FALIER, Marino
Nacque verso il 1285 da Iacopo figlio di Marco, dei Falier della contrada dei Ss.Apostoli, e da Beriola figlia di Giovanni Loredan. Poche sono le notizie certe sugli anni giovanili, a causa soprattutto dell'esistenza di uno zio omonimo che non sempre è da lui distinto nei documenti superstiti. Lo incontriamo per la prima volta nella vita pubblica come uno dei tre capi del Consiglio dei dieci il 10 ott. 1315, quando i Dieci deliberarono di premiare Rossetto di Camponogara per aver ucciso Nicolò Querini, che aveva partecipato alla congiura di Baiamonte Tiepolo nel 1310. Il F. fu nel Consiglio dei dieci fra il 1315 e il 1320 e fu più volte eletto fra i capi e fra gli inquisitori.
Come membro dei Dieci ebbe nel 1320, insieme con Andrea Michiel, anch'egli dei Dieci, l'incarico di procurare la morte di Baiamonte Tiepolo e Pietro Querini, i due capi della congiura ancora in libertà e ritenuti pericolosi per la Repubblica. Il Consiglio li nominò con due delibere, del 2 gennaio e del 6 febbraio, ne fissò i limiti di spesa e consentì loro di ricompensare in modo adeguato chi avesse ucciso o causato la morte dei due esuli.
Nel 1321 e nel 1323 il F. esercitò attività commerciali a Venezia. Nel corso di quest'ultimo anno ebbe di nuovo un incarico politico con la nomina a capitano e bailo di Negroponte in sostituzione di Gabriele Dandolo. Nel 1326, di nuovo a Venezia, fu consigliere dei Dieci esercitando, a partire da gennaio e fino a novembre, sia le funzioni di capo sia quelle di inquisitore. Nel 1327 era ancora fra i Dieci, di cui fu tra i capi in gennaio e in maggio. Nel corso dello stesso mese andò ambasciatore a Bologna insieme con Marco Michiel presso il priore generale dell'Ordine dei servi a motivo del contrasto fra alcuni frati serviti e la Repubblica. In giugno e luglio 1327 fu di nuovo inquisitore e capo dei Dieci. Uscì quindi dai Dieci per essere eletto fra i Cinque anziani alla pace, una magistratura di polizia cittadina. Nei due anni seguenti non abbiamo notizie su di lui, ma certamente era ancora a Venezia nel 1329 dove la sua presenza è attestata fra marzo e settembre. Entrò di nuovo nel Consiglio dei dieci a partire dall'agosto dello stesso anno, e fu ancora consigliere dei Dieci nei primi mesi del 1330. Era a Venezia nel maggio e nel luglio del 1331, come risulta da atti privati. Nel 1333 fu capitano delle galere del Mar Maggiore e di Costantinopoli. Con una delibera adottata il 23 marzo di quell'anno il Senato mise sotto la sua protezione i mercanti che andavano alla Tana. Il 1° luglio era ancora capitano, ma tornò a Venezia nel corso dello stesso anno. Qui, il 31 ottobre, fu incaricato di esaminare le lettere del capitano della lega contro i Turchi e di Negroponte e di dare il suo parere su queste e sui fatti di Romania. Qualche giorno dopo, il 16 novembre, fu inserito in una commissione di cinque savi incaricata di esaminare alcune questioni relative alla navigazione in Oriente, con la facoltà di fare proposte di voto eccetto che per la navigazione nei luoghi proibiti. Questa commissione proseguì i lavori almeno fino al 19 dicembre, quando pose una "parte" in conformità alle istruzioni ricevute.
Nel 1334 il F. venne eletto podestà di Farra (Lesina) e Brazza in Dalmazia: occupò l'ufficio per poco più di un anno, a partire dal mese di marzo. Il 9 apr. 1335 ottenne di lasciare l'incarico per potersi occupare a Venezia di alcune faccende "che richiedevano la sua presenza". L'autorizzazione gli fu però concessa con la riserva di potersene andare soltanto dopo l'arrivo del successore. L'avvicendamento deve comunque aver avuto luogo di lì a poco, perché il 3 luglio il F. era a Venezia, ove fu nominato savio per l'esame di alcune lettere del gran maestro degli ospedalieri. Nel corso dell'anno ebbe altri incarichi pubblici in patria e il 14 maggio 1336 fu inviato con due nobili e alcuni esperti nei territori già appartenuti ai Caminesi per un'indagine su quanto necessario alla sicurezza: si era infatti in prossimità della guerra contro gli Scaligeri. Il F. partecipò alla prima fase della guerra come uno dei quattro governatori dell'esercito, due veneziani e due fiorentini, che avevano il compito di assistere il comandante generale Pietro de' Rossi. Il 21 ottobre il F. partecipava alle operazioni militari ma qualche tempo più tardi lasciò l'esercito per tornare a Venezia, dove è attestato in data 22 marzo 1337 come testimone di un atto redatto in palazzo ducale. Fu quindi eletto podestà di Chioggia a partire dal 1° maggio ma abbandonò l'ufficio alla fine del febbraio 1338 per assumere la podesteria di Padova, dove prese servizio il 1° marzo restando fino al giorno prima a Chioggia. Ottenne il permesso, però, di recarsi a Venezia per rifornirsi del necessario lasciando un vicario. Il F. fu podestà a Padova fino alla fine di agosto e venne poi riconfermato fino a tutto il febbraio 1339.
Il 26 genn. 1339 ebbe dal Maggior Consiglio la nomina a podestà di Treviso, da poco acquisita dalla Repubblica, ed entrò in carica l'11 di febbraio. Il 14 fece proclamare la pace intervenuta fra gli alleati e gli Scaligeri e, ancora in rapporto alle vicende belliche, ricevette il 17 e il 24 dello stesso mese due lettere dal doge Francesco Dandolo per la cancellazione del bando contro alcuni partigiani di Venezia ai quali dovevano essere restituiti i beni confiscati dagli Scaligeri. Il suo reggimento a Treviso terminò nel dicembre 1339 allorché fu sostituito con Pietro da Canal. Durante questo periodo vennero compilati gli statuti cittadini, inviati al podestà con lettera ducale del 15 luglio.
Nel 1340 il F. fu savio in diverse occasioni e il 29 febbraio ebbe inoltre l'incarico di recarsi in Schiavonia insieme con Marco Giustinian e Giovanni Gradenigo per preparare l'eventuale resistenza alle mire espansionistiche del re di Ungheria. Era a Venezia in giugno, ma in ottobre è segnalata di nuovo una sua assenza dalla città, verosimilmente di qualche giorno soltanto. Nel 1341 fu podestà a Serravalle e restò in carica fino al gennaio dell'anno seguente. Il 20 genn. 1342 fu infatti autorizzato a rientrare in patria quando fosse arrivato il suo successore e il 26 dello stesso mese si trovava a Venezia. Fu quindi di nuovo podestà a Chioggia per un anno dall'aprile 1342. Si allontanò tuttavia per due volte dall'ufficio per recarsi a Venezia, essendo stato autorizzato a soggiornarvi per quindici giorni in settembre e per otto giorni in marzo. In questa seconda occasione fu espressamente chiamato per necessità del Comune e, a quanto pare, il soggiorno si prolungò fino ai primi giorni di aprile. Il 20 maggio 1343, rientrato a Venezia, venne nominato fra i tre savi destinati a esaminare le richieste di giustizia fatte contro i da Camino. In ottobre fece da mallevadore per i conti Rizzardo e Gherardo da Camino per i patti che questi dovevano firmare con il vescovo di Ceneda. In forza di tale accordo ricevette in consegna dai da Camino il castello di Fregona e altri possedimenti minori. Fece quindi da testimone a Ceneda alla stipulazione del patto il 19 ott. 1343.
Nel 1344 andò in ambasceria ad Avignone insieme con Andrea Corner per ottenere dal papa il permesso di commerciare con Alessandria d'Egitto e in altri luoghi proibiti con mercanzie che non fossero soggette a particolari divieti; la richiesta veniva avanzata a seguito del bando degli Italiani dalla Tana ordinato poco tempo prima da Canibek, khan dei Tartari, che aveva danneggiato notevolmente il commercio veneziano. Le istruzioni per i due ambasciatori vennero lette in Senato il 5 gennaio; qualche giorno più tardi, essi ebbero anche l'incarico di raccomandare al papa i diritti del monastero di S. Maria delle Vergini e gli interessi di alcuni mercanti veneziani derubati dal vescovo di Lecce. In marzo gli ambasciatori erano ad Avignone e vi si trattennero almeno fino a tutto il mese seguente. La loro missione fu coronata da successo: con una bolla del 27 apr. 1344, infatti, Clemente VI concesse a Venezia di inviare per un quinquennio quattro navi e sei galere ad Alessandria e in altre terre soggette al sultano d'Egitto per importare ed esportare mercanzie che non fossero però armi, ferro, legnami, schiavi e quanto proibito dal diritto comune. Mentre si trovava ad Avignone, il F. fu nuovamente eletto podestà di Chioggia e il suo posto venne provvisoriamente occupato dal fratello Ordelaffo. Al ritorno a Venezia, gli ambasciatori presentarono una relazione sulla missione, che doveva essere esaminata il 3 agosto. L'esame fu però rinviato per l'assenza del notaio Benintendi de' Ravagnani, che con loro era stato ad Avignone, e si stabilì di posticiparlo a un massimo di quindici giorni dopo il ritorno di questo. Non sappiamo quando il F. abbia preso servizio a Chioggia, ma soltanto che vi restò in carica fino al 1° maggio 1345. Il 20 settembre dello stesso anno, di nuovo a Venezia, ebbe con Paolo Belegno e Marco Foscarini il compito di esaminare una questione relativa ai gioielli del conte di Fiandra, ma il 26 dello stesso mese fu sostituito nell'incarico da Filippo Zane.
Al tempo della ribellione di Zara il F. venne chiamato ancora una volta a dare il proprio contributo come savio, incarico nel quale fu però sostituito il 29 sett. 1345 da Marco Corner. Qualche tempo più tardi fu eletto capitano del Mare, come ricorda un atto del 20 novembre dello stesso anno. Non assunse però l'ufficio dato che il 30 novembre fu designato capitano di Terra contro Zara per un periodo di sei mesi, dopo che i consiglieri del doge ebbero stabilito che l'elezione poteva essere fatta sebbene il F. avesse già accettato la precedente carica. Contro la loro decisione ricorsero gli avogadori di Comun, ma il Consiglio dei quaranta il 2 dicembre confermò la deliberazione. Subito dopo fu eletto un nuovo capitano di Mare, con gli stessi compiti del F., e la scelta cadde su Pietro Civran. Non sembra tuttavia che il F. si sia recato effettivamente a Zara come comandante dell'esercito, dato che la sua presenza è ancora attestata a Venezia nei mesi seguenti.
Il 14 genn. 1346 fu nuovamente designato capitano di Mare, al posto del Civran, e andò a Zara con una flotta armata per l'occasione giungendo in prossimità della città ribelle il penultimo giorno di febbraio. Il 12 aprile fu però messa in mare una nuova flotta di undici navi e il comando della spedizione venne affidato al Civran, per cui si ordinò al F. di passare ai suoi ordini insieme con Nicolò Barbarigo capitano del Golfo. Qualche giorno più tardi (il 27 aprile) il Senato comunicò le nuove disposizioni al F. invitandolo a ubbidire insieme col capitano del Golfo al nuovo comandante e a non allontanarsi dall'armata senza mandato. E ancora, il 21 maggio, per rendere più efficiente il comando veneziano - nel quale dovevano essersi manifestati contrasti - vennero nominati cinque provveditori destinati a formare con i tre capitani di Mare e con il capitano di Terra Pietro da Canal e i suoi due governatori un collegio di undici nobili con ampia autorità per la conduzione delle operazioni militari contro Zara. Nel frattempo il re di Ungheria Luigi il Grande, che mirava alla conquista della Dalmazia, venne in aiuto degli assediati e il 1° luglio 1346 attaccò le fortificazioni terrestri messe in opera dai Veneziani subendo però una sconfitta a seguito della quale si ritirò dalla costa dalmata. A motivo dell'alleggerimento della pressione militare, vennero ritirati anche alcuni contingenti militari veneziani tra cui l'armata del F., che negli ultimi giorni di luglio era di nuovo in patria.
Il 4 ag. 1346 il F. andò per la seconda volta a Treviso come podestà e capitano e mantenne la carica per un anno esatto. La sua presenza a Treviso durante tutto l'anno è ricordata da numerosi documenti relativi ai compiti connessi all'ufficio. Di nuovo in patria, il 10 nov. 1347 fu eletto savio per dar consiglio su alcune lettere provenienti dall'Ungheria e per un'ambasceria da inviare in quel Regno. In proposito poneva "parte" il 15 e il 18 dello stesso mese. Nel 1348 andò come podestà a Serravalle dove si distinse nell'apprestamento delle opere difensive tanto da ottenere le lodi del Consiglio dei pregadi. Quando a Venezia si sviluppò la peste, chiese di poter tornare in città per quindici giorni lasciando un parente come sostituto ma il permesso gli fu negato dal Senato, sia pure con un esiguo margine di voti. Scoppiò nel frattempo la ribellione di Capodistria e il 24 sett. 1348 il F. fu eletto capitano generale di Terra per condurre le operazioni contro la città. Dato che era ancora podestà a Serravalle, venne inviato un nobile per sostituirlo nell'ufficio e, non appena questi lo raggiunse, tornò a Venezia. Non ebbe il tempo per assumere il nuovo incarico dato che la ribellione era già stata domata. Andò a Capodistria soltanto come savio, in ottobre, con il compito di provvedere alle fortificazioni e alla conservazione della città con la minore spesa possibile, cercando nel contempo di far aumentare le rendite di quel Comune. Un atto privato lo ricorda quindi a Venezia il 18 dicembre dello stesso anno. Il giorno seguente venne scelto insieme con due procuratori di S. Marco per fare da paciere in una controversia insorta in merito all'eredità di un patrizio veneziano.
Nel febbraio 1349 fece parte dei Cinque savi agli ordini che esaminarono le questioni relative all'invio di un ambasciatore a causa delle offese subite dai Genovesi, con i quali si stava profilando all'orizzonte la guerra che si trascinò per cinque anni. In qualità di savio il F. pose "parte" in diverse occasioni fra febbraio e aprile. Il 18 aprile insieme con Giustiniano Giustinian andò in legazione presso il cardinale e legato apostolico Guido di Montfort, venuto in Italia per mettervi pace in occasione del giubileo. I due ebbero l'incarico di ottenere, ricorrendo alle argomentazioni che fossero sembrate loro opportune, che la Repubblica non fosse ulteriormente molestata a motivo della contesa con il patriarca F. Morosini per le "decime dei morti", Se fossero riusciti nell'intento dovevano rientrare a Venezia; in caso contrario dovevano inviare comunicazione scritta e attendere ordini. Poco più tardi il F. venne nominato podestà di Chioggia, dove era in carica il 18 maggio, allorché fu autorizzato ad assentarsi per un mese lasciandovi il vicario e i famigli. Non è specificato il motivo del temporaneo congedo, se non in termini generali in rapporto al disbrigo di alcune faccende che richiedevano la sua presenza. Poco più tardi venne investito del feudo di Valmareno.
Rizzardo da Camino chiese infatti un prestito alla Repubblica offrendo in cambio di consegnare a un cittadino veneziano il castello di Valmareno. Il Senato rispose affermativamente e in data 26 maggio 1349 il F. ottenne il castello con le relative pertinenze alle stesse condizioni con le quali in precedenza gli era stato affidato quello di Fregona.
I Pregadi, inoltre, deliberarono in data 6 luglio 1349 che "pro securitate sua" il F. potesse essere investito di quel castello dal vescovo di Ceneda, fatte salve le convenzioni già stipulate dai Caminesi in favore di Venezia nel 1343. La cerimonia di investitura ebbe luogo il 13 luglio 1349 nella cattedrale di Ceneda. I termini della concessione, fissati da un documento redatto lo stesso giorno, precisavano che il castello doveva essere restituito al Comune di Venezia se i da Camino fossero morti senza eredi maschi e ugualmente doveva tornare al Comune per una eventuale mancanza del F. che, però, morendo senza eredi maschi, poteva nominare suoi eredi uno o più nobili veneziani.
Il F. lasciò la podesteria di Chioggia nel 1350. A Venezia, il 15 maggio di quell'anno, divenne savio per i fatti di Schiavonia; due giorni dopo, insieme con altri tre nobili, fu inviato in ambasceria presso il legato pontificio che rientrava ad Avignone per raccomandargli il Comune di Venezia e per accompagnarlo da fuori Padova a un luogo da essi ritenuto conveniente. Si avvicinava nel frattempo la guerra con Genova e il F., in giugno, fu eletto fra i Cinque savi deputati ad esaminare le questioni pendenti con la Repubblica rivale. Il 13 luglio ottenne la nomina ad ambasciatore presso il duca d'Austria, dal quale doveva recarsi insieme con altri due nobili, ma il suo posto venne preso quattro giorni più tardi da Simone Dandolo. Al F. era infatti stato affidato nel frattempo l'incarico di recarsi in ambasceria a Genova, nella speranza di poter comporre il dissidio in atto. All'ambasceria era annessa molta importanza dalle autorità veneziane, come è chiaramente affermato nel relativo atto di nomina in cui si precisa che le sorti della Repubblica erano per buona parte nelle mani dell'inviato: "facta nostra multum consistunt in persona ambaxatoris". Si fissò il suo salario e gli si consentì di portare dieci persone al seguito. L'ambasciatore ebbe un ampio mandato per la realizzazione di un accordo con Genova e l'autorizzazione a proporre, se necessario, di rimettere la questione al papa con, nel frattempo, l'obbligo per le parti di astenersi da ogni novità.
Il 31 luglio, in palazzo ducale, il doge Andrea Dandolo nominò "sindaco e procuratore del comune di Venezia" il F., che partì subito dopo alla volta di Genova. Ma il 2 agosto venne raggiunto da un messaggio inviatogli da Venezia con l'ordine di fermarsi e attendere ulteriori disposizioni, senza però esternare il reale motivo dell'interruzione del viaggio. La relativa deliberazione, presa dai Rogati, precisava inoltre che, se il giorno seguente non si fosse deciso di inviargli nuove istruzioni, avrebbe dovuto riprendere il viaggio. Il giorno dopo il F. venne richiamato a Venezia e il notaio Amadeo, che faceva parte del suo seguito, ricevette l'ordine di sostituirlo nella missione con il compito di esporre il primo capitolo dell'ambasceria, di lamentare i danni subiti dai Veneziani in spregio ai trattati di pace, di chiedere la restituzione delle persone e dei beni sottratti e, infine, la soddisfazione delle ingiurie subite.
L'Amadeo doveva quindi rientrare in patria invitando i Genovesi a mandare loro ambasciatori a Venezia in caso volessero arrivare a un accomodamento, non essendo egli stato autorizzato a trattare personalmente. La revoca del mandato al F. fu decisa "pro honore" di Venezia in quanto, si legge nel documento relativo, già in passato si era trovata poca fede nelle promesse dei Genovesi e nulla ci si poteva attendere da eventuali promesse future. In realtà si agiva sotto l'impulso delle notizie appena arrivate dalla Romania "aspera nova de partibus Romanie" che facevano inclinare al pessimismo i governanti della Repubblica. Si era saputo infatti che i Genovesi avevano percosso e ucciso cittadini veneziani sottraendo loro le mercanzie, per cui si rendeva superfluo l'invio di un'ambasciata solenne. Subito dopo, tuttavia, arrivarono notizie migliori, secondo le quali le persone e le merci erano salve benché sequestrate a Caffa; ai Pregadi si propose quindi di ordinare al F. di riprendere il viaggio ampliando il suo precedente mandato con l'incarico di esporre quanto accaduto nel frattempo e di chiedere la restituzione delle persone e dei beni sequestrati. La proposta venne però respinta quando fu messa ai voti in data 5 agosto; l'11 dello stesso mese cadde ugualmente una proposta di mandare a Genova un altro ambasciatore con la commissione già data al Falier. Lo stesso giorno il doge di Genova Giovanni di Valente scrisse al doge Dandolo per chiedere chiarimenti circa le credenziali del notaio Amadeo, che era giunto in città ma di cui si dubitava che fosse stato effettivamente inviato dal Comune di Venezia.Subito dopo il fallimento dell'ambasceria il F. fu di nuovo chiamato ad una carica pubblica con la nomina, il 1° settembre, a podestà di Padova e mantenne l'ufficio per un anno, assolvendo nel contempo anche altri incarichi per conto della Repubblica. L'8 maggio 1351, insieme con Giovanni Contarini e Marco Corner, fu eletto ambasciatore per incontrare a Segna gli inviati del re di Ungheria. Partì qualche giorno più tardi e da Segna scrisse al Senato riferendo sull'esito della legazione. I legati si spostarono quindi ad Arbe e a fine giugno il Senato ordinò che due rientrassero a Venezia lasciando il terzo per recarsi eventualmente dal re. La scelta doveva aver luogo per sorteggio o in via di accordo, ma non pare aver riguardato il F. che era di nuovo a Venezia il 17 luglio quando venne eletto capitano di Armata. Lo troviamo ancora in città il 30 ottobre fra i Savi deputati a esaminare per tre mesi le questioni relative alla guerra con Genova e il 7 dicembre quando ebbe come savio l'incarico di dare suggerimenti circa la situazione venutasi a creare per l'uccisione a Udine di Giovanni Francesco castellano del Friuli. Ancora savio per la Guerra con Genova nel gennaio 1352, fu inviato in Oriente come provveditore all'annata qualche mese più tardi.
Dopo la battaglia del Bosforo, combattuta con esito incerto il 13 febbr. 1352, il Consiglio dei rogati il 1° maggio 1352 elesse infatti quattro provveditori all'armata di mare da affiancare al capitano generale Niccolò Pisani. Stabilì inoltre che il più votato fra questi subentrasse al Pisani nel comando generale in caso di impedimento. Risultarono eletti, in ordine, il F., Marino Grimani, Giovanni Dolfin procuratore di S. Marco e Marco Corner. I provveditori partirono da Venezia il 13 maggio portando, per sopperire ai bisogni dell'esercito, una considerevole quantità di denaro di cui parte fu tuttavia lasciata a Ragusa per paura delle galere genovesi. Raggiunsero il Pisani Candia il 7 agosto e qui decisero che parte dell'armata andasse nel Mar Maggiore per dividersi in due squadre comandate dal F. e dal Dolfin. Il F., al comando di sei galere, attaccò con successo le navi nemiche nel porto di Caffa; si ricongiunse quindi al resto dell'armata che raggiunse Cipro e di qui fece vela per Venezia, dove arrivò verso fine anno.
Mentre esercitava il comando il F. prese contatto con lo zar bulgaro Ivan Alessandro Asen allo scopo di promuovere un trattato favorevole al commercio veneziano e sottoscrisse il 10 ottobre a nome del Pisani e degli altri provveditori l'atto di cessione dell'isola di Tenedo, che Giovanni V Paleologo consegnò a Venezia per tutta la durata della guerra con Genova in cambio di 20.000 ducati. A guerra finita, secondo i termini dell'accordo, l'imperatore di Bisanzio avrebbe restituito il denaro e l'isola gli sarebbe stata riconsegnata. Dallo stesso sovrano il F. ricevette un "balasso" a titolo di pegno per 5.000 ducati che gli aveva consegnato di persona come prima rata del prestito. La pietra fu poi portata a Venezia e depositata dal doge nella procuratoria di S. Marco il 22 dicembre dello stesso anno.
Poco più tardi il F. andò in ambasceria con Marco Corner presso il re Luigi di Ungheria, che esigeva da Venezia la restituzione di Zara e della Dalmazia minacciando, in caso contrario, di entrare in guerra a fianco di Genova.
Il nunzio del re ungherese arrivò a Venezia il 12 genn. 1353 e subito dopo la Repubblica mandò i propri legati. I Veneziani esternarono la meraviglia della Signoria per la richiesta del re, respinsero le proteste da questo formulate circa la rottura della tregua stipulata nel 1348 e si dichiararono pronti a sottomettersi all'arbitrato del papa e dei principi cristiani. Si interpose Carlo IV di Lussemburgo, che riuscì qualche mese più tardi a risolvere la contesa. Il F. e il Corner, nel frattempo, si recarono presso l'imperatore e parteciparono, in febbraio, alla riunione del Parlamento a Vienna. Si trovavano a Vienna ancora il 14 marzo quando furono creati cavalieri da Carlo IV nella cappella del castello dei duchi d'Austria. Di qui il F. seguì l'imperatore a Praga, dove il 27 dello stesso mese fu da lui nominato consigliere e familiare.
Non sappiamo quando sia rientrato in patria: lo ritroviamo a Venezia tuttavia il 19 maggio 1353 allorché venne eletto capitano di Mare. Qualche tempo dopo scrisse per conto della Repubblica ai signori di Padova, presso i quali aveva un notevole ascendente, chiedendo un aiuto militare, che venne prontamente concesso. I da Carrara inviarono infatti 400 cavalieri e altrettanti fanti comandati, per loro espressa richiesta, dallo stesso Falier. Il 31 agosto e il 6 ottobre il F. fu di nuovo savio insieme con altri patrizi per l'esame di differenti questioni e venne quindi inviato in ambasceria a Ferrara con Ranieri Da Mosto per cercare di riconciliare i marchesi Francesco e Aldobrandino d'Este. I due giunsero a Ferrara il 17 ottobre e il F. restò per qualche tempo presso Aldobrandino, che seguì in alcuni spostamenti, rientrando quindi a Venezia il mese seguente. Dopo la sottomissione di Genova a Giovanni Visconti, fu nominato "sindaco e procuratore del comune di Venezia", insieme con Marco Giustinian e Nicolò Lion, per contrarre nuove alleanze in funzione antigenovese. La nomina dei tre ebbe luogo il 12 dicembre e già tre giorni più tardi venne stipulato un accordo con Cangrande Della Scala, cui fecero seguito altri due patti di tenore analogo con il marchese d'Este e i signori di Faenza dei quali, come per il primo, il F. era stato uno dei contraenti.
L'anno seguente gli stessi tre nobili andarono ambasciatori in Avignone presso papa Innocenzo VI, con il compito di prendere contatto con gli inviati di Pietro IV di Aragona (III di Catalogna) e dell'arcivescovo di Milano. Mentre si trovava ad Avignone il F. fu eletto doge l'11 sett. 1354, quattro giorni dopo la morte di Andrea Dandolo. A favore della candidatura del F., che doveva sembrare l'uomo più adatto per gestire la difficile situazione del momento, votarono trentacinque dei quaruntuno elettori ed egli riuscì eletto alla prima seduta. Si inviò quindi un messo ad Avignone facendo nel contempo i preparativi necessari per ricevere il nuovo doge che, frattanto, era già partito alla volta di Venezia senza sapere dell'elezione. Qui arrivò il 5 ottobre scortato dai dodici ambasciatori della Repubblica che gli erano andati incontro a Verona.
Quando il F. divenne doge, Venezia era in guerra con Genova da quattro anni e, dopo alterni successi, le sorti del conflitto si stavano evolvendo a favore della città rivale. Un mese dopo la sua nomina, il 4 nov. 1354, la flotta veneziana al comando di Niccolò Pisani subì una catastrofica disfatta a Portolongo, sulla costa sudest dell'isola della Sapienza. Tutte le navi veneziane furono catturate e lo stesso Pisani con la maggior parte dei suoi venne fatto prigioniero. A seguito della sconfitta, la Repubblica rafforzò le difese in un clima di mobilitazione generale e, nel contempo, si fece più disponibile alle proposte di pace di quanto non fosse stata in precedenza. Per intervento dell'imperatore Carlo IV si arrivò quindi a una tregua di quattro mesi a decorrere dall'8 genn. 1355: a questa, dopo la morte del F., farà seguito la pace sottoscritta il 1° giugno dello stesso anno.
Durante i mesi di tregua maturò la nota congiura ordita dal Falier. Secondo un'interpretazione proposta dalle fonti, a partire dal sec. XIV, causa della congiura fu un'offesa fatta al F. da alcuni giovani della nobiltà e non punita adeguatamente dai giudici, così da suscitare in lui un forte risentimento verso i nobili. La tradizione è raccolta per la prima volta dal cronista Lorenzo De Monacis, il quale ricorda che alcuni "adolescentuli nobiles" scrissero all'interno del palazzo ducale "aliqua verba ignominiosa" e che l'ira del doge fu ancor più grande per la modesta punizione loro inflitta. Su questa tradizione si inserì in seguito il racconto, che la storiografia moderna reputa scarsamente attendibile, secondo il quale l'offesa sarebbe venuta da Michele Steno, il futuro doge: in occasione di una festa a palazzo ducale, infatti, lo Steno sarebbe stato allontanato dal doge per il suo atteggiamento irriguardoso verso le dame del seguito o verso la dogaressa stessa. Lo Steno, per vendicarsi, sarebbe andato a scrivere sulla sedia del doge, nella sala del Consiglio, parole lesive del suo onore che, nella lezione più comunemente riportata, suonano "Marin Falier de la bela moier, altri la galde [la gode] e lui la mantien". Comunque siano andate le cose, è indubbio che il F. reclutò i suoi seguaci fra i popolani e per lo più fra il ceto dei marinai, fortemente avversi ai nobili ai quali attribuivano la colpa della sconfitta di Venezia, dando così un fondamento nettamente antiaristocratico al complotto.
La congiura prese l'avvio a seguito di una circostanza puramente occasionale. Negli uffici navali che si trovavano a pianterreno del palazzo ducale scoppiò infatti una lite fra il nobile Giovanni Dandolo e il popolano Bertuccio Isarello, "paron" di nave e uomo influente fra la gente di mare. Il Dandolo schiaffeggiò l'Isarello e questi uscì dagli uffici radunando molti marinai che attesero il Dandolo con atteggiamento minaccioso. Il nobile chiese aiuto alla Signoria e il doge fece subito venire a palazzo l'Isarello rimproverandolo per il suo comportamento. Ma la notte seguente lo chiamò di nuovo presso di sé rivelandogli il suo rancore verso i nobili e invitandolo a partecipare a una cospirazione. L'Isarello aderì e non faticò a trovare fra i popolani venti capi della congiura, ognuno dei quali reclutò quattrocento uomini. Tra i capi era anche Filippo Calendario suocero dell'Isarello, tagliapietra e proprietario di barche, in cui si è voluto vedere a torto l'architetto di palazzo ducale. Soltanto cinque di questi, tra cui il Calendario, sapevano del ruolo del F. nella congiura. I capi del complotto si incontrarono a palazzo ducale con il F. per parecchie notti di seguito e, alla fine, venne messo a punto il piano di azione. La notte del 15 apr. 1355 tutti i congiurati in armi dovevano radunarsi in piazza S. Marco e a palazzo ducale; il doge avrebbe quindi fatto suonare a stormo le campane del campanile di S. Marco spargendo nel contempo la voce che erano in arrivo cinquanta galere genovesi. I nobili sarebbero perciò accorsi a palazzo dove i congiurati li avrebbero uccisi. I popolani in rivolta si sarebbero quindi sparsi per la città facendo strage anche dei figli della nobiltà e mettendone a sacco le case. A cose fatte, il doge doveva essere nominato signore, abolire la legge che regolava il Maggior Consiglio e sciogliere la nobiltà nominando i popolani negli uffici di governo.
Qualcosa tuttavia non funzionò e all'ultimo momento il F. diede un contrordine. Ma alla sera dello stesso giorno 15 un congiurato, il pellicciaio Vendrame, per paura di essere scoperto, rivelò quanto doveva accadere al nobile Nicolò Lion e questi insieme col Vendrame si recò subito dal doge per informarlo. Il F. cercò di non dare importanza al fatto ma, dietro le insistenze del Lion, dovette convocare i consiglieri che si recarono a palazzo insieme con molti nobili. Cominciò nel frattempo a svilupparsi una certa agitazione in città, evidentemente per il correre incontrollato delle voci. I consiglieri ducali spinsero a fondo l'inchiesta e la responsabilità del F. non tardò ad apparire. Nel corso della stessa notte i principali congiurati furono arrestati senza colpo ferire; vennero chiamati a S. Marco tutti i nobili in armi per presidiare la piazza e difendere il palazzo e furono fatte affluire truppe da Chioggia.
Verso la mattina si riunì in palazzo ducale il Consiglio dei dieci che, vista la gravità del giudizio al quale era chiamato, decise subito di aggregarsi venti nobili scelti fra i più rinomati. Si formò così un collegio di trentasette persone, diciassette membri di diritto (due dei tre avogadori di Comun, i sei consiglieri ducali e nove membri del Consiglio dei dieci) e i venti che formavano la così detta zonta, di cui però soltanto i Dieci e i consiglieri ducali ebbero voto deliberativo. Dai Dieci era stato espulso Nicolò Corner a causa della parentela con il doge e lo stesso provvedimento era stato adottato nei confronti dell'omonimo Falier che era il terzo avogadore di Comun. Nel corso della stessa giornata proseguirono gli arresti dei congiurati che non erano riusciti a fuggire e venne pronunciata la sentenza di morte nei confronti dell'Isarello e del Calendario. I due vennero impiccati alle colonne rosse della loggia di palazzo ducale, da dove il doge assisteva agli spettacoli in piazzetta il giovedì grasso, con una spranga in bocca verosimilmente perché non arringassero gli astanti prima dell'esecuzione. La stessa sorte capitò nei giorni seguenti ad altri nove congiurati che furono impiccati ad altre colonne, proseguendo in direzione del molo, ma senza le spranghe in bocca, e qui restarono esposti dopo l'esecuzione.Il 17 apr. 1355 venne infine giudicato il doge, che nel frattempo era stato tenuto sotto custodia. Si riunì il collegio giudicante, formato questa volta da trentasei persone per la malattia di un consigliere ducale. Quattro membri riferirono sull'interrogatorio fatto al doge e i giudici decisero di procedere contro di lui. Il F. venne giudicato colpevole e fu proposta la "parte" relativa alla pena da infliggergli. Il diritto di far proposte di voto spettava ai consiglieri ducali, ai capi dei Dieci e agli avogadori di Comun: la sentenza fu emessa nel tardo pomeriggio con il voto dei cinque consiglieri ducali e dei nove del Consiglio dei dieci, che decisero materialmente la sorte del Falier. Il doge venne condannato alla decapitazione, da eseguirsi sul pianerottolo della scala di palazzo dove, entrando in carica, aveva giurato di rispettare la costituzione della Repubblica. Il Consiglio dei dieci deliberò la confisca dei suoi beni, ma la Signoria gli consentì di poter disporre di 2.000 ducati che egli lasciò alla moglie facendo testamento nello stesso giorno.
La sentenza fu eseguita al tramonto e il F. venne decapitato, dopo essere stato privato delle insegne della sua carica.
Subito dopo il maestro di giustizia mostrò al popolo radunato in piazza la spada insanguinata pronunciando, a quanto pare, le parole "vardè tutti, l'è sta fatto giustizia del traditor". Il suo corpo con la testa ai piedi fu posto su una stuoia nella sala del piovego e li restò per tutta la notte e il giorno seguente, esposto a chiunque volesse vederlo. Fu quindi portato alla chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo e deposto nell'arca di famiglia, dove si è creduto di individuarne i resti in una ricognizione del 1812. La repressione durò ancora per parecchio tempo: oltre agli undici impiccati si ebbero tre condannati al carcere perpetuo, uno alla prigione per un anno, un esiliato a Candia, cinque banditi in contumacia e trentuno graziati con speciali ammonizioni. Alcune fonti tramandano però che nei primi giorni si procedette con giustizia sommaria massacrando o facendo sparire in mare più di quattrocento persone.
Difficile dire quali siano stati gli scopi della congiura del Falier. Già il Petrarca, d'altronde, si chiedeva che cosa avesse spinto una persona come il F. ad avventurarsi su una strada simile senza essere in grado di dare una risposta. Non possediamo tra l'altro gli atti relativi alle condanne e ciò rende più ardua la ricostruzione storica che deve basarsi unicamente sulle fonti narrative, dalle quali potrebbe essere stata divulgata soltanto la versione ufficiale della congiura. Nei registri dei Dieci, infatti, alla pagina in cui dovrebbero trovarsi gli atti processuali, si leggono per due volte le parole "non scribatur", si ignora se per motivi politici o, più semplicemente, perché la documentazione era stata raccolta in un registro a parte che poi è andato perduto. Secondo la maggior parte dei cronisti veneziani il F. ambiva a divenire signore di Venezia, "signore a bacchetta", sfruttando il malcontento popolare a proprio vantaggio, e questa spiegazione è in genere accettata anche dalla storiografia moderna. Altri però hanno visto nella congiura del F. l'espressione delle lotte di potere in seno alla nobiltà, per cui egli sarebbe stato l'ispiratore, o anche la vittima, della fazione perdente. In questo caso avrebbe agito come "capo degli elementi più irriducibili di un partito bellicista" (Lane) o per il suo "disaccordo con il gruppo degli oltranzisti" (Pillinini) o anche sarebbe divenuto il "capro espiatorio di uno scontro tra fazioni di nobili" (Cracco, 1986, p. 139).
II F. si era sposato due volte. Non conosciamo il nome della prima moglie che però, secondo alcuni, potrebbe essere stata Tommasina Contarini, da cui ebbe una figlia di nome Lucia, che fece testamento nel 1348, e una seconda di nome Pinola. In seconde nozze, verso il 1335, sposò Alvica, figlia di Nicoletto Gradenigo e nipote del doge Pietro, dalla quale non ebbe figli. La dogaressa, nata probabilmente nella prima decade del secolo, era ancora in vita nel febbraio 1387, quando fece testamento per la terza volta. Il F. ebbe inoltre due fratelli, Marco e Ordelaffo, entrambi morti prima di lui. Apparteneva a uno dei più illustri casati veneziani: in città possedeva il palazzo avito ai Ss. Apostoli, che ancora esiste anche se alquanto modificato, e parecchie altre case. Aveva inoltre proprietà terriere nel Padovano a Camponogliera e nella campagna saccense e, oltre al feudo di Valmareno e al castello di Fregona, era in possesso con altri membri della famiglia del terzo di un feudo a Trisigallo nel distretto di Ferrara. La sua immagine è visibile in un sigillo in bronzo, nelle bolle, nelle monete e in una miniatura di un codice marciano. Il ritratto del F. che, secondo la consuetudine, era stato fatto in palazzo ducale, venne rimosso per ordine dei Dieci nel 1366. Nel posto rimasto vuoto fu dipinto in azzurro con l'iscrizione in bianco: "Hic fuit locus ser Marini Faletro decapitati pro crimine proditionis". Fu anche proposto nella stessa occasione di raffigurarlo, secondo i modi della pittura infamante, con la testa che pendesse tagliata alla gola ma il suggerimento non fu accolto. Dopo l'incendio del 1577, quando fu rinnovata la serie dei ritratti dogali, al posto del F. venne dipinto il drappo nero tuttora visibile con la stessa didascalia.
Fonti e Bibl.: Lorenzo de' Monaci, Chronicon de rebus Venetis, Venetiis 1758, pp. 215, 220, 315 ss.; Le deliberazioni del Consiglio dei XL della Repubblica di Venezia, I, (1342-1344), a cura di A. Lombardo, Venezia 1957, n. 136; Le deliberazioni del Consiglio dei rogati (Senato). Serie Mixtorum, I, Libri I-XIV, a cura di R. Cessi-P. Sambin, Venezia 1960, l. VII, p. 310; l. IX, pp. 142, 201; II, Libri XV-XVI, a cura di R. Cessi-M. Brunetti, ibid. 1961, I.XVI, pp. 120, 247, 258, 260, 262, 267, 278, 283 s., 328, 331, 384; Consiglio dei dieci, Deliberazioni miste. Registri I-II (1310-1325), a cura di F. Zago, Venezia 1962, reg. II, nn. 18, 39, 46, 64 s., 67, 70, 75, 77 ss., 90, 103, 156; XLIXLIII, pp. 258 s.; LII-LIII, pp. 261 s.; LXII, p. 266; LXIX, p. 269; Registri III-IV (1325-1335), a cura di F. Zago, ibid. 1968, reg. III, nn. 68, 73, 81, 95, 97, 99, 102 s., 111, 121, 132, 140, 143, 145, 158, 160, 178, 470, 502, 508, 524, 553, 597 s., 600, 602; reg. IV, n. 20; Indice topografico delle fonti manoscritte: cronache e documenti, in V. Lazzarini, M. Faliero, Firenze 1963, pp. XIII ss., 351-360; Venetiarum Historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di R. Cessi-F. Bennato, Venezia 1964, pp. 212, 222, 226, 228, 233, 235, 238 s., 240-245, 247 s., 342 ss.; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, Venezia 1855, pp. 176-193; B. Cecchetti, La moglie di M.F., in Archivio veneto, I (1871), pp. 364-370; V. Zanetti, Quattro documenti ineditidell'Archivio degli Esposti in Venezia (Marco Polo e la sua famiglia-M. F.), in Archivio veneto, XVI (1878), pp. 105-109; Id., Le pergamene dell'Archivio dell'Istituto degli Esposti di Venezia, Venezia 1878, pp. 15 s.; B. Cecchetti, Di alcuni cospiratori graziati, nella congiura di M. F., in Archivio veneto, XX (1880), pp. 111 s.; Id., L'ultimo testamento di Ludovica Falier Gradenigo, vedova di M. F., ibid., pp. 347-350; P. Molmenti, Le congiure in Venezia nel secolo XIV, Venezia 1880, pp. 13-21; Id., La leggenda di M. Faliero, in Bull. di arti, industrie e curiosità veneziane, III (1880-81), pp. 15-22; B. Cecchetti, Un creditore del doge M. F., in Archivio veneto, XXVI (1883), p. 171; Id., La dote della moglie di M. F., ibid., XXIX (1885), pp. 202 ss.; P. Molmenti, La dogaressa di Venezia, Torino 1887, pp. 134-150; A. Sarfatti, I codici veneti delle biblioteche di Parigi, Roma 1888, pp. 93-98; V. Lazzarini, Genealogia del doge M. Faliero, in Nuovo Archivio veneto, n. s., III (1892), pp. 181-207; Id., M. Faliero avanti il dogado, ibid., V (1893), pp. 95-197; G. Tassini, Palazzo del doge M. F., ibid., VI (1893), pp. 269 s.; V. Lazzarini, Filippo Calendario, l'architetto della tradizione del palazzo ducale, ibid., VII (1894), pp. 429-446; Id., La battaglia di Porto Longo nell'isola di Sapienza, ibid., VIII (1894), pp. 5-45; Id., Per Filippo Calendario, ibid., p. 471; E. Vecchiato, Sulle cause che determinarono il doge M. Faliero a cospirare contro le patrie istituzioni, Padova 1895; V. Lazzarini, M. Faliero. La congiura, in Nuovo Archivio Veneto, XIII (1897), pp. 5-107, 277-374; G. Secrétant, Di alcune questioni di diritto sorte intorno alla confisca dei beni di M. F., in Riv. ital. per le scienze giuridiche, XXIV (1897), pp. 423-428; C.A. Levi, Byron e M. Faliero, Bologna 1906; G. Secrétant, Una calunnia secolare, Alvica Falier Gradenigo, in Riv. di Roma, XVII (1913), pp. 13-20; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Die Blüte, Gotha 1920, pp. 211-215, 605 s.; La regolazione delle entrate e delle spese (sec. XIII-XIV), Introd. di R. Cessi, Padova 1925, pp. CXCVII-CC; M. Brunetti, M. F. e la sua congiura, in Rivista di Venezia, X (1931), pp. 41-55; V. Lazzarini, M. Faliero e un feudo dei Falier nel Ferrarese, in Archivio veneto, s. 5, XXXVIII-XLI (1946-1947), pp. 77-85; G. Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano (secc. XII-XIV), Firenze 1967, pp. 389 n., 399, 411 n., 439 s.; G. Pillinini, M. F. e la crisi economica e politica della metà del '300 a Venezia, in Archivio veneto, s. 5, LXXXIII (1968), pp. 4571; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Firenze 1977, pp. XXVII, XLIV, 110, 113, 116, 118-127, 132, 136, 142, 151, 153, 157, 221; F. C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 216-219; G. Ortalli, "... pingatur in Palatio ...". La pittura infamante nei secc. XIIIXVI, Roma 1979, pp. 30, 168 s.; R. Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, Firenze 1981, pp. 314 ss.; G. Cracco, Venezia nel Medioevo dal sec. XI al sec. XIV. Un "altro mondo", Torino 1986, pp. 137 ss.