BANDINI, Mario
Nacque nel 1500 da un Sallustio di Bandino, originario di Massa in Maremma, ove la famiglia possedeva vaste proprietà terriere (Pian di Mucini, Brenna, Poggio Bindo) e aveva conseguito, attraverso l'industria mineraria, ricchezza e potenza. Più cospicua ancora la famiglia della madre, una Montanina Piccolomini-Todeschini di Sarteano, il cui fratello Giovanni era arcivescovo di Siena e il padre, Andrea, era figlio di una sorella di Pio II e fratello di Pio III.
I Bandini appartenevano alla fazione o "monte" del Popolo, di tradizione ghibellina e filoimperiale, ed erano stati sempre implacabili avversari della tirannide di Pandolfo Petrucci favorita dalla fazione rivale, tendenzialmente guelfa, dei Nove. Quando nel 1518 il B. entrò nel supremo magistrato comunale senese, era al potere il mediocre successore di Pandolfo, il cardinal Raffaello, ma soltanto nel 1524 il B., cancelliere di Balìa, si gettò nel vivo delle lotte intestine della città prendendo personalmente parte alla violenta insurrezione in seguito alla quale venne abbattuto e cacciato da Siena l'ultimo figlio di Pandolfo, Fabio Petrucci. Una settimana dopo il nuovo reggimento lo íncaricava, in seno a una commissione di altri sette membri, a sopraintendere alla guardia della città la cui situazione si manteneva precaria.
Il 18 genn. 1525 un fuoruscito senese, Alessandro Bichi, partigiano dei Nove, colla protezione di Clemente VII e dei Francesi, rientrava in Siena e vi instaurava un potere personale. Quel giorno stesso il B., con altri della sua fazione, partì per Milano ad invocare soccorsi dal viceré di Napoli, che era in Lombardia al comando dell'esercito imperiale. Ritornato di lì a poco, raccolto il 15 marzo un gruppo di cospiratori in casa propria, pronunziò un infiammato discorso per incitarli ad uccidere il tiranno. Questi fu pugnalato il 6 aprile e tre giorni dopo il B. fu incluso in qualità di "aggiunto" tra i membri del nuovo governo denominati conservatori della libertà. Il loro compito era tutt'altro che facile: non solo dovevano affrontare l'ostilità di Clemente VII, che incoraggiava i noveschi fuorusciti e bloccava il traffico sulla via Romana, ma addirittura opporsi agli Imperiali, che tramite l'ambasciatore a Roma, duca di Sessa, imponevano perentoriamente la amnistia e il rimpatrio dei noveschi. A scongiurare tale pericolo il B. e Carlo Massaini furono inviati il 16 dicembre a Milano presso il marchese del Vasto, che diede benevole assicurazioni; il che non impedì a Clemente VII, forte della rinnovata alleanza con Francesco I, di aggredire Siena con un grosso esercito di Fiorentini, mentre faceva occupare Talamone e Orbetello. La guerra si risolse il 26 luglio dell'anno seguente con la schiacciante vittoria dei Senesi presso porta Camullìa, vittoria cui validamente contribuì il B. guidando all'assalto una compagnia di Lucignanesi. Il suo prestigio personale e di conseguenza quello della famiglia venne notevolmente accresciuto sia dai titoli di conte palatino e di "cavaliere aurato" conferitigli da Carlo V, sia dall'acquisto della Marsiliana, confiscata ai figli ribelli di Pandolfo Petrucci, sia, infine, il 7 apr. 1529, dalla dignità di arcivescovo di Siena conseguita da suo fratello Francesco, già da qualche tempo vescovo coadiutore nella sua città.
Nel 1527 il B. era podestà di Massa Marittima e diede notevole impulso a riattivare le industrie minerarie della zona. Nello stesso anno, e precisamente nel primo anniversario della vittoria di Camullìa, con il fratello organizzò l'ultima e più feroce repressione degli elementi noveschi, che di fatto non furono più in grado di opporre una valida resistenza alla parte popolare. Circa le responsabilità dei Bandini in tale circostanza, è significativo il fatto che fra i tre oratori inviati alla corte imperiale per render conto degli avvenimenti figurasse il vescovo in persona. Nell'estate dell'anno seguente il B. fu inviato in Val di Chiana e in Maremma per riconquistare alla Repubblica quei territori sconvolti dalle depredazioni e dalla pestilenza in seguito alla guerra dei Fiorentini e di Clemente VII.
Si trattò, più che altro, di operazioni di rastrellamento contro i razziatori che predavano i raccolti. Il B. recuperò Chiusi e riportò al vassallaggio il conte di Pitigliano, che durante le ostilità si era schierato col papa. Tra luglio e ottobre tali operazioni ebbero termine per accordi raggiunti rispettivamente con Firenze e col pontefice.
Nel gennaio del 1529 il B. era a Bologna, ma il 10 giugno un decreto della Balìa gli ingiungeva di presentarsi entro quindici giorni al cospetto del principe d'Orange e dell'oratore imperiale Lope de Soria in seguito alla morte del capitano spagnolo Unighi, per giustificarsi "casu et successu mortis praedictae". Null'altro si sa di questa vicenda, che non dovette tuttavia aver seguito, dato che nel corso dell'estate il B. fu inviato come ambasciatore a Napoli presso il duca d'Amalfi, per offrirgli la nomina a capitano generale delle armi della Repubblica. La carica fu accettata e il B. si unì al seguito del duca che, dopo un avventuroso viaggio, giunse a Siena il 4 agosto.
Le armi imperiali si accingevano intanto a stringer d'assedio Firenze per restaurare la signoria medicea. Firenze aveva tentato di mantenere buoni rapporti con la vicina Repubblica, ma l'avversione tradizionale dei Senesi, il miraggio di recuperare Montepulciano e la stretta osservanza della fedeltà all'Impero mantenuta dal governo popolare resero impossibile ogni intesa: l'Orange ottenne dai Senesi artiglierie, vettovaglie e perfino un contingente di truppe al comando del duca d'Amalfi, assecondato in questo dal personale intervento del B., che il 13 novembre fu destinato "ad civitatem Arretii in subsidio dictae civitatis". Mentre assolveva con particolare impegno a quest'opera di intermediario degli Imperiali, egli non trascurava di tener d'occhio le mosse dei fuorusciti senesi, che a Bologna cercavano di ottenere dai ministri e dall'imperatore stesso l'assenso per il loro rimpatrio. La politica di collaborazione con gli Imperiali si rivelò un completo fallimento: Siena non ottenne Montepulciano, dovette ospitare don Ferrante Gonzaga, riammettere i fuorusciti noveschi in patria e addirittura consentir loro di partecipare al governo, infine licenziare il duca d'Amalfi, oriundo senese e ben visto dai popolari, e sostituirlo con un agente spagnolo di fiducia imperiale, Lope de Soria, appoggiato da quattrocento fanti spagnoli. In seno alla fazione popolare scoppiarono allora malumori che degenerarono in violenze contro i noveschi. Il 15 genn. 1531 Ferrante Gonzaga credette di esercitare una salutare intimidazione facendo arrestare tre capi dei popolari recatisi da lui a Cuna in deputazione: il B., Achille Salvi e Sozzino Saracini. Il B. riuscì tuttavia a evadere e a rientrare a Siena, ove orientò la parte popolare su posizioni di assoluta intransigenza tanto da indurre l'imperatore a un atteggiamento più cauto: don Ferrante e Lope de Soria vennero richiamati e fu inviato a Siena il marchese del Vasto, che acconsentì a far tornare con una piccola guarnigione il duca d'Amalfi.
Fra il 1532 e il 1533 il B. era a Massa, forse per curare interessi privati, sebbene la Balìa non mancasse di rivolgersi a lui per consigli e informazioni. Di nuovo a Siena nel 1535 interpose con esito positivo i suoi uffici per indurre la fazione del popolo minuto detta dei "Bardotti" a rinunciare a una progettata agitazione che si sarebbe risolta nella violenza. Nel gennaio del 1536 fu inviato come oratore a Napoli, presso Carlo V, e a Roma, dove il B. pronunziò una solenne orazione in lingua latina dinanzi a Paolo III, nel corso della quale trovò modo di sottolineare la propria parentela con la famiglia Farnese "quod milii gloriari licet"). Il pontefice lo elogiò più volte e il 1° maggio di quello anno lo assunse al suo servizio nominandolo capitano di cinquanta cavalieri, prima di stanza a Roma, poi, nei tre anni seguenti (1537-39), in Bologna a presidio di quella città.
Gli interessi cittadini non tardarono tuttavia a ricondurlo nel vivo delle lotte intestine della Repubblica, insidiata dall'esterno dalle mire nepotistiche di Paolo III e dalle ambizioni di Cosimo I e non validamente tutelata all'interno dal duca d'Amalfi, dominato dagli intrighi dei Salvi di parte popolare. La fazione rivale, che faceva capo all'arcivescovo e al B., tentò nel 1539 un colpo di mano che non dette l'esito sperato. Solo due anni dopo l'imprudenza dei Salvi (che si erano troppo compromessi con la Francia) offrì il destro ai fratelli Bandini di aver finalmente ragione degli avversari. Il 9 sett. 1541 essi furono ricevuti in Lucca da Carlo V e videro accolto un loro atto di accusa in seguito al quale quattro dei Salvi venivano confinati e il duca d'Amalfi sostituito da elementi spagnoli: Antonio Cisneros prima e poi, dal luglio 1543, don Juan de Luna. Quando quest'ultimo fu estromesso in seguito alla sommossa popolare che provocò l'ennesima esclusione dei noveschi dal governo (1546), il B. venne eletto nella nuova Balìa, ma poco si trattenne in città, come mostrano le sue lettere da Bologna e da Roma.
Da un unico documento - la sua lapide mortuaria in Montalcino - sembra che nei mesi tra luglio e ottobre (in cui la sua presenza in Italia non appare documentabile) egli accompagnasse in Germania le truppe di Paolo III, che si era alleato con Carlo V, Venezia e il duca di Baviera contro la lega smalcaldica. Ad altro non sembra poter alludere la qualifica che in tale lapide si attribuisce al B. dì "praefectus equitum pedituinque Pauli III, Caroli V, Venetorum, Bavarique ducis".
Nell'ottobre del 1546 egli fu nominato ambasciatore alla corte imperiale presso la quale si fermò oltre tre mesi in una faticosa quanto inutile missione: il tentativo di persuadere il ministro Granvelle e Carlo V a recedere dal loro proposito, sempre ribadito dopo l'ultimo colpo di stato, di deferire la soluzione dei problemi senesi all'arbitrio di don Ferrante Gonzaga, che esigeva si accogliesse in città un comandante spagnolo con una guardia di cinquecento fanti. La Repubblica non tenne conto delle ingiunzioni imperiali fino a che Carlo V fu duramente impegnato nella lotta religiosa in Germania; dopo si trovò tuttavia a dover subire il duro governo di don Diego de Mendoza per liberarsi dal quale fu costretta a ricorrere alla rivolta e all'alleanza francese. Di qui la guerra del 1553-1555, che provocò la caduta della Repubblica senese.
Nel 1548, quando, in seguito alla riforma del governo imposta dal Mendoza, fu creata la famosa Balìa dei Quaranta, il B. era stato dai popolari chiamato a farne parte, ma nei quattro anni in cui essa esercitò le sue funzioni egli non partecipò mai ai lavori, soggiornando per lo più a Massa e a Roma. Invitato a tornare (nel '49 e nel '51), aveva addotto presso le autorità motivi di salute per esimersi, ma non era stato sostituito, né, come è stato sostenuto, esiliato. Sembra anche (nonostante la testimonianza dei cronisti Bardi e Tommasi) che egli non abbia avuto parte nella congiura ordita contro gli Spagnoli di cui fu direttamente accusato il fratello Francesco. Dubbia risulta anche l'affermazione del Romier secondo cui il B. avrebbe partecipato al convegno di Chioggia nel quale i cospiratori senesi sollecitarono l'intervento francese. È certo d'altro canto che egli non si trovava a Siena neppure il giorno della rivolta, dal momento che la Balìa, il 28 luglio, due giorni dopo la sollevazione, gli rivolgeva un invito a ritornare per "le occorrenze della città". Era invece a Siena sicuramente il 3 agosto, perché il suo nome è tra quelli dei venticinque membri della Balla dei Quaranta non ancora esautorata che firmarono l'atto di resa del presidio ispano-mediceo.
Subito dopo la cacciata degli Spagnoli fece parte con Francesco - anch'egli tornato a Siena dopo l'insurrezione - della commissione incaricata di riformare il governo. Secondo una fonte medicea raccolta dal Romier (Babbi) i due dovettero pensare in un primo momento a una sorta di protettorato sulla città liberata da affidare al duca Ottavio Farnese (forse per diminuire la parte dovuta all'intervento francese e per non rompere in modo troppo netto con la politica imperiale), ma la presenza militare dei Francesi e la contraria volontà di Giulio III fecero fallire il piano.
Tra la fine dei 1552 e i primi mesi del1553 il B. fu commissario governativo a Massa che doveva esser posta in stato di difesa, ma, nonostante i propositi manifestati in lettere alla Balìa ("voglio, con l'aiuto di N. S. Dio, trovarmi dove sarà il pericolo e, così infermo come sono, questa guerra vederla infaccia e non in lettere"), fu giudicato "tepido e pigro" nel provvedere alla difesa tanto da essere richiamato e sostituito. Nel settembre del 1554, movendo da Montalcino, forzò il blocco di Siena per portare i viveri alla città assediata e sostenere in consiglio la necessità che il comitato degli Otto di guerra dipendesse direttamente dal comando francese. Egli stesso l'8 ottobre venne eletto in tale comitato che si distinse per singolare energia in tutta l'ultima fase dell'assedio. Nell'aprile dei 1555 fu nominato capitano del popolo; il giorno della resa, il 21 aprile, nonostante le assicurazioni del comandante mediceo, marchese di Marignano, che si prodigò per indurlo a restare in città, prese la via dell'esilio riparando a Montalcino dove, sotto la protezione dei Francesi, si decise di continuare la resistenza. Non avendo ottemperato agli inviti di ritornare in città entro un mese, il 22 maggio fu dichiarato ribelle dall'autorità medicea e condannato alla confisca dei beni.
Primo capitano del popolo della Repubblica ritirata a Montalcino, contribuì con le proprie sostanze alla prosecuzione della lotta, come mostrano i registri del governo di Montalcino che documentano gli impegni di restituirgli il denaro impiegato nell'impresa. Nel dicembre del 1556 fu eletto, per il semestre gennaio-giugno, vicario a Serre di Rapolano; il 28 febbr. 1557, alla venuta dell'esercito del duca di Guisa in Italia, fu con altri tre colleghi, membro di un comitato per gli affari di guerra. Il 25 genn. 1558 cedette il suo alloggio di Montalcino al nuovo luogotenente di Francia don Francesco d'Este. Morì di febbre il 13 giugno di quell'anno e venne sepolto nella chiesa di S. Francesco.
Nel 1524 aveva sposato Eufrasia degli Agazzari, forse identificabile con quella Eufrasia Bandini che l'Ugurgieri ricorda come poetessa di notevole fama presso i contemporanei.
Opere: Orazione funebre in onore di Mons. G. Piccolomini, vescovo di Pienza (cit. in De Angelis); Marii Bandinei aequitis illustris Senensis oratio ante Paulum III habita pro suae reipublicae obedientia, a stampa, in Bibl. Apostolica Vaticana, R. I, IV (1708). (18), ristampata da D. Bandini, in Bullett. senese di storia patria,n. s., V (1934), pp. 45-50; Orazione tenuta di fronte ai congiurati il 15 marzo 1525, pubbl. da G. A. Pecci, in Memorie storico-critiche della città di Siena, II, pp. 154-161.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Siena: lettere di M. B. al Concistoro, 2101: 11 maggio 1549; 2102: 3 ag. 1550; 2103: 2 sctt. 1550; 2104, 46: nov. 1552; 2107, 80: 9 nov. 1552. Carteggio di Balìa, lettere autografe di M. B., e alcune di altri che parlano di lui, alla Balìa dal 28 maggio 1528 al 2 marzo 1552 (s.s.): 574, 75; 576, 49, 51, 76, 84; 577, 4, 16, 33, 34, 44, 49, 56, 72, 76; 588, 38; 594, 5; 596, 34; 597, 2, 13, 57, 83, 88, 89; 598, 56; 599, 24, 29; 601, 60; 609, 37, 44, 45; 611, 78; 622, 37; 627, 42; 638, 21, 24, 26; 639, 12; 643, 89; 644, 15, 19, 21, 32, 39; 645, 25, 69; 647, 42; 648, 22; 650, 64; 652, 67, 72, 78; 654, 4, 9, 39; 662, 34; 663, 16; 664, 42, 53, 62; 675, 30, 78, 99; 676, 39, 66, 86; 677, 30, 33, 41, 66; 678, 19; 680, 46; 681, 38; 685, 79; 691, 47, 77; 692, 37, 98; 69s, 52, 53, 54, 57, 63, 65, 71, 95; 696, 23, 41, 52, 54; 697, 5, 28, 59, 60; 698, 2, 72; 704, 27; 707, 32, 44, 49, 68, 82; 710, 7, 57; 717, 12, 29; 718, 28, 88; 724, 68; 736, 32; 738, 48, 81; 742, 34, 55; 744, 6; 745, 4, 54, 80, 84; 746, 32; 747, 44, 88; 748, 26, 55; Deliber. di Balìa,98, 18 sett., 13 nov. 1529 a c. 68; 100, c. 166; Governo della difesa della libertà di Siena in Montalcino, delib. pubbl. dal 21 nov. 1556 al 22 apr. 1557, ins. 3, c. 119 e ins. 4, cc. 24, 118; dal gennaio 1557 (s. s.) al 1° giugno 1558, cc. 19, 50, 95, 114; Resa della fortezza il 3 ag. 1552, ms. segnato D. 62 copia del sec. XVIII effettuata da Galgano Bichi, a c. 7; A. Bardi, Seconda parte delle Storie senesi, ms. D. 50 a cc. 48v, 239r, 243v, 257; Repertorio de, battezzati in Siena nel XVI secolo, ms.; Sestigiani, Compendio Istorico de' Senesi nobili per nascita illustri per azioni..., ms.; G. Tommasi, Seconda deca delle Storie di Siena (1547-1553), apografo effettuato da T. Mocenni, II 621; III libro, VIII riporta il discorso tenuto da M. B. di fronte ai congiurati, cc. 472-82; parla inoltre di M. B. a c. 550 e passim nei libri IX e X; G. Nini, I successi d'Italia, ms. D. 20, l. III, cc. 17 e 19. Biblioteca Comunale di Siena: Tizio Sigismondo, Storie di Siena fino al 1528, ms. B. III. 6. Cfr. inoltre O. Malavolti, Historie di Siena, Venezia 1599, III, l. VIII, p. 138; I. Ugurgieri, Le Pompe sanesi, Pistoia 1649 (al titolo relativo ai letterati e poeti); G. A. Pecci, Memorie storico-critiche della città di Siena, Siena 1760, II, pp. 113, 123, 135, 146, 153, 154-161, 163, 177, 223, 233, 238, 246; III, pp. 44, 74, 76, 106, 108, 177, 261; L. De Angelis, Biografie di scrittori senesi, Siena 1824, p. 57; A. Sozzini, Il successo delle rivoluzioni della città di Siena, in Arch. stor. ital., II(1842), pp. 105, 308, 426; B. Varchi, Storia Fiorentina, a cura di G. Milanesi, Firenze 1888, I, p. 252; II, p. 254; L. Petrocchi, Massa Marittima, Firenze 1900, p. 364; Callegari, Il fatto d'armi di Porta Camullìa, in Bullett. senese di storia Patria, XV (1908), pp. 307 ss.; Ch. Courteault, Blaise de Monluc historien, Paris 1908, pp. 322 s.; L. Romier, Les origines des guerres de religion, Paris 1913-14, I, pp. 318, 338; II, p. 416; C. Roth, L'ultima Repubblica Fiorentina, Firenze 1927, pp. 310, 315; N. Bartoli, Le congiure di Siena e la cacciata degli Spagnoli nel 1552, in Bullett. senese di storia patria, n. s., I (1930), p. 452; D. Bandini, Francesco Bandini, Arcivescovo di Siena (1505-1588), ibid., n. s., II (1931), pp. 101, 126; Id., M. B., Capitano del Popolo di Siena, ibid., n. s., V (1934), pp. 28-44; R. Cantagalli, La guerra di Siena (1552-59), Siena 1962, pp. LXIX, LXXIV, 17, 188, 406, 426 ss., 469, 557.