MARINI, Marino
– Nacque a Pistoia il 27 febbr. 1901 da Guido, impiegato e agiato possidente, e da Bianca Bonacchi. Ebbe una sorella gemella, Egle (morta nel 1983), che fu poetessa e alla quale il M. fu strettamente legato.
Talento precoce, nel 1917 il M. si iscrisse all’Accademia di belle arti di Firenze, indirizzandosi alla pittura sotto la guida di Galileo Chini. Manifestò, sin da subito, spiccate doti espressive e un’autonomia critica che sarà la marca del suo operato.
Rappresentativo del periodo, il dipinto Le Vergini (1920 circa; Firenze, Museo Marino Marini) costituisce una riflessione sull’arte di Piero della Francesca, di cui si analizza la strutturazione formale dell’immagine: le tre figure femminili, solide nel corpo e ieratiche nell’attitudine, sono racchiuse da un disegno fermo, deciso, tutto quattrocentesco. Già nelle prime prove il giovane M. si rivelava aggiornato sui contenuti proposti da Valori plastici, ma insieme rivendicava un’appartenenza, un’identità culturale toscana.
Nel 1922 il M. si accostò alla scultura, seguendo in accademia le lezioni di Domenico Trentacoste, che garantì al M., a fronte di un discreto insegnamento tecnico, una libertà dello sguardo, che egli rivolse alle civiltà del passato, alla ricerca di stabili principi della rappresentazione.
Data al 1923 l’esordio espositivo del M.: fu presente dapprima a una collettiva livornese con alcune pitture di paesaggio, quindi in autunno alla II Biennale romana con la Deposizione (acquaforte, Musei Vaticani), immagine di richiamo nordico, matura nella conduzione di un segno forte e nel governo del chiaroscuro. Nel 1926, orientato con convinzione alla plastica, il M. prese studio in via degli Artisti, ai piedi della collina di Fiesole; ebbe inizio allora un periodo fecondo, in cui raggiunse in pochi anni risultati significativi, confermati dalla regolare partecipazione a importanti rassegne e salutati da un vasto consenso di critica.
Nel 1927 il M. fu selezionato per la III Mostra delle arti decorative di Monza, il cui consiglio artistico comprendeva Giò Ponti, Margherita Sarfatti, Carlo Carrà e Mario Sironi, e in tale occasione ebbe modo di conoscere Arturo Martini. Il rapporto tra i due scultori fu certo di stima e amicizia, se proprio Martini designò due anni più tardi il M. a succedergli nella cattedra di scultura dell’Istituto superiore per le industrie artistiche (ISIA) di Monza, ospitato nella Villa reale. Il M., trasferitosi dunque a Milano, trovò nell’insegnamento, che lascerà solo alla fine degli anni Sessanta, un complemento importante alla professione e un’occasione di approfondimento.
I secondi anni Venti, cruciali per l’arte italiana, furono decisivi anche per l’arte del M., che maturò una consapevolezza delle proprie intenzioni e capacità espressive, rivelandosi alla critica come un artista affatto originale.
Antiretorica e antimonumentale, l’opera del M. procedette a un riesame attento della grammatica della scultura, declinando il pensiero storicistico e nazionalista che faceva capo al Novecento italiano, cui peraltro il M. aderì, secondo cadenze più intime e personali, attenendosi a pochi soggetti e temi, cui il M. fu fedele per l’intera esistenza: il ritratto, il gruppo equestre e la figura umana.
Dopo una iniziale ascendenza dei modi di Medardo Rosso, che si tradussero in opere dalle superfici mosse e vibratili quali Il cieco (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna), esposta nel 1928 alla Biennale veneziana, già l’anno seguente il M. dichiarò la propria poetica, presentando alcune sculture nuove e sorprendenti alla II Mostra del Novecento italiano, che aveva luogo alla Permanente di Milano.
Tra queste va citata Popolo (Milano, Museo Marino Marini), che impressionò vivamente i contemporanei: si tratta di un doppio ritratto in terracotta raffigurante una coppia di coniugi, di aspetto comune, popolare appunto. Ma la vitalità interiore degli effigiati, il loro sguardo severo, ne fanno due protagonisti indimenticabili: il M. attinge alla scultura funeraria etrusca, e trasporta nel nostro tempo il nudo realismo dell’antichità, traendone un magistero eterno.
Nell’estate del 1929 il M. ottenne il diploma d’onore all’Esposizione internazionale di Barcellona: fu il primo importante riconoscimento di una carriera in ascesa. In dicembre Popolo fu esposta a Parigi – accanto alle opere di M. Campigli, Carrà, A. Modigliani e Martini – nella mostra «Art italien moderne», che si tenne presso la Galerie Editions Bonaparte.
La tensione che informa Popolo pervade la produzione coeva, a partire dai numerosi ritratti fino ai nudi: il M. affronta con serietà il problema di una forma che si sviluppa in modo logico, espandendosi nello spazio secondo le regole – di composizione, di ritmo e unità visiva – proprie di tale forma. È un procedimento antinarrativo di ordine prevalentemente linguistico – di astrazione nella figurazione – che produrrà capolavori inattesi e senza precedenti, quali Ersilia o la Dormiente (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), presentata nel 1930 alla XVII Biennale di Venezia e acquisita alle collezioni nazionali.
Tra i ritratti di quegli anni, si ricorda un teso Ritratto del pittore Alberto Magnelli (coll. priv., M. M., 1998, n. 46), a testimonianza dell’amicizia del M. con il più anziano e affermato pittore, il cui percorso creativo – volto a una raffigurazione astratta ma equilibrata, ponderata – presenta delle analogie di fondo con l’opera del Marini.
Gli anni Trenta furono per il M. un’epoca di stupefacente creatività e impegno, di viaggi, contatti e affermazioni: ancora giovane, il M. era già molto noto e richiesto. Soggiornò ripetutamente a Parigi, dove frequentò l’ambiente degli artisti italiani ma conobbe anche W. Kandinsky, I. Tanguy, J. Gonzales; viaggiò anche in Olanda, Austria, Inghilterra. Fondamentale il viaggio in Germania del 1934, e le suggestioni che il M. trasse dal medievale cavaliere della cattedrale di Bamberga, che fu poi fonte preziosa per le sue figure a cavallo.
Sul fronte della partecipazione a mostre e rassegne, il M. appare infaticabile: la sua presenza è registrata nelle maggiori occasioni nazionali e internazionali. Fedele alle origini, inoltre, il M. manteneva stretti rapporti con gli artisti toscani e, per vari anni espose con questi alle mostre regionali. In particolare si ricordano nel 1932 le due personali di Milano e di Roma, rispettivamente alla galleria Milano e alla galleria Sabatello, quest’ultima introdotta e inaugurata da un discorso di Massimo Bontempelli. Sempre nel 1932, e su invito di G. Severini, il M. fece parte del gruppo di artisti riuniti nella «Mostra degli italiani di Parigi», svoltasi in seno alla Biennale di Venezia.
Le opere del M., tra le quali spicca Ersilia (legno policromo largamente ripreso negli anni Quaranta, oggi al Kunsthaus di Zurigo) figuravano accanto a quelle di Campigli, di De Pisis (Filippo Tibertelli), di G. De Chirico. Quell’anno, infine, l’Accademia di belle arti di Firenze lo designò membro onorario.
Una menzione a parte meritano le partecipazioni del M. alle prime Quadriennali romane, che rappresentarono, grazie anche alla stima che per lui nutrì C.E. Oppo, la vera consacrazione.
Alla I Quadriennale, nel 1931, il M. si aggiudicò solo un premio minore per la scultura, ma la sua opera Frammento fu acquistata dal Governatorato di Roma per la Galleria Mussolini a palazzo Caffarelli. Trionfatore della prima edizione fu invece A. Martini, il quale, nell’edizione successiva, come membro della giuria sostenne con forza la candidatura del M., che ebbe il primo premio e una somma di 100.000 lire.
Alla II Quadriennale al M. fu riservata un’intera sala e lo scultore, che firmava anche il testo in catalogo, colse l’occasione per fare il punto del proprio lavoro: scelse sedici opere, tra ritratti e figure, nei materiali più diversi. Cera, legno, bronzo, gesso: per il M. non esisteva una gerarchia delle materie. È l’artista che fa il materiale, che gli conferisce dignità d’arte, ma è compito dell’artista rispettarlo, traendone le forme connaturate.
Svettano il penetrante Autoritratto in gesso policromo (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) e il durissimo Icaro in legno (coll. priv., M. M., 1998, n. 87), schiettamente martiniano, ma prosciugato; un Icaro senza ali inchiodato in croce di s. Andrea. La critica si divise nel giudizio sul M., accusato da alcuni di eclettismo, lodato come artista sensibile e moderno da altri.
Risalgono al 1935 il Piccolo cavaliere e le prime Pomone, soggetti i quali, molte volte replicati e reinterpretati, saranno topici del M., che li investirà di una carica morale ed emotiva rara e conturbante, sino a farne gli interpreti metaforici di un racconto esistenziale. Lo scultore, infatti, aveva ormai intrapreso un lucido percorso di analisi formale, di pari passo con una accresciuta conoscenza dell’arte antica, in specie latina ed egizia. La serie delle Pomone, dee minori della fertilità, incarna il mito di una femminilità edenica, di una sensualità naturale: definite dalla linea curva indagata in ogni sua possibilità, le Pomone sono le donne prima di Eva, innocenti e libere. I cavalieri, invece, sono uomini di virtù, figure silenziose e antiche, rappresentanti di un’umanità fiera e onesta. Un Cavaliere di bronzo (Sydney, The Art Gallery) fu esposto nel 1936 alla Biennale suscitando polemiche e commenti velenosi per la ricercata ieraticità del destriero e del condottiero. Nello stesso periodo, e a riprova di una vocazione internazionale del lavoro del M., fu pubblicata a Parigi la prima monografia sullo scultore, ben illustrata e accompagnata da un testo critico di Paul Fierens, cui fece seguito l’anno dopo la stampa di un volumetto, edito a Milano dalla Hoepli e curato da Lamberto Vitali, ancora illuminante per intuizione critica.
Data al 1937 la partecipazione del M. all’Esposizione universale di Parigi; lo scultore vinse il grand prix e si assicurò l’ingresso di una sua scultura nelle prestigiose collezioni nazionali francesi. Fu scelto, dalla serie degli atleti in riposo cui il M. lavorava già da alcuni anni, il Pugile oggi al Centre Georges Pompidou di Parigi.
Nella primavera del 1938, il M. conobbe Mercedes Maria Pedrazzini, giovane di origine ticinese, che sposò a Locarno il 14 dicembre dello stesso anno.
A dimostrazione di un amore profondo e felice, il M. ribattezzò la moglie Marina; discreta fotografa, negli anni successivi la Pedrazzini documentò con precisione i momenti più significativi del lavoro del M. e della loro vita coniugale.
La maturità e la serenità affettiva spiegano la chiarezza espositiva e l’intensità che il M., sul finire degli anni Trenta, raggiunse in ogni campo espressivo, dal disegno alla pittura alla plastica. Elogiato dalla critica più aperta, nell’Italia fascista e senza evidenti antagonismi con la retorica imperante, lo scultore condusse con intima sicurezza un percorso autonomo e coerente. I soggetti dei suoi ritratti, ma anche i cavalieri e i nudi femminili, sono personaggi caratterizzati – pur nella ricercata compiutezza delle linee e dei volumi – come individui.
Esemplari in tal senso il ritratto dello scultore trentino Fausto Melotti (1937; Firenze, Museo Marino Marini) e il S. Giacomo a cavallo, noto in seguito come Il pellegrino (già in coll. Jesi, ora a Houston, Museum of fine arts). Il busto presenta un impianto rinascimentale, serrato, ma è fatto nuovo il tradurre l’intelligenza matematica di Melotti in volumi definiti, imperativi, lontani da ogni intento celebrativo.
Testimonianza estrema del sentimento umanista di fiducia nell’uomo, sentimento che si sarebbe smarrito con il conflitto armato, è la Pomona acefala degli Uffizi (1941), piena come una Venere classica, ma umana nell’appoggio incerto, nel rapporto di dialogo discreto con l’ambiente.
Il favore critico giustifica la docenza per chiara fama, nel 1940, all’Accademia Albertina di Torino; appena un anno dopo, peraltro, il M. ottenne la cattedra di scultura, lasciata vacante da Arturo Martini, all’Accademia di Brera.
A seguito di tali vicende i coniugi Marini si trasferirono in una casa-studio in via Visconti di Modrone, benché il M. mantenesse uno studio presso la Villa reale di Monza. I bombardamenti del settembre 1942 danneggiarono i due studi e causarono la perdita di numerose opere giovanili; lo scultore e la moglie si rifugiarono in Svizzera, a Tenero presso Locarno. Laggiù il M. entrò in contatto con Alberto Giacometti, ma anche con Fritz Wotruba e Germane Richier, con i quali negli anni seguenti espose al Kunstmuseum di Basilea e alla Kunsthalle di Berna.
La guerra non interruppe l’attività espositiva del M. (a Roma, galleria dello Zodiaco nel 1942; a Venezia, galleria del Cavallino nel 1943), ma lentamente contaminò le ragioni del suo fare arte, sino a rappresentare nel tempo una cesura nell’intera produzione.
L’inquietudine dello spirito si annuncia con una scultura anomala nel corpus mariniano: Arcangelo (1942; Firenze, Museo Marino Marini), ritratto del cognato Giovanni Pedrazzini. L’opera si qualifica per una marcata verticalità, gotica, dei volumi e per un’intonazione dolente del volto. Arcangelo è messaggero di bontà e di sofferenza, di spiritualità.
Dopo il ritorno a Milano nel 1946, stabilitosi in piazza Mirabello, il M. riprese l’insegnamento e l’attività scultorea, ma le esperienze vissute cominciarono lentamente a emergere nell’opera, imprimendole una lenta corrosione dall’interno, che si registra fino a tutti gli anni Cinquanta. Questo fenomeno interessò tutte le tematiche dell’opera mariniana: dai cavalieri, ai ritratti, alle mediterranee Pomone, riprese con esiti scintillanti fino al 1947, ma poi abbandonate e sostituite dalle danzatrici e dai giocolieri.
È però soprattutto il tema del cavaliere, trascurato durante il conflitto, a essere investito dal M. del compito di raccontarne la visione del mondo.
Nel 1947 realizzò una serie importante di gruppi equestri, caratterizzati da una crescente stilizzazione delle forme e da un’architettura rigida; il cavallo appare nervoso – gira la testa di lato, protende il muso – mentre il cavaliere volge lo sguardo al cielo. Non è più un condottiero sicuro di sé, e vacilla la relazione con l’animale: il gruppo è carico di energia, percorso da una vitalità trattenuta a stento. Esemplare tra i più riusciti della serie, il gruppo intitolato Angelo della città (1949) fu acquistato da Peggy Guggenheim ed esposto nel giardino del palazzo Venier dei Leoni a Dorsoduro, sul Canal Grande, dove ancora si trova.
Nel dopoguerra la carriera del M. fu all’insegna del successo e della popolarità in patria e all’estero, punteggiata da continui riconoscimenti e onorificenze. Membro corrispondente dell’Accademia Clementina di Bologna dal 1947, nel 1948 espose sia alla Quadriennale di Roma sia alla Biennale di Venezia, dove allestì una personale ed esercitò il ruolo di commissario. In tale occasione incontrò Henry Moore, con il quale strinse un’amicizia gentile, rinsaldata negli anni dalla frequentazione a Forte dei Marmi.
Nello stesso anno il M. conobbe il mercante e gallerista Curt Valentin, titolare della Buchholz Gallery di New York, che lo introdusse nel mercato americano, invitandolo già nell’autunno a figurare in una rassegna di scultura contemporanea.
Impostosi come una figura di primo piano dell’arte europea, il M. ricevette negli Stati Uniti un’accoglienza favorevole, che comportò svariate esposizioni e la presenza di sue sculture in prestigiose collezioni pubbliche e private. Dopo una personale romana alla galleria dell’Obelisco nel 1949, introdotto da Palma Bucarelli, al principio del 1950 il M. affrontò la prima personale newyorkese, che andò molto bene. Durante il soggiorno americano, protrattosi per alcuni mesi, il M. entrò in relazione, e a volte ritrasse, con A. Calder, S. Dalì, L. Mies van der Rohe, J. Arp, I. Stravinskij. Nel medesimo periodo il M. conobbe alcuni membri della famiglia Rockefeller, e segnatamente Blanchette, presidente del Museum of Modern Art (MOMA), il cui giudizio influente poteva condizionare la carriera di un artista.
Ormai celebre, il M. esponeva abitualmente su scala continentale, e la sua statura fu confermata alla XXVI Biennale nel 1952, dove, presentato da Marco Valsecchi, ricevette il premio per la scultura. Acclamato e all’apice del successo, il M. diede sfogo alla sua sottile inquietudine, sperimentando ancora intorno al tema del gruppo equestre: nacquero i Miracoli.
Intensamente drammatico, il miracolo rappresenta il dissidio, la rottura dell’armonia tra cavallo e cavaliere: l’animale fremente e imbizzarrito, o prostrato a terra, è ingovernabile per il condottiero in balia dell’evento. Il rimando alla caduta di Saulo – ma ripensato alla luce di Guernica – è evidente, ma manca nei miracoli mariniani la luce della salvezza: l’uomo si va perdendo. Concentratissimo il Miracolo del 1953, in cinque esemplari (dei quali uno al MOMA di New York e uno a Firenze, Museo Marino Marini), scelto come monumento ai caduti di guerra per una piazza, lo Zuid, di Rotterdam.
Nel corso degli anni Cinquanta, quasi a segnare con il colore il proprio difficile passaggio esistenziale, il M. riprese a dipingere, affiancando alla pittura – su sollecitazione di Curt Valentin – la litografia.
Lungi dall’essere attività di minore impegno, con la pittura il M. ottenne risultati interessanti, caratterizzati da masse cromatiche vivaci, racchiuse in campiture geometrizzanti che si stagliano da fondi piatti. I soggetti sono quelli percorsi nella plastica – il mondo del circo, i cavalieri, le danzatrici – ma la bidimensionalità della superficie pittorica ancora più allontana le figure in un mondo rarefatto e intangibile, metaforico. Contestualmente si acuisce la pratica di colorare le sculture, in specie le figure dei teatranti, quali le danzatrici e i giocolieri, che nate negli anni Quaranta diventano ricorrenti nel decennio successivo. Antieroi, i saltimbanchi del M. rappresentano l’umanità nel quotidiano esercizio del mestiere: essi non conducono grandi numeri da circo, ma si presentano, come gli acrobati di Picasso, nel tempo sospeso che precede il movimento.
Impossibile ripercorrere la febbrile attività espositiva e le onorificenze tributate in quegli anni al M., per le quali si rimanda alla dettagliata biografia tracciata da Laura Lorenzoni, ma si segnalano nel 1954 il premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei e la medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica, e infine la nomina ad accademico di S. Luca nel 1957.
Ultimata nel 1954 la costruzione, a Forte dei Marmi, della villa La Germinaia progettata dalla moglie, il M. vi si stabilì; quello stesso anno Curt Valentin vi morì, e a questi succedette, come gallerista per il mercato americano, Pierre Matisse. Alla Germinaia il M. lavorò alle grandi composizioni scultoree della piena maturità, trovando in Kenjiro Azuma, giovane studente giapponese, un collaboratore prezioso. Luogo di serenità conviviale, alla Germinaia furono ospiti nomi illustri della cultura, da Pablo Neruda a Henry Miller.
Negli ultimi venti anni il M. si concentrò nello sviluppo analitico dei temi già affrontati, operando una progressiva destrutturazione delle forme d’insieme, fino alla riduzione degli elementi a dati geometrici. Originano dai miracoli i guerrieri (il primo è del 1956), composizioni cubiste ad andamento orizzontale, nelle quali il cavallo stremato crolla in avanti mentre il cavaliere è proiettato all’indietro: l’effetto dinamico dello scardinamento delle parti accresce la tensione drammatica dell’opera, che è vibrante nelle superfici graffiate, incise, scheggiate. Una grande Composizione equestre in bronzo, della serie, fu commissionata dalla Municipalità dell’Aja come colossale monumento agli orrori della guerra e fu eretta nel 1959. Il M. incise alla base: «Si costruì, si distrusse e un canto desolato restò sul mondo».
Gli anni Sessanta videro il M. estremamente attivo sul piano espositivo: si ricordano la prima grande antologica, tenutasi nel 1962 al Kunsthaus di Zurigo, la personale di pittura alla galleria Toninelli di Milano l’anno seguente, e la presentazione di sculture mariniane da parte di importanti musei europei nell’ambito della sezione «Arte d’oggi nei musei», curata da G.C. Argan nell’ambito della Biennale veneziana del 1964.
Nel 1966 venne omaggiato con una esauriente retrospettiva (Roma, Palazzo Venezia), curata da G. Carandente, riassuntiva di tutta l’opera; un anno più tardi la città di Firenze lo decorò con la medaglia d’oro.
Come artista il M. non si risparmiò: per tutti gli anni Sessanta continuò a scolpire privilegiando la pietra, dipinse, produsse lavori di grafica apprezzati e premiati. Data al 1972 l’ultima scultura originale, Idea per un miracolo (Firenze, Museo Marino Marini) poi i primi sintomi della malattia lo indussero a desistere. Volle però, quello stesso anno, esporre a Milano – città che gli conferì la cittadinanza onoraria – la galleria di ritratti realizzati lungo un’esistenza, riconoscendo così a questo aspetto criticamente sottovalutato della sua arte, piena dignità. Sempre nel 1972 Paolo Grassi, sovrintendente alla Scala, lo incaricò di realizzare le scene e i costumi per la Sagra della Primavera di I. Strawinsky, che andò in scena in dicembre.
Documentato nei maggiori musei del mondo, l’artista prima della sua morte favorì, con opportune donazioni di opere, la creazione di musei a lui intitolati.
Nel dicembre 1973, infatti, si inaugurò a Milano, nelle sale della Villa reale, il Museo Marino Marini, incentrato sul tema del ritratto. Dopo avere istituito nel 1979 un Centro di documentazione a Pistoia (oggi Fondazione Marino Marini, ex Convento del Tau), nella primavera del 1980 l’artista donò alla città di Firenze un ricco corpus di opere che sono alla base del Museo Marino Marini, inaugurato nel 1988 e ospitato nell’ex chiesa di S. Pancrazio.
Il M. morì a Viareggio il 6 ag. 1980.
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