che col suo ardimento si conquista il diadema regale), si intravede una verità umana d'ogni tempo: la dura ostinazione del plebeo che gioca tutto per tutto pur di liberarsi dalla sua condizione servile.
Come dall'Adone, così anche dalla Lira, dalla Sampogna. dalla Galeria e dalle altre opere del Marino non è difficile trarre un'antologia poetica autentica, se pure materiata soltanto di esigui frammenti.
Alcuni temi vi ritornano con frequenza, sebbene spesso appena accennati; e sono poi gli stessi che anche si avvertono, come s'è visto, qua e là nell'Adone e che dànno vita poetica varia e dispersa alle rime dei marinisti: la natura vive d'una sua magica molteplice vita, in un incontro suggestivo di luci, di forme, di colori, tra aliti odorosi di fiori che riempiono il cielo; le idoleggiate bellezze della donna (la poesia barocca, in ciò che ha di vitale, è quasi tutta poesia amorosa) trovano rispondenza analogica nelle fulgide bellezze del cielo e dei prati fioriti, sì che le une e le altre si fanno come una sola visione; cielo e terra sono costellati di emblemi che la natura, artefice ingegnosissima, vi ha tracciati e l'occhio del poeta contempla ammirando; analogie non prima vedute l'occhio del poeta barocco scorge tra aspetti, che parevano disformi, delle cose, e tra gli affetti suoi e i fenomeni vari della natura.
A dire il tormento della gelosia il Marino trova immagini come queste: «Tarlo e lima d'amor, cura mordace - che mi rodi a tutt'ore il cor dolente ...» (Lira, Parte I, xx). L'ostrica è «quasi un pargoletto scoglio - per durissima scorza aspro e sassoso» (ivi, XXIV). Il pallore che si sparge sul volto del poeta che piange la sua donna morta è veduto con questa immagine guerriera: «Morte la 'nsegna sua pallida e bianca - vincitrice spiegò sul volto mio» (ivi, XXXVI).
Cielo e mare, nel mattino sereno, si confondono in un unico fulgore: «Le cerulee bellezze e mattutine - il mar dal ciel, il ciel dal mar prendea;-e tranquillo e seren senza confine - un mar il ciel, un ciel il mar parea ...» (ivi, XXI). Magicamente vivono d'umana vita i fiori al passare della donna bella: «Vinta in bellezza e dal tuo piè calcata, - d'amorosa vergogna il volto tinto - inclina a te la rosa innamorata» (ivi, XXXI). La terra fiorita, a primavera, è tutta sparsa di figure significanti e allusive: ogni fiore è l'emblema d'un'anima amorosa, e tutti insieme son «fregi-del giovinetto Aprile»: «Dirò d'Aiace tinto - di vivace vermiglio? ... - O di Clizia, a cui piace - volgersi sempre inver' l'eterna face? - del lieto fiordaliso? - o de l'innamorata - mammoletta odorata, - d'amor pallida il viso? - O dirò di Narciso, - che da quell'acque, ond'ebbe - la morte già, trasse la vita e crebbe?» (ivi, Parte II, XI). Il volto dell'amata vince col suo dolce pallore le tinte del cielo e delle rose: «Pallidetto mio sole, - ai tuoi dolci pallori- perde l'alba vermiglia i suoi colori. - Pallidetta mia morte, - a le tue dolci e pallide viole - la porpora amorosa - perde, vinta, la rosa» (ivi, xiii).
Nello specchio che, fatto persona viva, suole vagheggiare il bel volto della donna, il poeta non trova che la «trista imago» sua propria, e se ne adira! (ivi, XVIII). Minuti oggetti della quotidiana realtà fra le dita della donna amata si traspongono in fantastici simboli: «È strale, è strai, non ago - quel ch'opra in suo lavoro, - nova Aracne d'amor, colei ch'adoro... - Misero! e quel sì vago - sanguigno fil che tira, - tronca, annoda, assotiglia, attorce e gira -la bella man gradita, - è il fil de la mia vita» (ivi, XIX).
La bella donna vestita a bruno si trasfigura in una «animata Notte» che il poeta antepone a ogni più fulgido aspetto del giorno: «Non caligine e gelo, - poggiando al suo bellissimo orizonte, - come l'altra produce, - ma porta ardore e luce. - L'oriente ha nel riso, ha l'alba in fronte, - il dì nel ciglio accolto, - e le stelle negli occhi e '1 sol nel volto ... - Deh! perché non mi lice, - o Notte amorosetta, - farti carro talor del proprio seno?... - Oh potesse il mio core, - luccioletta volante, - scherzar per l'ombre tue lucide e liete; - o mi cangiasse Amore - in vil gufo vagante, - perch'avessi a' tuoi piè posa e quiete» (La bella vedova: ivi, Parte III, IV).
Son già quasi romantiche quelle due piante innamorate che non possono congiungere le loro fronde, «ma sotterra però con le radici, -se non co' rami, a ritrovarsi vanno» (ivi, V). In un sonetto si incontra questa arguta fantasia, tra alessandrina e barocca: «Onde dorate, e l'onde eran capelli, - navicella d'avorio un dì fendea ... - Per l'aureo mar, che rincrespando apria - il procelloso suo biondo tesoro, - agitato il mio core a morte già» (ivi, VIII).
La «bella mano» della donna amata, che il Petrarca e i petrarchisti vagheggiarono quasi prezioso monile, e di cui ogni movenza fu intesa come espressione di crudeltà o di amore, è veduta a volte con altri occhi: nell'atto di agitare e gettare, fatta «ardita e franca», il «minuto avorio» dei dadi (ivi, X).
Un'ampia canzone (Eco) è poeticamente animata dal senso di una presenza invisibile nella campagna solitaria; ed è sparsa di affettuose immagini, con cui un querulo pastore evoca la ninfa ch'è ormai nuda voce delle selve e delle rupi: «Qui dunque, qui, tra l'ombra opaca e negra, - fuor di gioia e di speme - stiamo piangendo insieme.» Ma alla fine - così il poeta immagina - l'inganno consolatore si spegne: Eco non risponde al pastore innamorato; ed egli è più che mai crucciosamente solo: «Stolto! a cui parlo? Misero! che tento?-Racconto il dolor mio - a l'insensata riva, - a la mutola selce, al sordo vento ... - Ahi, ch'altro non risponde - che il mormorar de l'onde!» (ivi, XIX).
Momenti di poesia anche si incontrano, più che nell'Adone e nella Lira, nella Sampogna. Vedete come si anima di mitica e quasi magica vita il popolo vario delle piante, mosso e ammaliato dal canto di Orfeo, nell'idillio che da lui prende il nome (vv. 760 sgg.): «... scese a gran passi il verdeggiante pioppo ... - Vennevi il dritto e funeral cipresso, - piramide de' boschi, arbor gigante ... - 'l bianco e lento salce, - ch'abita i fiumi ed ama - pascer la sete sua vicino a l'acque ... - Ed uscì de le braccia - de la moglie ritorta - il padrigno de l'uve olmo frondoso ... - L'elee negra ed annosa, - da que' versi animata, - stese i densi suoi rami, e con le fronde - folta ombrella tessendo al nobil capo ...»
Nell'idillio Atteone, la valle Gargafia, che Ovidio aveva descritta in versi nitidi, ma spogli d'ogni potere suggestivo (Met., III, 155- 162), si trasfigura in un recesso dove tutto sembra presentire e preannunciare il prodigio (vv. 293-344); e si animano di umana trepida vita le piante dalle «braccia frondose» e le aure e le acque, intorno al disvelato fulgore della dea e delle ninfe (vv. 459-475): «Tacea la selva intenta-al celeste miracolo amoroso. - Su l'ali assisi i venti - tenean sospeso il respirar del fiato. - L'aurette vaneggianti, - stupide spettatrici, aveano imposto - alto silenzio a le sonore fronde.»
Si notino, in Arianna, il ritratto adorno e pittoresco di Dioniso giovinetto, in atto di contemplare con trepida brama d'amore nascente la giovane donna che dorme (vv. 108-144); e l'èmpito gioioso della danza e del canto delle baccanti e dei silvani (vv. 624- 709): «Vedi, vedi come fuma, - come brilla e come spuma;-è soave ed è mordace, - picca e molce e punge e piace. - Gran sollazzo è ber così: - prendi qui ...»
In Europa troviamo un'altra volta la trepidazione amorosa dei fiori al passare della donna bella: tutto il prato fiorito pare che si animi per occulta magia (vv. 48-126): «La gentil mammoletta, - dal caro peso oppressa - di quelle vaghe piante, - d'amoroso pallor tinta la guancia, - tramortì di dolcezza in braccio a l'erba ... - Il papavero molle - alzò dal grave oblio, - colmo di meraviglia, - la sua vermiglia e sonnacchiosa testa ...»
Insolitamente sobria e sensibile al mistero della notte imminente è la descrizione della sera negli ultimi versi de La bruna pastorella: «Già l'ombra de la terra - si dilata per tutto. Ecco, d'intorno - un denso umido velo - la gran faccia del cielo - ricopre, e folta nebbia - occupando le piagge imbruna i colli.» E su quel fondo bruno una vivida evocazione della luccioletta: «Vedi la luccioletta, - fiaccola del contado - e baleno volante, - viva favilla alata, - viva stella animata ...» (vv. 460-470).
Felicemente realistiche e immaginose insieme sono le arguzie di Filaura (ne La ninfa avara), dov'essa risponde alle ingenue promesse e profferte di Fileno: «Canzon? Non vo' canzoni; - son di versi satolla: - tanti da mane a sera - ne compongon gli augelli - per questi rami intorno, - che m'assordano il giorno ...» (vv. 433-438); «Quante volte solete - dirne voialtri, adulatori amanti, - che 'l vostro idolo amato - i zaffiri ha negli occhi, e ne la bocca - i rubini e le perle? - Or sì fatto tesoro - non si merca senz'oro!» (vv. 568-574).
Per ultimo, nella Sampogna. tra le facili ottave de I sospiri d'Ergasto, si noti la vignetta arguta della gazza: «Tolsi una gazza dal materno nido, - ch'appreso ha il nome tuo, scaltra e loquace. - Di monte in monte il dì, di lido in lido, - sen va volando libera e fugace ...»; «L'indico parlator quasi somiglia, - sì ne la piuma a più color diversa, - sì ne la lingua ardita a meraviglia ...» (strofe 64-65).
Più esigui frammenti poetici si possono raccogliere nei madrigali e nei sonetti della Galleria. Dal vulgato concetto dell'arte che imita la natura e la uguaglia, il poeta fa scaturire a volte qualche favilla di autentico stupore dinanzi alla finzione che si confonde o si scambia con la realtà: come in questo San Girolamo: «Oh come espresso al vivo, - con le ginocchia a terra, il santo vecchione l'antro ombroso, a piè d'un chiaro rivo, - si batte il petto e, sospirando, a Dio - del suo grave fallir chiede perdono! - Sentirebbe l'orecchio - del sasso i colpi e de la voce il suono, - se del vicino rio - non fusse il mormorio...»; o in questa Madonna del Correggio: «Finto non è, ma spira - il divin pargoletto ....... E ben mover vedresti - i bei membri celesti; - ma non vuole e non osa - (sì lo stringe d'amor tenace laccio) - a la gran genitrice uscir di braccio.»
Altrove si incontrano trasposizioni impreviste di immagini, singolari analogie. Il bambino in culla comincia a sperimentare l'instabilità dell'umana sorte! «Soggiace il poverel fin da la cuna,- agitato dal piè de la nutrice, - a l'agitazion de la fortuna» («Le pitture», XXV). L'accordo di due cuori amanti è veduto simile a una consonanza di cetre (ivi, XI). In un immaginoso sonetto su Aristofane (ivi, XXIX) l'occhio del poeta scorre con lieta prontezza da un aspetto ad un altro, che appaiono assai diversi, della natura e delle cose umane, e coglie impreviste analogie: «Di dolce frutto alpestre guscio è pieno, - tien sozza conca eletta perla ascosa ... -Nutre gelida selce il foco in seno;-serra lucido acciar nera vagina ...» A volte gli imprevisti accostamenti son trovati per gioco, ma con la stessa lieta prontezza: «Se bene un granchio fe' morir Morgante, - quando gli diè di morso nel tallone, - non però il mio poema, ch'è gigante, - morrà, quando il mordesse anco un dragone ...» (Luigi Pulci, ivi, XXXV).
In tre ottave dedicate a Medea (ivi, XL), l'abituale gioco delle contrapposizioni attinge a tratti una drammatica espressività nel dire lo stupore angoscioso di chi, possedendo un'eccelsa signoria sulle cose, avverte la sua cruda impotenza a dominare la vita morale: «Signoreggiar la passion del core - invan tentai, se ben reina io fui ... - Vinsi le stelle con possenti versi, - Amor non vinsi invitto e trionfante ...»
Quando si passa dal Marino ai marinisti, si avverte in essi a volte un sapore di novità più acuto che nel loro maestro. (Ma fu davvero il Marino un maestro, o fu soltanto il più dovizioso e più scaltro artefice, tra una coorte di rimatori di cui alcuni ebbero forse spirito poetico più schietto del suo?)
Singolarissime immagini, analogie non prima proposte da altri poeti, o comunque, atteggiate in modo nuovo, si colgono in gran numero nelle rime dei marinisti. E se parrà alquanto prolissa la rassegna che qui si fa seguire, si pensi ch'essa può riuscire probativa soltanto se adeguatamente ampia e varia. È troppo evidente che qualche bel verso isolato che dia, o sembri dare, nuove risonanze, non basterebbe a dimostrare che un lievito di nuova poesia era presente in quell'immensa rimeria barocca. Qui si tratta di altra cosa che di poche eccezioni.
In due sonetti di Cesare Rinaldi - che fu contemporaneo del Marino, anzi un poco più vecchio di lui - fra la stramba ingegnosità che giunge fino al limite dell'assurdo, quasi preannunciando a distanza di alcuni decenni i deliri del barocco più tardo, traluce qualche immagine pensosa e veemente: il bel riso della donna è «onda di Lete» al poeta innamorato, tanto ch'egli più non ha sete se non di quell'onda (II); i fulmini guizzanti tessono per l'aria un velo alla chioma di Aletto evocata dal poeta a simboleggiare un orrido cielo in tempesta (III).
Un madrigale dello Stigliani, che identifica la donna bella con la natura, ha felicissimo inizio: «Tutta fatta voi siete - di materia di cielo ...» (I) In un altro madrigale dello stesso, il velo tra cui splendono il volto e la chioma bionda della donna è «nube tralucente, - di bianco lin contesta» (III). Altrove il poeta si adira, geloso, con l'ombra della sua donna «che le va dietro ognora» (X); o paragona se stesso, che ha posto troppo in alto il segno del suo amore, al fanciullo che tende «la semplicetta man» verso le stelle per volerle toccare (XI). Nei madrigali ch'egli compose con intento di parodia, alcune immagini riescono curiosamente suggestive, pur così volutamente strambe come sono: gli occhi della gatta ch'eran «lucerna antica» nello studio del poeta (XXIII: qui lo Stigliani si ricordò di un sonetto ben noto del Tasso); l'esercito dei fiori, cui dà animo il «garrulo zefìretto», «tromba di primavera» (XXV).
Più schietto spirito poetico è Marcello Macedonio. Non nuova ma nuovamente atteggiata è in un suo sonetto la leggiadra finzione alessandrina di Amore fanciullo che si fa navicella della sua faretra e vele delle sue ali (I). Altrove, la veste azzurra della donna amata è come «un cielo» al «bel sole» che essa avvolge (II); o la veste nera tra cui splende il bel corpo di lei fa pensare al sole che traluce «per entro un nuvolo diviso» (IV). Il poeta vede le acque limpide, che scorrono, quasi «filze di perle fine» e «serpi cristalline»: quelle acque che il sole ruba di mano al mare ed alza «a trionfare - sul carro de le nubi» (VI). L'alba è per lui la «pastorella celeste» che raccoglie «ne l'infiorato ovile» «la greggia de le stelle, - lucide pecorelle, - a cui son ricca lana i folti raggi» (VIII). Le bellezze della cara persona morta sono trasmutate dalla fantasia amorosa in varie apparenze belle del mondo divenute inerti e spente: «Occhi, morte mie stelle, - bocca, muta mia cetra...- leggiadra persona, - spezzata mia colonna»; e il mirabile sepolcro per lei desiderato dovranno i fabbri ingegnosi costruire «il giacinto inarcando su 'l zaffiro - e curvando il zaffir su lo smeraldo». Intorno al corpo esangue di Adone sono gli Amori, affaccendati a rendergli i funebri onori; e gli occhi della dea piangente si fanno «conche marine», dove le lacrime brillano come perle (VII). Il viso della Primavera improvvisamente appare al pastore Tirsi «dal selvaggio balcon d'un verde poggio», e Aprile, fattosi pittore ingegnoso, ne pennelleggia nei campi fioriti la divina bellezza (IX).
In un sonetto dell'Achillini il bosco «s'infoglia» per rispondere al desio del pastorello, e la «giovinetta foglia» a lui ricama il seggio, tessendo l'ombre col sole (II). In due madrigali, l'abito della sua donna, ch'è di color del mare, suggerisce al poeta «l'instabilità de l'onde» (VII); e il vezzo intrecciato di nere croci scrive sul petto di lei, quasi in un «bel foglio», la pena del suo amante (IX). In una lettera famosa, un predicatore acceso di santo zelo è «così macilente, confitto e sepolto dentro ai panni, che a pena si vede, anzi altro non si vede e non si ode che una lana agitata che sgrida, un mantello vocale, un capuccio che atterrisce, un fuoco che scintilla fuori delle ceneri, una nuvola bigia che tuona spaventi...».
In un sonetto del Preti, la donna altera sul bianco destriero «sovra un colle di neve un fior parea» (I). Già quasi romantica è la figura ch'egli tratteggia altrove, dell'innamorato che col pensiero entrando nella casa della donna amata, ora abbraccia un muro, ora bacia un sasso (IV). E quasi romantico è il paesaggio del monte che «infin al cielo inalza - la frondosa di querce ispida schiena» (bel verso che si direbbe alfieriano, come poi quello che chiude il sonetto: «è di pianto amoroso onda stillante») (VIII). E alfieriano è già quasi il cavallo barbero di cui «la ferrata zampa - sparge de le faville i lampi intorno - e pur selce non tocca, orma non stampa» (IX). Ma felicemente barocco è l'implacabile moto delle ruote dentate, nell'oriuolo a pesi, che misura gli attimi e batte le ore (X).
Il Paoli ci presenta una scolara semplicetta e scaltra, che ripete, ma solo per esercizio di grammatica, le parole d'amore del suo maestro (VII). Una donna bella dalla chioma rossa è veduta da lui come un prodigio sidereo: «Spieghi crine sanguigno, - spargi lume benigno ... - sotto crin di cometa occhi di sole» (III). La pena e l'ansia d'amore sono trasferite e dipinte nelle cose: «ne' fior caduchi il mio sperare incerto, - ne le pallide foglie il mio sembiante ... - ne le canne agitate il cor tremante» (X). La stella di cristallo sui capelli della donna amata è «tramontana adorata ai cori amanti», «astro ridente» (XV-XVII). L'angoscia d'amore è drammaticamente espressa in alcuni versi di due stanze di canzone: «De la Morte i compagni - contro di me s'accampano ...»; «Già mi corre veloce entro le vene - liquefatta la morte» (xviii- xix). Tragicamente barocco è un lamento sulla tomba della donna amata: «Oh bel viso, oh bel seno, - orti un tempo d'amore, - or deserti d'orrore! ...»; «Chiudo gli occhi e le labra - in eterno silenzio, in ombre eterne:-e sovra te cadendo - pallido, freddo, muto ...» (XXIII).
In un sonetto del Giovanetti, l'apparire di occhi lampeggianti, tra le chiome nere, trasferito su un piano iperbolico, diviene quasi una fascinazione irrepugnabile: «Escon da' vostri torbidi volumi, - come lampo talor da nube impura, - verso il mio cor d'accese fiamme i fiumi» (II). Chi fra tanti laudatori degli occhi della donna amata, sulla scia del Petrarca e delle sue tre «canzoni sorelle», aveva mai trovato un'immagine romanticamente ardita come questa: «de' suoi begli occhi i luminosi abissi» (V)? E la veemenza guerriera dello sguardo che ferisce d'amore è tutta in un verso: «l'arco del ciglio non saetta invano» (IX). I pensieri amorosi del poeta sono simili a destrieri in corsa; e «a cento, a mille», egli dice alla donna, con sùbito trapasso fantastico, «vengono a voi su gli occhi tuoi lucenti» (XI). Altrove il temuto fulgore di quegli occhi è suggerito in modo singolarissimo: chiusi nel sonno, tacciono i loro imperiosi divieti: «nel vel de le palpèbre ascoso il guardo - punto non mi vietava il pensier folle»; e il fascino amoroso che emana dalla bella dormente è detto con una similitudine nuova: «come, s'avvien talor ne' giorni estivi - che densa nube intorno al sol s'accampi, - vibra egli i raggi più cocenti e vivi, - e chiuso par che con più forza avvampi ...» (XIII). All'apparire della donna presso le acque del lago, tutte le cose, quasi per magia, si fanno viventi: «alga o scoglio non è, che non s'infiori; - fiore, che non si specchi entro quell'onda; - onda, che non sfavilli a tanto ardore» (XIV).
In un sonetto del Sempronio, un nuovo gioco d'immagini argute si dispiega intorno alla figuretta di Eurilla che, coi capelli fasciati dopo la lavanda, pare «gentil vaga turchetta» (IV). Altrove, le chiome, ricadendo sul candido collo, formano «preziose ... belle ruine» (V); oppure sulla fronte si attorcono in riccioli «lascivi e sottili e serpentelli» (XII); o, con veemente iperbole, la chioma rossa disciolta «un diluvio di fiamme a poco a poco - sovra l'anima mia piover parea» (XIII). Lilla, che al suono d'una cetra muove alla danza «le piante agili e snelle», suggerisce al poeta una danza siderea: «... passi movendo or tremoli or leggeri, - co' piè d'oro nel ciel danzan le stelle» (IX). Altra danza muovono, non più le stelle in cielo, ma le stille cadenti tra i marmi d'una fontana, al suono dell'acqua scrosciante, in un sonetto del Maia Materdona (XII); che altrove vede la veste rossa d'una fanciulla simile a «nuvola vermiglia» che «del sol s'attraversi a' rai nascenti» (XVIII).
Per le morbide e voluttuose ottave della Via lattea di Scipione Errico s'effonde a tratti un senso fiabesco, come di lieta e fulgida magia. Tra le acque chiare, sotto il vivido sole, nuotano festose le Nereidi e le Napee: «schiera parean di delicati avori, - schiera di vaghi e teneretti argenti... - Ed in un s'inargenta e in un s'indora - con spume il mar, con sciolte chiome e bionde, - e gemiti d'amor mandan talora - da le tenere palme aperte l'onde ...»; poi escon a danza sull'arena: «Escono alfin da' salsi ondosi umori - e stillan molli perle i vivi argenti, - che gocciolando van tra' bei candori, - de l'aria di beltà stelle cadenti ...» (strofe 12-13, 19).
In un curioso madrigale, che è un quadretto di genere, di Giovanni Andrea Rovetti v'è un putto che «brilla in vista» al veder ruzzare con un ghiro un cane. In un sonetto di Antonino Galeani, la bella tra le braccia di un vecchio è veduta quasi «perla in gusci, astro in nicchi ed oro in zolle». In un sonetto di Martino Lunghi, il pallone, «ch'in sen di cuoio alma ha di vento», è detto «industriosa macchina leggiera».
Particolarmente ricco di frammenti poetici (e a volte sono qualche cosa di più che frammenti) è Girolamo Fontanella. Ecco la perla che «alluma di candor l'onda marina, - uscendo incontro al sol bianca e ridente» (II). I mormorii di un ruscello sono simili a «trilli canori», «al cui suono gentil canta ogni augello, - a la cui melodia danzano i fiori» (IV). Il fiumicello spunta «con passo lucente - fuor d'un seno petroso» (XLIII). Nelle campagne sitibonde i fiori son divenuti «bocche funeste, - e sospiri gli odor, lingue le frondi ...»; e nella spietata calura «tragico il bosco; e '1 monte orrido e solo - funestato ha di polve il crine e 'l manto» (VI). Il vento si fa persona viva, in due versi che paiono fattura di un romantico: «Alito de la terra e spirto errante, - che da concavi monti in aria esali ...» (VIII). E già quasi romantica è la luna, «reina de' boschi in bianca vesta», che «or con languido lume - fra le nubi sepolta umida manca, - or con candide piume - le selve inalba e le campagne imbianca» (XXXII). Dentro l'onde del mare, quasi in un magico giardino, rameggia «il purpurino virgulto» del corallo, che non sai se sia pietra o pianta (IX). La nuotatrice che s'è tuffata nell'onda è simile a perla «che vetro asconda» (XXV). Gli occhi stellanti della donna amata sono «tre- moletti ruscelli, - ove in mezzo de l'acqua ardono i lumi» (XXXVIII). Amore matura sulla bocca della donna bella uve più dolci che quelle sacre a Bacco (XXIV). Nei campi «ogni fior che germoglia apre un sorriso ... - Qui porporeggia il melo, - là giallo impallidisce il cedro antico ... - di rubini la vite orna il suo stelo»; e quando «scende l'ombra da' monti umida e grave», lo stridulo grillo «in voci rotte - par ch'annunzi la pace e dica: È notte» (XXXI). E l'occhio del poeta è singolarmente attratto dalla melagrana «piropo de' campi»: essa «per dar vita a' suoi parti, - che son molli rubini, - pellicano d'amor, s'apre in due parti» (XXXIV).
Leggiadre e lievi immagini il Fontanella, come altri rimatori del suo tempo, trova per i fiori: il gelsomino è «minuta gemma e pargoletta stella»; «allegrezza di maggio» è «l'umil ginestra»; «pien di dolce sopor, cadente e grave» è il papavero; «occhio tenero e biondo» è «l'elitropio amoroso» (XLI).
Tutto un inno, ricco di notazioni e impressioni peregrine, il poeta rivolge alla «cicaletta innocente, - garruletta volante»: «Tu nel collo dipinto - hai sì vago monile, - che, di porpora tinto, par di saggio pittor linea sottile» (XXXIII).
Amorosamente vagheggiata è la ricamatrice «che con dita maestre adopra l'ago»: «su la rosa gentile» della bocca «il bell'ago sottile - pensosetta talor leggiadra incocca, - ed in quell'atto insidiosa e vaga, - sagittaria d'amor, gli animi impiaga» (XXXVI). La saltatrice, «questa bella d'amor maga innocente, - che con giri fatali - i balli move inegualmente eguali, - fa d'insolita gioia ebra ogni mente» (XXXVII). II pettine di terso avorio è simile a candida navicella su aurati flutti (xvi: poco diversamente il Marino, in un sonetto della Lira, ed altri secentisti). La culla, dove il bimbo s'addormenta, è una «pargoletta nave» che corre «per l'onde de l'oblio» (XVIII). Mirabile strumento è l'organo, «di più canne ineguali insieme ordito», dove il cavo piombo è gravido di vento (XIV).
Poeticamente inizia un suo sonetto Giuseppe Salomoni: «Quasi frondoso bosco o prato ameno, - quando i novelli fior l'erba germoglia, - veste la donna mia di verde spoglia - il molle fianco e 'l delicato seno» (I). Anch'egli dedica un'ampia ode alla cicala, «strepitosa aralda» dell'estate, celebrando la sua voce «ruvidetta e loquace» (VII); e canta la luna che «di perle quaggiù veste ogni stelo» (IX); e contempla, ma con ambiguo tono tra di omaggio e di canzonatura, la sfiorita bellezza d'una «vecchia gentile»: la fronte di lei, «che fu già di beltade, - sparsa di bianchi fior, piaggetta amena», è ora «dal freddo aratro de la vecchia etade - solcata ...» (XII).
In un sonetto di Bernardo Morando la donna spietata in amore è argutamente contrapposta al riccio della castagna: «egli di fuore - aspro è ben sì, ma dentro molle ha il frutto; - tu sei molle nel volto, aspra nel core» (III). Altrove, il rimatore ha qualche schietto accento di passione: «Ahi, che non giunge a fine - il desio sitibondo innamorato» (X). Fervidamente lieto è un suo ruscello, a primavera: «Uscito il rio da la prigion del gelo, - lieto di libertà gorgheggia e canta» (XVII). Ed ecco un'argutezza che sarebbe barocchistica piuttosto che barocca se non suggerisse l'immagine fulgida del dio solare: «Su la cetra del ciel poeta il sole - muove già de' suoi raggi il plettro ardente» (XVIII). Sta a sé, tra le rime del Morando, una canzonetta che ci offre uno schizzo lietamente grottesco: il nano gobbo e bravo, di nome Amico: «Nel mio breve corpicello - il modello - egli fe' d'un gran colosso: - novo Encelado compose - e mi pose - su le spalle un monte adosso» (XX).
In un sonetto del Brignole Sale, la primavera esala sotto la canicola «di moribondo odor gli ultimi fiati» (II).
Paolo Zazzaroni così parla, con romantico fervore, alle proprie rime: «Voi, de l'anima mia figlie dolenti, - nate d'ardor, di lagrime nodrite, - ite, rime amorose, itene ardite - a la bella cagion de' miei tormenti...» (IV). E non meno accorato e affettuoso è Leonardo Quirini, dove dice all'amata che dorme: «Tu forse in grembo a morbidette piume - sciogli le membra in dilettoso oblio; - ed io qui, lasso, in lacrimoso fiume - stemprato il cor e l'anima t'invio» (II).
Vincenzo Zito così descrive una galea, dominatrice vivente del mare: «Formanti crin le tremole bandiere;-ti sono i gonfi lin spoglie nevose - ed occhi l'ardentissime lumiere» (II).
Nel dire la sua pena per la morte della donna amata (e poco importa se sia realtà o finzione) Ciro di Pers trova accenti cupi che fanno pensare a certi angosciati sonetti dell'Alfieri: «Sparita è ogni mia luce, ogni mio bene; - non mi riman che tenebre e dolore ... - Nulla mai di lucente o di giocondo - potrà la mia temprar pena infinita, - il mio rasserenare orror profondo» (V). E un suo sonetto si chiude con un'invocazione che si direbbe pensata da un poeta romantico: «... Se ventura al gioir mi niega il fato, - mi negasse egli ancor senso a le pene!» (VI). Ma egli sa altrove contemplare con stupiti occhi sereni la bella ricamatrice che «con nobil arte e rara - fa su' manti fiorir serico aprile» (III); sa ammirare, fantasticando, gli agili giri d'una danzatrice: «Que' giri ch'ella fa co' piedi erranti ... - cerchi son forse d'amorosa maga, - o rote son da tormentar gli amanti» (VII); o dilettarsi nel ritrarre la figura rude e solitaria del cacciatore notturno: «Solo e notturno uccellator tonante - chiama l'usato can, la fune accende; - cinto di grave cuoio il piede errante, - laberinti palustri e cerca e fende» (XXXII). Più spesso, Ciro di Pers medita grave sulla devastazione che gli anni adducono alla florida bellezza della donna: «Nel giardin de le Grazie e de gli Amori - solca indiscreto il vomere de gli anni - non perdonando a' più leggiadri fiori» (XI); o sulla brevità del vivere umano che «è di sospir, di pianto, un'aura, un'onda» (XII). Quest'ultimo tema egli elabora con urgenza spietata in una canzone dove s'incontrano immagini che fanno pensare al Leopardi: «È la vita mortale - vana un'ombra che passa, - lieve un'aura che fugge ... - un fior che, nato appena, - o lo rode la greggia, - o lo tronca la falce, - o lo svelle l'aratro, - o lo recide l'unghia, - o lo calpesta il piede, - o turbine l'abbatte, - o grandine l'oltraggia ...» (XXX). Dal pensiero della tomba egli pare quasi ossessionato. Un orologio a polvere gli suggerisce questi versi: «Poca polve inquieta, a l'onda, ai venti - tolta nel lido e 'n vetro imprigionata, - de la vita il cammin, breve giornata, - vai misurando ai miseri viventi» (XIII). E versi di più cupa risonanza egli scrive ascoltando il battere delle ore d'un orologio a ruote: «Mentre il metallo concavo percuote, - voce funesta mi risuona al core ... - E con que' colpi onde 'l metal rimbomba,- affretta il corso al secolo fugace, - e perché s'apra, ognor picchia a la tomba» (XV).
Immagini crucciosamente iperboliche e grottesche Ciro di Pers trova in un sonetto, assai noto, sul mal di pietra che lo travagliava: «Son ne le reni mie, dunque, formati - i duri sassi a la mia vita infesti ... - Io so che in queste pietre arrota l'armi - la Morte, e ch'a formar la sepoltura-ne le viscere mie nascono i marmi» (XXIV).
Con singolari immagini Giuseppe Battista paragona se stesso innamorato al mare: «Simile a te son fatto, o mar Tirreno; - l'anima straccia a me piaga mordace, - a te ferrata prua lacera il seno» (VIII); o, più curiosamente, alla cicala: «Tu delle membra tue la spoglia hai nera, - a me tinge l'aspetto egro pallore. - Talora hai tu dal ferro il petto inciso - di parto arciera, ed io dall'arco intanto - porto del dio ch'è cieco il cor diviso» (XI). Anch'egli s'indugia stupito ad ammirare il sottile lavoro della ricamatrice: «Arricchisce di bacche al mirto i rami, - finge la rosa di vermiglio ardore, - alla calta concede il suo pallore, - ed all'acanto i teneri legami» (XII). Esce in accenti di cruccioso e desolato pessimismo: «All'uom, d'ogni animai più sventurato, - Natura, crudelissima noverca, - il rimedio de' mali ha sol celato» (XIII); «I mali di quaggiù gravi son tanto - che, per guarir le travagliate genti, - è vano il riso ed è più vano il pianto» (XXIII);o amaramente contempia anch'egli la miserabile vecchiezza: «Giunto l'uom di sua vita al verno ingrato, - di cave rughe e di canute brine - ha il volto arato e seminato il crine, - per la gelida man del vecchio alato. - Tremolo i piedi e gli omeri curvato ...» (XV). Ma più originale è nel trovare alcune fantastiche analogie: «Scoglio, ch'ha rotto il fianco e 'l piè tenace - nella mobilità dell'onde amare» (XVII); «O fiori, allegrezza degli alberi ramosi!» (XIX); «Una tavola forse allor parea, - dove man di Natura avea dipinto - di tutte cose un'abbozzata idea (XXII: Il caos); «Or ch'han le cose esordio, ascolto i venti - alitar per lo cielo anima molle» (XXXI). Si fa pensoso nel dire l'indefinibile pena d'inappagamento che s'accompagna anche ad un sereno vicendevole amore: «... E pur mi doglio e piango. E la cagione - del mio duol, del mio pianto io non conosco» (XXIX). In un singolare sonetto, che fa pensare al Pa- rini, muove un coperto rimprovero al ricco che ozioso vive delle fatiche altrui: «Versando agli ozi tuoi voler di numi - larga benignità, l'opre di tanti - che travaglian quaggiù tu sol consumi» (XXVII).
Tra il frigido gioco delle più strambe argutezze, il Lubrano ha qualche tratto felice, nel celebrare «mostri» di natura o d'arte: le lucciole, che «quasi di natura alati incanti - cangian le fughe in lampi, il volo in raggio» (IV); il fluido elettrico che giunge dalla torpedine alla mano del pescatore: «funambolo velen per gli ami ascoso - corre ad assiderar la man tremante» (IX); i cedri ridotti in varie orride figure con tagli ingegnosi, in un giardino: «Rustiche frenesie, sogni fioriti, - deliri vegetabili odorosi ...» (XI).
In un sonetto di Giovanni Canale, la polvere da fuoco con cui si fanno i razzi «reca alla notte oscura, all'ombra ascosa - de' suoi fatui splendor famiglia stolta» (III).
Federico Meninni ammira stupito la forza dell'umano ingegno: «In breve giro - Europa tutta epilogata io trovo ... - Veggo regni remoti e clima novo, - e d'incognite balze il ciglio ammiro» (III); o medita accorato sulla tristezza del lasciare, morendo, gli usati aspetti delle cose che a noi sopravviveranno: «In questo albergo, in cui ricovro ho caro ... - altri faranno in altra età soggiorno. - In questo letto, ove fra l'ombre assonno - perché rechi a' miei sensi alcun ristoro, - altri ancor chiuderà le luci al sonno .. .» (IV).
Lorenzo Casaburi descrive l'iridescenza luminosa dell'opale, motivo di meraviglia a chi guarda: «or t'assembra carbuncolo stellante, - or di zaffiro, or d'ametisto è tinto ...» (IV); e la bravura della giocatrice di corda: «Corre Clorinda in sui ritorti lini qual per l'aeree vie stella cadente» (IX).
Pietro Casaburi dice poeticamente, a tratti, in una lunga ode mitologica, lo smarrimento desolato dei fiori e delle cose tutte, ove manchi la persona bella ch'essi vagheggiarono: «Mimato di gemiti odorati - da te lungi sospira il bel Giacinto ... - Lungi da te, fra l'odorosa prole, - schiude lai vegetanti Aiace esangue ...
Nella tua lontananza ognor si scioglie - tutta in sospiri l'anima de' venti» (I). Vede le bellezze della sua donna trasferirsi per emblemi nella natura fiorita: «... schiude il ligustro ... - del tuo bel seno i palpitanti avori»; l'iri odorosa «pinge ... - l'arco saettator del tuo bel ciglio» (III). Va fantasticando, come altri marinisti, sulle chiome nere della sua donna: «Foschi miei labirinti, in cui dannato - lieto il mio core in dolce error s'aggira; - ebeni molli ...» (VI); «Tenebroso Meandro, entro il cui giro - naufragato m'avvolgo in dolci errori» (VII).
Con bizzarra fantasia, Tommaso Gaudiosi invidia l'ombra sua propria, che più di lui si avvicina alla donna amata: «Cosi m'è forza invidiar quel vano - apparente di me che l'aria ingombra, - mentre io vivo e verace ardo lontano» (XIII). Rappresenta con singolare evidenza gli atti insani di una donna impazzita: «Or sembra gaza garrula e loquace, - or, taciturna, effigiato un sasso. - Ride talor, talor con ciglio basso - tutta in un tempo in lagrime si sface» (XVI). Medita sull'infelicità umana, che comincia nell'utero materno: «Parte fra l'ombra del materno seno - vissi ignoto ca- davero spirante ...» (VII). Trova accenti, inconsueti fra i marinisti, di autentica religiosità: «Ignoto Dio ch'in ogni parte splendi, -che senza loco in ogni loco stai ...» (VIII); «Signor de l'anno nubiloso e breve - de la mia vita instabile e volante ...» (X).
Bartolomeo Dotti saluta con immagini inconsuete il ruscello che alimenta, creatura viva, le fontane della sua città: «Ruscello, naturai figlio de' monti, - figlio adottivo a la mia patria viene ...» (VIII). Vede con occhio attento il grano farsi candida polvere sotto la macina: «e la granita sua chioma già bionda - in atomi canuti ecco disciolta» (IX). Descrive con arguto impressionismo l'anguria: «Io, di palustre suol frutto nativo, - d'una madre pigmea figlio gigante ...» (XV). Ma trova parole di indomita fierezza immaginando un uomo povero che apostrofa nemici prepotenti: «A la mia povertà, che non si atterra, - se manca l'oro a procurar la pace, - non manca il ferro a proseguir la guerra» (XVI).
Andrea Perrucci, dopo tante definizioni dell'amore, ne escogita una che ha del nuovo, nel suo tempo: «È degli occhi invisibile veleno, - che circola nel sangue a poco a poco» (I).
Sparsi accenni a nuovi modi di vedere la natura e la vita umana e ad un nuovo eloquio poetico si possono cogliere in buon numero, come s'è visto, nei versi del Marino e dei marinisti. Ma quando da qualcuno di quei versi in vario grado nuovi e suggestivi, che si sono qui sopra citati, il lettore curioso si senta invogliato a leggere l'intero componimento da cui sono tratti, c'è da temere che egli vada incontro a una delusione: quelle immagini poetiche o, comunque, singolari, gli appariranno quasi sempre smarrite e sommerse tra viete e stanche o frigidamente ingegnose rielaborazioni di temi petrarchistici, o in un prosaico e prolisso descrizionismo. In tanta congerie di rime che per la maggior parte valgono soltanto come documento del gusto e della cultura di un'età, non è facile trovare qualche pagina che sia degna di essere accolta in un'antologia essenziale della nostra poesia.
È poi quasi inutile dire che ogni tentativo di rivalutare, nel suo insieme, il più cospicuo monumento della nostra poesia barocca, l’Adone, sarebbe destinato a fallire. Mancava al Marino l'attitudine a delineare persone e situazioni con verità psicologica ed evidenza poetica, se non entro limiti assai angusti:2 la sola pagina del poema che aderisca ad un'effettiva esperienza interiore (quando non ci si contenti di quelle brevi e sparse notazioni di cui si è dato qualche esempio) è l'ultima parte del canto ottavo, che dice l'orgasmo e il voluttuoso affanno della voglia d'amore. E al di fuori di quelle stanze del canto ottavo il poema non avrebbe altro valore che come documento del costume, della vita morale e del gusto letterario di un'età, in un determinato ceto sociale - la società cortigiana del primo Seicento; se non vi si potessero cogliere, come s'è visto, sparsi frammenti lirici.
Chi consideri la poesia barocca dal punto di vista storico-letterario, ricercandone gli antecedenti nella cultura e nella letteratura precedente, non potrà non rilevare l'avido e disperso eclettismo di quei rimatori. Troppo evidente è la loro dipendenza dalla poesia pastorale del '400-500, e specialmente dall'Aminta e dal Pastor fido, per quel che riguarda il voluttuoso e molle erotismo che invade tanta parte dell'opera del Marino e, in misura minore, dei marinisti. Ma per trovare argomenti e temi e moduli espressivi che siano o appaiano nuovi nella lirica d'arte, quei rimatori anche si volgono irrequietamente in altre e diverse direzioni; mettendo a contributo la poesia didascalica del '400-500 e a volte, con minor decisione e consapevolezza, la poesia realistico-giocosa; la tradizione dell'epigramma, e specialmente l'epigramma erotico dell'Antologia planudea3; la copiosa letteratura degli emblemi e delle imprese4 la prosa descrittiva e narrativa degli scrittori «irregolari» del '500.5 Ma forse i tratti più caratteristici della poesia barocca sono dati dalla sua indole accentuatamente epigrammatica e dal suo gusto di ridurre la frase poetica a motto breve e concettoso, del tipo di quelli che tenevano ufficio di «anima» ad illustrare il «corpo» delle imprese d'armi e d'amore. E l'antecedente più immediato e cospicuo di quella poesia è da vedere nelle rime del Tasso; le quali se ne possono anzi considerare per certi aspetti come l'inizio, la fase aurorale.6
Indole epigrammatica vennero sempre più assumendo, nell'ultimo '500, il sonetto e il madrigale. E non era, ben s'intende in tutto cosa nuova: ché sarebbe facile trovare esempi di sonetti e di madrigali dalla chiusa aculeata nelle rime del Petrarca e dei petrarchisti. Ma, comunque, è certo che i sonetti dei secentisti, molto spesso, e quasi sempre i madrigali, quando siano liberati dai lussureggiamenti e riempitivi che vi abbondano (dovuti nel sonetto anche all' esigenza metrica, di amplificare a quattordici versi quel che poteva esser detto in otto o dieci) mettono a nudo la loro struttura epigrammatica; ed epigrammi «continuati» sono spesso le canzoni, stanza per stanza, e le odi e i poemetti in ottave, strofa per strofa.7 Quel che era stato uno spontaneo orientamento del gusto già nel tardo '500, divenne consapevole proposito letterario nel '600; quando lo Stigliani, discorrendo del madrigale, scriveva: «Infallibilmente ha da essere rimata la chiusa ed oltracciò arguta di concetto e, come dicono i Latini, aculeata»;8 e Francesco Fulvio Frugoni, nel Cane di Diogene, notava: «Il sonetto ha da essere sostenuto, unito, conseguente, conchiusivo, arguto ... ch'abbia un giro solo ed un solo assunto; ma sopra tutto, a guisa dell'ape, che versa il mele nell'alveare, poi lo suggella col pungolo che nella cera vergine imprime»;9 e ne La bruna pastorella il Marino chiamava senz'altro «epigramma» un suo sonetto: Nera sì, ma sei bella, che non ha indole epigrammatica più accentuata di molti altri sonetti suoi e di altri rimatori del '600.
Copiosissima fu, tra il medio '500 e il '600, la letteratura degli emblemi e delle imprese-, e ogni lettore curioso di cose cinquecentesche conosce almeno l’Emblematum liber dell'Alciato (ia edizione: Augusta, Steyner, 1531) e il piacevole libretto volgare del Giovio: Dialogo dell'imprese militari e amorose (la ia edizione, postuma, è forse quella di Roma, «Appresso Antonio Barre, 1555»; ebbe poi parecchie ristampe). Che l'anima dell'impresa e a volte anche il titolo dell'emblema siano quasi un epigramma compendiato, lapidario, è abbastanza evidente; e perciò l'indole epigrammatica e l'indole emblematica della lirica barocca vengono poi ad essere in parte la stessa cosa.10 Ma, d'altro lato, gli emblemi e le imprese, col loro «corpo», cioè con le loro complesse e curiose figure, offrirono ai rimatori del tardo '500 e del '600 un copioso repertorio di «mostri» e di portenti, a saziare la loro brama di cose peregrine, bizzarre, inaudite. Già il Giovio, enumerando le «cinque condizioni» dell' impresa, «s'ella debbe avere del buono», poneva al terzo luogo: «che sopra tutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra entrandovi stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, instrumenti meccanici, animali bizzarri e uccelli fantastichi» (ediz. cit., p. 8). Non sembra qui di udire un'enumerazione sommaria di temi per la poesia barocca che verrà?
Dinanzi alle scoperte e alle invenzioni della scienza (nell'età di Galileo!) i rimatori barocchi manifestarono uno stupore ammirativo che è più spesso di maniera. Ma più schietto e artisticamente fecondo è il loro interesse per certi aspetti minori della tecnica antica e recente e per le arti manuali dove l'ingegnosità umana faccia buona prova. Le rime dei secentisti ci pongon innanzi agli occhi in gran numero oggetti e scene e figure che la lirica aulica del '500 per lo più ignorava: l'orologio a sole, ad acqua, a polvere, a ruote; la lente; la «palla a vento»; l'archibugio; i razzi; i giuochi d'acqua delle fontane; la galea; la donna che fila, che dipana, che ricama; la legatrice di libri, la danzatrice di corda; la zingara che predice la sorte. Vero è che quasi sempre cotesti indugi descrittivi sono pretesto ad argutezze erotiche o a riflessioni moralistiche: ma spesso la parte più vitale di quelle rime è l'indugio descrittivo. E d'altro lato, è evidente nella poesia barocca il gusto d'una varia e copiosa nomenclatura: nomi e virtù delle piante, delle erbe, dei fiori, degli animali, delle pietre preziose, termini geografici e tecnici; che ci richiamano più o meno indietro nel tempo, alla Naturalis historia di Plinio, ai lapidari e ai bestiari medievali, ai trattati di «filosofia naturale» e di medicina del '500; e infine (è quel che più ci interessa qui) alla poesia didascalica del Rinascimento. Della quale i rimatori barocchi misero a profitto non tanto i poemi dedicati ai lavori agresti, di derivazione essenzialmente virgiliana, quanto piuttosto quelli che avevano per tema arti manuali meno vulgate o giochi ingegnosi. Che se a quei rimatori poterono riuscire interessanti le enumerazioni degli uccelli, delle piante, degli alberi fruttiferi, dei fiori, che si incontrano, per esempio, nella Coltivazione di Luigi Alamanni (come del resto anche in pagine descrittive della poesia e del romanzo pastorale), o dei cani e degli uccelli rapaci usati per la caccia nel noto poema di Erasmo di Valvasone, più viva curiosità essi ebbero certamente per la minuta descrizione dell'allevamento dei bachi da seta e della filatura e tessitura dei drappi serici nell'elegante e ingegnoso poemetto del Vida (Bombycum libri duo), o per la rassegna delle norme e delle astuzie del gioco degli scacchi nello Scacchia ludus dello stesso; o anche per i precetti e le riflessioni sull'arte del costruire le navi e del navigare nella Nautica di Bernardino Baldi. Se poi cotesto elemento descrittivo della poesia barocca si riduca soltanto a una varietà dell'ingegnoso, come parve al Croce (Storia dell'età barocca, cit., p. 256), o non sia effettivamente il portato di un più realistico modo di vedere e considerare le cose, sarà questione da definirsi caso per caso, con l'esame analitico dei singoli componimenti, piuttosto che per sentenze di indole generale.
Indubbiamente valido ci sembra il richiamo alla poesia didascalica cinquecentesca, nei limiti che si sono qui sopra indicati. Con maggior cautela si potranno ricondurre certe movenze e certe inflessioni del Marino e dei marinisti alla tradizione della poesia realistico-giocosa del '400-500. Né con questo si vuol notare ovviamente che quei rimatori del '600 anche scrissero versi manifestamente giocosi (come, ad esempio, le ben note parodie dello Stigliani), o prose burlesche (come le troppo lodate lettere del Marino sulla sua prigionia, o sul suo viaggio da Torino a Parigi e sull'usanze e i costumi parigini): si vuole avvertire la venatura di scherzo che si insinua a volte nel loro fantasticare iperbolico e bizzarro o tra le notazioni realistiche di persone e di cose. Quando cotesta vena di scherzo affiora più visibilmente, allora sembrano innegabili i contatti con la poesia d'un Berni e d'un Lasca, dove riesce più arguta, dilettandosi di iperboli e di accostamenti fantastici tra cose lontane e diverse, senza dare nel buffonesco.11 Chi non avverte un sorriso, tra stizzito e furbesco, nel sonetto dove il Paoli si immagina maestro di alfabeto alla donna amata semplicetta e scaltra (in questo volume: vii); o dove il Sempronio ci presenta un amante di esigua statura racconsolato dalla dolcezza di aver potuto baciare, se non il bel volto della sua donna, «i dolci frutti almen del suo bel seno» (XIV); o dove Paolo Abriani fa parlare un innamorato che vorrebbe e non sa comporre un sonetto amoroso? Più manifesto è il tono scherzoso nel sapido idillio del Marino La ninfa avara, o nell'agile canzonetta del Morando sul «nano gobbo, bravo, innamorato» (XX); più coperto è invece nell'affettuoso epitaffio di un grillo, di Giovan Leone Sempronio (XVII); o in quello, epicamente intonato, di una pulce, dello Zazzaroni (XIII); nella prosopopea, ideata dal Canale, di un asino che, morto, ha dato rassegnatamente la sua pelle ad un tamburo fragoroso (II); nei sonetti del Gaudiosi sulle stravaganze della moda femminile (III-V); e del Dotti, sulla farfalla attratta dal lume degli occhi di donna bella (V). A volte il sorriso del rimatore non nasce dalla singolarità della situazione, della persona o dell'oggetto ch'egli viene delineando, ma dalla compiaciuta contemplazione della sua propria bravura nel gioco delle iperboli e delle argutezze. Cosi pare che avvenga, per esempio (già lo notò il Croce), nelle strofe dell'Adone dedicate all'elogio della rosa. Ed allora, piuttosto che alla poesia giocosa, si pensa a certi modi espressivi che si incontrano nelle prose di un Aretino o di un Doni.
Con elegante brevità il Panerazi, in un articolo su Anton Francesco Doni, scriveva: «Una volta di più è vero che il primo secentismo nasce in prosa, da certi irregolari del '500.»12 E non ci sembra in tutto esatto asserire col Croce che l'Aretino «quando nello scrivere par che baroccheggi, lo fa ora per celia, ora per aperta esagerazione adulatoria».13 Distinguendo più sottilmente, il Flora osserva: «nello spagnolismo oratorio dell'Aretino scorre frequente una vena gioviale di scherzo e d'ironia, o almeno quell'ambiguità che sorride dell'immagine esorbitante, o infine la palese malafede dell'iperbole e del paradosso».14 Cotesta ambiguità che sorride dell'immagine esorbitante o inconsueta non è ignota, come s'è visto, ai rimatori barocchi; e non è difficile coglierla sparsamente nelle lettere e nei dialoghi dell'Aretino;15 e, più di rado, nelle opere del Doni, specialmente nei Marmi.16 Ma nel Doni direi che si incontri a volte qualche cosa di diverso, non ignoto pur esso ai marinisti: un senso di stupore pensoso dinanzi alle stesse immagini iperboliche o strambe che lo scrittore viene ideando.17 E d'altro lato, la malafede dell'iperbole e del paradosso è carattere evidentissimo, troppe volte notato, della rimeria barocca, in ciò che ha di più ozioso e di più fatuo.
Nelle Rime del Tasso è da vedere «la più vasta ricapitolazione della lirica precedente, e insieme il punto di partenza della lirica successiva»; in lui si scorgono «i segni di un adulto petrarchismo e quelli di un germinale barocco»; a lui ebbero lo sguardo i rimatori del '600 e gli arcadi, fino agli albori del romanticismo.18 E anche per le Rime del Tasso - e per il Mondo creato. che ha stretta attinenza con esse - si può dire quel che s'è detto per la lirica barocca: molto raramente vi si incontrano pagine di compiuta poesia, ma vi abbondano frammenti lirici di singolare e nuova espressività:19 nei quali si colgono alcuni temi che poi i rimatori del '600 variamente elaborarono. V'è anzitutto l'incontro di donna e natura, che nei versi più felicemente nuovi si risolve in una sorta di magica identità;20 v'è un trepido senso delle albe, delle notti lunari, dei riflessi di luce sull'acque, delle mobili onde quasi palpitanti; v'è, più di rado, il gusto dell'orrido, della natura selvaggia e procellosa, del brutto di natura, che l'arte fa bello, sì che esso conquide l'inquieta fantasia non meno, o più, che ogni paesaggio serenamente idilliaco (e qui si avvertono lontani precorrimenti romantici); v'è un attento interesse per gli aspetti più singolari della natura, negli animali, nelle piante, nei fiori, nelle pietre, corredato di una copiosa nomenclatura; v'è un senso della vita dolente e faticosa, più cupo e inerte che nel Petrarca (e ne scaturisce la più autentica religiosità del Tasso, come di alcuni rimatori barocchi).
Ma la voce lirica del Tasso nelle Rime ha più spesso modulazioni di una grazia morbida e stanca; e la maggior parte (eccettuate, ben s'intende, le dolenti canzoni delle memorie di fanciullezza e della prigionia) preludono alla dolcezza leziosa degli arcadi, piuttosto che al turgore, non privo di succhi vitali, dei rimatori barocchi. E anche in Arcadia, piuttosto che fra i secentisti, trovano eco certi argomenti e temi delle liriche tassesche, suggeriti dalla galanteria cortigiana: come i madrigali in lode del cagnoletto Grechino, o in morte di Violina, cagnolina della duchessa di Ferrara. Coteste rime ed altre di tono poco diverso si direbbero nate in un'aura molle di serra (l'aura della Corte); mentre nella lirica barocca alita a volta un'aria più libera e aperta. Né, d'altra parte, si avvertono come tratti caratteristici nelle rime tassesche la tendenza epigrammatica e il gusto emblematico, che segnano in modo inconfondibile la fisionomia artistica del Marino e dei marinisti. Rimane dunque vero che per il Tasso rimatore si può parlare soltanto di un barocco germinale: quando non si voglia dare soverchio rilievo allo sfoggio di una retorica preziosa, che è del barocco soltanto il lato più appariscente ed è presente in gran parte già nel Petrarca «petrarchistico» e nei suoi imitatori del '400-500.
Che i rimatori barocchi si volgano, se pure con incertezze e contraddizioni, verso una concezione edonistica e nello stesso tempo intellettualistica della poesia, è cosa ben nota: i richiami all'estetica pedagogica nel '600 furono dettati da preoccupazioni moralistiche piuttosto che da uno spontaneo orientamento del gusto e da intima convinzione. E non meno è noto che quei rimatori mossero, nei loro tentativi d'arte, dalla poetica della metafora ingegnosamente elaborata e dell'argutezza. Quel che si pensò e si scrisse nel '600 intorno alla poesia, al suo fine e ai suoi mezzi, è stato negli anni più recenti ampiamente indagato (dal Croce, dal Calcaterra e da altri); e sono state sottoposte ad esame analitico le pagine più caratteristiche dei trattatisti della metafora e dell'argutezza: specialmente il Graciàn, Matteo Pellegrini e il Tesauro.21
Ma agli effetti della valutazione storico-estetica della nostra poesia barocca gioverà forse maggiormente rilevare la poetica «implicita», che si trae dall'esame delle stesse opere del Marino e dei marinisti: dove si palesano gli orientamenti caratteristici del loro gusto nel cercare materia e modi espressivi al proprio poetare. Quei rimatori non si richiamano con fermezza e coerenza a nessuna tradizione; ma, pur mirando ansiosamente al nuovo, cercano nella letteratura antica e recente, in più luoghi, materiale per le loro costruzioni; e poi che li hanno trovati, li coacervano e li agglomerano. Vistosamente signoreggia in essi l'amore del peregrino, del mirabile, dell'inaudito: onde l'interesse per la letteratura degli emblemi e delle imprese; ma di contro si profila il gusto per le notazioni realistiche di persone e di cose; e qui viene in soccorso la poesia giocosa. Essi piegano volentieri verso un ozioso e morbido fantasticare (e qui i rimatori, mentre si arrendono al molle erotismo che circola come dolce veleno sotto la decorosa apparenza del moralismo controriformistico, anche rivivono il sognar voluttuoso dell’Aminta e del Pastor fido); e, d'altro lato, si compiacciono di un'attenta nomenclatura di oggetti vari, di animali, di piante: e qui si avverte un richiamo alla poesia didascalica. Essi prediligono il rilievo e la vibratezza aculeata dell'epigramma, di cui vanno cercando modelli in una lunga e illustre tradizione; e per contro amano infondere nei loro versi una cantante musicalità: nel che ancora si richiamano specialmente al Tasso delle Rime e dell'Aminta. Frammentaria e incoerente è la loro poetica implicita; sebbene essa ci appaia caratterizzata in una certa misura dal tentativo di superare o almeno di eludere l'astratta delimitazione dei «generi», introducendo nella lirica d'arte argomenti e temi e modi espressivi che tradizionalmente non vi erano ammessi; e dal proposito di dare novità di tono e di stile, sul modello dell'epigramma, alle antiche forme poetiche del sonetto e del madrigale.
Nessuno di quei rimatori seppe superare risolutamente il suo disperso eclettismo; né col pensiero, segnando a se stesso un programma artistico ben definito, né con la fantasia, unificando le disperse impressioni ed emozioni in una decisa e risentita visione del mondo. Sopra tutto, rimase insoluto il problema del comporre ad unitaria coerenza il realismo descrizionistico col gusto di nuove ed inaudite analogie fantastiche: illuminare di una luce di magia, in un fervido animismo universale, le crude notazioni degli aspetti consueti, anche i più umili e rozzi, della vita quotidiana (il problema che risolse, con la virtù del suo genio, il loro grande contemporaneo Michelangelo da Caravaggio). E daremo intera la misura del loro fallimento artistico se aggiungeremo che essi non seppero trovare adeguata espressione al loro amore del pittoresco e dell'orrido, oltre che del grandioso; e alla drammatica emotività d'amore, che pure si avverte sparsamente nelle loro rime (specialmente in Ciro di Pers, nel Preti, nel Paoli, nel Giovanetti) e poteva trarli decisamente fuori dell'esperienza petrarchesca e petrarchistica, verso una nuova sensibilità che, pur accogliendo echi del passato lontano e recente, apparirebbe a noi oggi come un cospicuo preannuncio del sentire romantico.
La rivoluzione tentata dai nostri rimatori barocchi fallì, per difetto di genialità creativa, senza dubbio; ma anche per difetto di impegno. E non si vuole qui ripetere la vecchia accusa che quei rimatori non seppero o non vollero mettere la loro poesia al servizio di un'idealità etica, religiosa o civile (che non è cosa che si possa richiedere agli artisti in quanto tali): si vuol rilevare che il Marino e i marinisti non credettero abbastanza, essi stessi, alle loro possibilità e al loro compito di scrittori innovatori. Vero è che cotesta fede si genera soltanto o, comunque, è solo feconda quando nasce da un'intima capacità creativa. Così il difetto di impegno denuncia quasi sempre un difetto di ingegno; e, per converso, l'intensità e la continuità dell'impegno si generano quasi sempre da un'intima vitalità dell'ingegno.
Se poi cotesto difetto di impegno sia da ricondurre in qualche modo a quell'estenuamento dell'entusiasmo morale che fu il morbo più caratteristico dell'Italia secentesca, è cosa difficile a dire: perché, com'è ovvio, non tutta la «virtù» italiana fu nell'età barocca rósa da quel morbo, e perché non si può segnare un limite ai prodigi che un temperamento di intensa vitalità sa operare anche in un clima avverso. Qualunque ne sia il motivo, nessun temperamento di tal sorta fece la sua apparizione nell'Italia letterata del '600; e, non che un grande poeta, l'età barocca italiana non ebbe neppure un autentico spirito poetico che sapesse ideare e comporre alcune cose compiutamente belle: come fu, per esempio, nella Spagna di quell'età, il Góngora.
Ma la rivoluzione fallita non passò del tutto invano: lasciò fermenti vitali nei secoli che seguirono. Quei rimatori del '600 toccarono, sia pure soltanto saltuariamente e con scarsa consapevolezza, temi e motivi che poi saranno, con ben altro impegno d'affetto e di fantasia, approfonditi ed elaborati dagli autentici poeti nostri dell'età preromantica e romantica: dall'Alfieri al Foscolo al Leopardi, e, più giù, fino al D'Annunzio. E per certi ardimenti analogici quei secentisti sembrano precorrere di lontano la lirica ultima, simbolistica e decadente.
Avvertenza
Nella scelta delle rime del Marino, come di quelle dei marinisti, ho dato risolutamente la preferenza ai componimenti che fanno testimonianza del gusto barocco e sono da segnalare, se non per valore d'arte, per singolarità di argomenti, di temi e di immagini. Ho escluso, di regola, le rime che non escono in alcun modo dall'esperienza stilistica cinquecentesca rielaborando stancamente vieti motivi petrarchistici; ho lasciato da parte quasi interamente la rimeria encomiastica.
Oltre ad un'ampia scelta dell'Adone, il lettore troverà in questo volume circa 250 componimenti che non si leggono nelle due antologie del Croce.
Quanto all'Adone, per utilità di chi volesse farne, a scopo di studio, più ampia lettura, ho dato un sommario dell'intero poema: che gioverà anche a render chiaro come il poeta venne dilatando «con digressioni e lussureggiamenti» l'esile trama originaria.
Non ho creduto utile riprodurre, neppure parzialmente, le allegorie dei singoli canti, che dal Marino furono attribuite a don Lorenzo Scoto (ma vedi, in proposito, le osservazioni di G. Balsamo-Crivelli nell'introduzione all'edizione dell'Adone da lui curata, pp. xvi-xvn): infelicemente dettate da un ipocrito moralismo che non dovette ingannare nessuno, neppure nel '600.
L'Adone e le poesie varie del Marino sono state riprodotte dalle stampe del '600, attenendosi, nei limiti del possibile, al criterio di dare il testo definitivo vigilato o approvato dall'autore (cfr. la Nota bibliografica a pp. 6 sgg.).
Alla scelta delle opere poetiche del Marino premetto alcune pagine dell'Epistolario, di contenuto autobiografico, o che ci offrono interessanti testimonianze sul concetto che l'autore dell'Adone ebbe della propria poesia e del proprio lavoro letterario. Quanto alle pagine autobiografiche, ho creduto opportuno accogliere soltanto quelle che sono da segnalare per una certa spontaneità narrativa (come la lettera sull'attentato del Murtola), o per singolarità di immagini barocche. Occorre dire che certe lettere burlesche, come quella sulle usanze e sul parlare dei parigini e in gran parte quelle che descrivono la vita del poeta in prigione, a Torino, appartengono a un genere ch'era ormai vieto già nell'ultimo '500 (le lettere facete e le rime burlesche sono, in quel secolo, una vera e propria alluvione letteraria); e ci sembrano assai inferiori non solo al loro modello primo, le lettere dell'Aretino, ma anche, per esempio, alle lettere gustosamente doviziose di immagini strambe e di vocaboli della viva parlata fiorentina che scrisse Anton Francesco Doni. Queste osservazioni valgano a giustificare l'esiguità della scelta. Quanto alle prose epistolari in cui il Marino discorre della sua poesia e del suo lavoro letterario, si possono vedere, a confronto, le due lettere dell'Achillini al Marino e al Preti accolte in questo volume (pp. 706-708).
Le rime dei marinisti sono state riprodotte per la maggior parte dalle stampe del '600. Solo per i rimatori di minor rilievo si è accettato il testo dell'antologia del Croce Lirici marinisti.
Nell'esemplare le rime sulle edizioni del '600 ho conservati intatti, come documento del gusto barocco, i titoli e gli «argomenti» dei singoli componimenti. Per le rime che ho riprodotte dall'antologia del Croce ho adottato i titoli foggiati dal Croce stesso (e per distinguerli dagli altri, li ho posti fra parentesi quadre). Diversamente dal Croce, ho lasciato le rime nell'ordine in cui sono nelle edizioni del '600.
Nel riprodurre i testi dalle stampe del '600 ho introdotto alcuni ammodernamenti di grafia, che non recano con sé mutamenti fonetici. Ho ritoccato in molti luoghi l'interpunzione, per rendere più agevole la lettura.
1 Più esile e meno probativa è la serie di citazioni che il Flora, nelle pagine precedenti, trae dall'Adone e dalle poesie varie del Marino. Per i marinisti, il Flora si è valso quasi esclusivamente dell'antologia del Croce. Le nostre citazioni, che qui seguono, sono tratte in parte da testi che il Croce e il Flora non utilizzano.
2 Se fosse lecito al critico, dopo aver accertato quel che il poeta ha fatto, congetturare quel che avrebbe potuto fare, diremmo che il Marino sarebbe riuscito a fare opera, nell'insieme, viva se avesse saputo contemplare con distacco la bassezza e la nullità morale di quei suoi personaggi; che egli invece pare non avverta, intento tutto alla descrizione dei loro atti esteriori, pomposi o leziosi o banali. Descritti senza intuito poetico e senza distacco morale, quel suo Adone, giovinetto viziato e melenso, quella sua Venere, ora donna di alto rango cinica e fatua, ora sfrontata cortigiana, e tutti gli altri personaggi, stolidamente goffi o platealmente canaglieschi, riescono inaccettabili moralmente ed esteticamente.
3 Cfr. il libro di J. Hutton, The Greek Anthology ecc., citato nella Nota bibliografica, e la recensione del Calcaterra ivi pure citata.
4 Vedi le dotte e acute ricerche di Mario Praz citate nella Nota bibliografica, e specialmente gli Studi sul concettismo.
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6 Cfr. lo studio di Giovanni Getto, Interpretazione del Tasso, citato nella Nota bibliografica, e specialmente le pp. 284-297, dedicate alle Rime, e le pp. 367-377, che trattano del Mondo creato.
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8 Arte del verso italiano, Bologna, Longhi, s. d., p. 205.
9 Cfr. la citata recensione del Calcaterra al libro dello Hutton, p. 239.
10 Com'è noto, il Tesauro identificava senz'altro le imprese con le argutezze: il cap. xv del Cannocchiale Aristotelico (Venezia, 1688, ed altre edizioni) tratta «delle argutezze eroiche chiamate Imprese». E d'altra parte, nell'opera dell'Alciato ogni emblema reca, oltre al titolo (che si riduce per lo più a una o due parole e solo di rado assume la forma di un motto), un epigramma illustrativo (cfr. l'edizione aldina del 1546). Gli Emblemata dell'Alciato furono più volte ristampati, con aggiunte e commentari. L'edizione più copiosa, in un volume di mille pagine, è di Padova, 1621 (in piena età barocca), a cura del filosofo e medico tirolese Joannes Thuilius.
11 Del Lasca si leggano, per esempio, l'elogio del grillo e l'invocazione al rovaio perché ponga fine alla pioggia, citati dal Croce in Poesia popolare e poesia d'arte, cit., pp. 271-272. E quanto al Berni, si vedano sopra tutto alcune note e citazioni del Flora nella sua Storia della letteratura italiana.
12 Nel giardino di Candido,
13 Poesia popolare e poesia d'arte, cit., p. 253.
14 Storia della letteratura italiana, a conclusione delle pagine dedicate all'Aretino.
15 Qualche esempio caratteristico, dove l'ambiguità sorridente è sul limite della celia (dall'una all'altra il passo è assai breve!): nella lettera, assai nota, a Sebastiano del Piombo dove l'Aretino parla dell'ansioso amore paterno: «Non cade fronda né si aggira pelo per l'aria, che non ci paia piombo che gli caschi sopra il capo uccidendogli ...» (cfr. Aretino e Doni, Scritti scelti, a cura di G. G. Ferrerò, Torino, Utet, 1951, p. 99). E in altri luoghi delle lettere: «Certo che il verno mi pare uno abbate che galleggia a sommo nel commodo degli agi, a cui fa prò' il mangiare, il dormire e il far quella cosa troppo saporitamente» (ivi, p. 105). «Dico che il coro di cotanti eccelsi ingegni stava attento a l'Istoria veneziana, le cui parole uscivano da la lingua de l'uom sommo con quella gravità che scende la neve dal cielo ... Fino al respirar dei petti ivi si teneva a guinzaglio ... Fino agli odori de le viole spiravano con rispetto ...» (ivi, pp. 150-151: in questo luogo, dove l'Aretino elogia il Bembo, si coglie facilmente il trapasso dall'ambiguità sorridente delle frasi qui citate alla celia aperta di quelle che le accompagnano).
16 Una lotta di giganti, degna dello Swift: «Crescono e combattono: chi piglia la luna per iscudo, chi il sole; altri si scagliano Etena e Mongibello nel capo l'un l'altro; chi sorbisce il mare in una boccata e lo sputa nel viso al suo nimico ...» (voi. cit., p. 520). Parla il Tempo: «Onde, per far questa cosa [per ideare l'orologio a ruote], bisognò che io rivelassi un gran secreto de' cieli ...: e questo fu il metter girelle in opera; ché mai giri, tondi e girelle erano state vedute qua giù fra voi, se non il tondo del sole, il tondo della luna e l'arco baleno» (ivi, p. 588). «Se talvolta io vo' bene a uno e che io non possi, per aver allora che fare, servirlo in qualche sua faccenda, io gli mando la Pazienza, e fo andar la mia donna, l'Occasione, e poi, subito che io arrivo, lo servo mirabilmente» (ivi, p- 593)
17 «La insaziabilità, che dà bere all'uomo continuamente vino di desiderio, per mano della rapina, con la tazza della roba, fa che ciascuno arde di sete d'impadronirsi d'ogni mìnimo uomo e cosa vile e disprezzata, ancora che sia signore di tutto il restante» (voi. cit., pp. 548-549). «E se tal volta sfrenatamente corrono con il giannetto del lor desiderio o con il cavallo dell'apetito insaziabile, caggiono, e non è chi gli ritenga, nella fossa dell'infamia eterna e danno inremediabile» (ivi, p. 550).
18 Cfr. G. Getto, Interpretazione del Tasso, cit., pp. 257, 259. Delle Rime del Tasso, oltre alla vecchia edizione del Solerti, si hanno due antologie dovute al Flora: Milano, Rizzoli, 1934; Milano-Napoli, Ricciardi, 1952. Del Mondo creato vedi la recente edizione critica a cura di G. Petrocchi, Firenze, Le Monnier, 1951.
19 Cfr. G. Getto, op. cit., p. 288.
20 4. Su questo tema poetico, vedi le osservazioni del Flora, nella sua Storia della letteratura italiana. voi. II, parte 11, ediz. 1945, p. 561; e del Getto, op. cit., pp. 291-297.
21 È da ricordare anzitutto lo studio del Croce: I trattatisti italiani del concettismo e Baltasar Graciàn, nuovo, nel tempo in cui fu scritto (1899): che si può vedere ora nella quarta edizione dei Problemi di estetica, Bari, Laterza, 1949. Assai più recenti le pagine del Flora sul «Cannocchiale aristotelico» (nella sua Storia della letteratura italiana) e il capitolo: «Teorie secentesche del concettismo» nel libro di Giulio Marzot, L'ingegno e il genio del Seicento, Firenze, «La nuova Italia», 1944. Della metafora discorsero nel '600 anche alcuni marinisti: lo Stigliani e l'Achillini, nelle loro lettere, e Pietro Casaburi nella lettera dedicatoria delle Saette di Cupido, Napoli, 1685.