CALDERONI, Mario
Nato il 30 giugno 1879 a Ferrara da Carlo, studiò diritto a Firenze e a Pisa, dove si laureò. Nel 1909 conseguì la docenza in filosofia morale, che esercitò per due anni all'università di Bologna. La sua figura di pensatore è da vedere nel quadro della brevissima stagione del pragmatismo italiano che fiorì nei primi anni del Novecento e che ebbe come figura filosofica centrale quella di Giovanni Vailati. Sulla scia di Vailati, che quando insegnava a Firenze si avvicinò alla rivista fondata dai giovanissimi Papini e Prezzolini, il Leonardo, anche il C. fu in diretto contatto con quel gruppo e collaborò attivamente alla rivista.
Vailati e il C. furono teorici del significato e della metodologia empiristica, e sono stati individuati dalla riflessione storiografica come la sola alternativa valida nella filosofia italiana del '900 allo storicismo del Croce e all'attualismo di Gentile, alternativa che risultò, tuttavia, soccombente. D'altra parte si è messo l'accento sui motivi di differenziazione tra il pragmatismo teoretico di Vailati e del C., che è una teoria del significato degli enunciati, e l'uso irrazionalistico che nel Leonardo, e altrove, fecero sia Papini sia i suoi amici dell'innesto pragmatista sulla originaria matrice che era di derivazione dannunziana e nicciana, o meglio debitrice di quei temi più enfatici e violenti che frettolosamente venivano assimilati dall'opera di Nietzsche. Sono giudizi storicamente esatti, e già presenti nella coscienza di Vailati e del C., che possono essere completati e meglio fondati se si colloca "l'opera del Vailati e del C. entro l'orizzonte di crisi del positivismo, con un tentativo di rinnovamento, diverso così dalla reazione idealistica del Croce, come da quella mistica e magica dei papiniani" (Garin, 1963, pp. 287 s.).
Nel C. in effetti, si vede chiarissima sia la derivazione positivistica che il desiderio di essere filosofo di una rinascita positivista capace di fare a meno, proprio a causa della più sottile coscienza metodologica, della insorgenza metafisica e teologica che ha accompagnato gli ultimi sviluppi del positivismo. Vi è nel C. la convinzione, d'origine conitiana, che la vicenda intellettuale dell'umanità sia un progresso crescente da forme trascendenti prima e metafisiche poi, verso forme di sapere positivo. Il positivismo anzi è un momento decisivo, ma i sogni metafisici che nascono dal sentimento, il quale cerca nella filosofia il luogo per conciliare le proprie contraddittorie passioni o esigenze, hanno nuovamente messo in crisi il sapere positivo, facendo dimenticare che la positività dipende dalla sperimentabilità. Quando ciò sia chiaro, scrive il C., "non è difficile scorgere l'identità fondamentale di questo modo di vedere con quello che ha formato la sottostruttura del positivismo".
Dove con "sottostruttura" s'intende certamente struttura portante. E un altro elemento, più in ombra di altri, pare fondamentale per meglio chiarire storicamente la posizione del C.: vi è certamente un suo debito al metodo dell'economia politica di Vilfredo Pareto, nella quale, ponendo fine alla disputa nell'economia classica sul fondamento del valore, si fa centro sullo studio delle costanti delle scelte come sistema previsionale che consente di organizzare un modello interpretativo dello scambio. È naturale che anche questa esperienza culturale stesse a dimostrare la validità teorica del neoempirismo.
Una più diretta attenzione alle fonti propriamente filosofico-teoriche del C. impone il ricorso al pragmatismo del Peirce, interpretato sempre con grande desiderio di fedeltà ma, per quanto riguarda i contemporanei, messo in relazione anche con i temi convenzionalistici presenti in Mach e soprattutto in Poincaré. Per quanto riguarda poi la tradizione storica il pragmatismo di Peirce viene individuato dal C. come sviluppo di tutto il retroterra empirista inglese da Occam a Hume a Mill, con la stessa chiarezza di prospettiva che circa trent'anni dopo mostrerà Ayer nel suo celebre libro Linguaggio verità e logica che è considerato un po' il manifesto della filosofia analitica.
Fare riferimento a questi nomi e a questi temi significa già indicare l'area teorica che il C. si trovava ad ereditare dal Vailati e poi a sviluppare per conto proprio. Egli, si è detto, veniva dagli studi di giurisprudenza e nella sua tesi di laurea Ipostulati della scienza positiva e il diritto penale (Firenze 1901) cercò di contestare da un punto di vista empiristico, secondo la strada Peirce-Vailati, le conseguenze che la scuola giuridica positiva aveva tratto dalla metafisica deterministica in cui era finito il positivismo sostenendo l'impossibilità di fondare la responsabilità degli atti. Giustamente è stato detto che questa tesi di laurea "contiene in sintesi tutte le premesse di quella che sarà poi la sua filosofia, o meglio la sua metodologia" (Bozzi, p. 293). In effetti il C. sviluppò la teoria del significato e inoltre proseguì, nel campo morale, quella funzione di analista che aveva iniziato nel campo del diritto.
I giuristi della scuola positivistica, sosteneva il C.. in quel suo primo lavoro, erano rimasti prigionieri della nuova forma di metafisica che il positivismo aveva prodotto. Essa aveva il suo punto centrale in un uso indebito della relazione di causalità. Infatti, mentre la scuola classica sostiene la piena responsabilità di chi compie un reato sulla base dell'evidenza del libero arbitrio dell'agente, la scuola positiva rovescia la posizione rievocando una concezione del rapporto causale che conduce a un fatalismo universale il quale deriva da una estensione indebita alla totalità degli eventi della relazione causale che esiste tra elementi omogenei in un campo scientifico. Assoluta libertà e assoluto determinismo si affrontano così in una competizione metafisica che è insolubile dal punto di vista teorico. Al contrario in ogni azione vi è una componente di predeterminazione concreta in cui avviene l'azione. Ciò significa che parlare di libertà relativamente alle condizioni in cui viene compiuta una certa azione significa risalire non a una condizione metafisica, ma ad una elezione volontaria. Per quanto riguarda il riflesso giuridico la volontarietà "era da riservare agli atti che, in accordo con il giudizio comune, sono preceduti e accompagnati da una coscienza intenzionale" (Santucci, p. 223). Che poi è l'unico modo possibile per emettere un giudizio su ogni caso specifico.
Già dunque in questo primo lavoro sono presenti i temi metodologici centrali del suo pensiero, temi che egli verrià precisando, tra l'altro, proprio sulle pagine del Leonardo, dove si trattava di dare l'esatto significato teorico al pragmatismo suo e di Vailati, di contro al pragmatismo del gruppo di Papini. Se Vailati e il C. guardavano a Peirce, gli altri si ispiravano alla "volontà di credere" di James che diventava indifferenza teorica, "disprezzo per le idee generali come essi dicevano, suggestione, avventurismo retorico e individualismo adolescenziale e ipertrofico. I punti essenziali della metodologia pragmatista, che il C. più volte aveva riassunti, possono essere così rievocati: ogni proposizione è un enunciato diprevisione; questo significa che essa indica implicitamente quali esperienze avrannoluogo o potrebbero avere luogo date determinate circostanze. L'elemento temporale fondamentale per la validificazione di ogni proposizione è il futuro. Il tipo di previsione implicito in ogni enunciato può essere diretto o indiretto, e per le previsioni condizionali, si distinguono "varie classi a seconda del genere delle condizioni". Seguendo le concezioni di Pikler, il C. conclude che, quando le esperienze che la proposizione indica come eventi che hanno luogo o potranno avere luogo sono verificate, noi siamo in grado di emettere "giudizi di esistenza". Tutta questa procedura non ha alcuna ragione di essere quando ci si riferisce direttamente a uno stato, a una condizione modificabile e quando l'espressione non pretende di costituire un giudizio.
Se questo però è il solo modo per sottoporre le proposizioni alla regola del vero e del falso, è certamente foriera di possibili confusioni la celebre affermazione pragmatistica secondo cui "il significato di una concezione consiste nelle sue conseguenze pratiche". Se "pratiche" viene inteso come utili, o comunque in qualsiasi altro modo che escluda la considerazione di queste conseguenze entro un campo conoscitivo, allora il pragmatismo declina decisamente verso un utilitarismo, a sua volta indeterminato, dato che la definizione di "utili", data alle conseguenze della concezione, può avvenire solo in un ambito apprezzativo che nel contesto resterebbe completamente in ombra. Al contrario, nella metodologia del C. il significato di una proposizione si decide nella possibilità di controllo delle esperienze la cui aspettativa è "implicitamente contenuta nell'asserzione stessa". Questa è la regola fondamentale che consente di stabilire una linea discriminante tra gli enunciati che hanno un significato in quanto possono essere verificati o falsificati, e gli altri enunciati, che, non potendo presentare questa caratteristica, appaiono privi di significato. Coloro che usano teoricamente questi secondi enunciati credono che essi vertono su fatti: al contrario questi enunciati sono a loro volta fatti, e la logica del vero e del falso si applica a proposizioni non a fatti.
Questa tecnica del significato consente al C. di parlare di essa come di una "pulizia intellettuale" che toglie di mezzo i problemi inesistenti e insolubili mostrando come essi nascano da una trasposizione indebita dell'uso dei termini - definiti in obiettivi campi d'esperienza - secondo modalità extraesperenziali, emotive o sentimentali. Queste dottrine, secondo il C., indicano il perimetro del "pragmatismo buono", mentre la "volontà di credere" di James è da capo una ripresa metafisica. James e Schiller, l'altro pragmatista, dice il C. "non solo non li credo affatto discendenti degenerati dei Peirce… ma non li credo affatto discendenti da lui".
Ci sono tuttavia buone ragioni per chiamare questa metodica del significato "pragmatismo", a costo di qualche confusione: a) perché nella validificazione o falsificazione delle proposizioni vi è sempre un elemento attivo; b) perché ogni proposizione verificata può "fornirci nuove regole per la volontà"; c) infine perché vi è un nuovo tipo di pragmatismo per il quale per dare significato alle proposizioni non è necessario che esse siano ricondotte a fatti elementari secondo l'esperienza sensibile, ma è sufficiente che esse siano provate con esperienze che vengono costruite volontariamente secondo condizioni sperimentali selezionate. È naturale qui il riferimento ai temi metodologici del convenzionalismo. Si può solo osservare che l'accostamento poneva il problema delle tecniche della verificazione all'interno dei vari livelli del linguaggio conoscitivo: dal finguaggio quotidiano a quello delle scienze empiriche. Tema però che è al di là del pragmatismo teorico del Calderoni.
Esordiente filosofo sui temi del diritto, il C. ha lasciato importanti contributi di filosofia morale, tra i quali il più rilevante è certamente il saggio Disarmonie economiche e disarmonie morali (saggio di una estensione della teoria ricardiana della rendita), Firenze 1906. Dal punto di vista della formulazione teorica il C. si trova in una posizione che presenta molte somiglianze con quella del contemporaneo Juvalta. Come Juvalta, infatti, mostra che dal punto di vista teorico o razionale non è possibile prescrivere nulla in morale. I motivi ultimi che sostengono determinate finalità etiche sono da ritrovare in motivazioni pragmatiche o sentimentali che hanno il loro campo nella variabilità del preferenziale. L'argomentazione razionale può invece intervenire: a) per mostrare se, sussunta una certa finalità, gli atti che si ritengono ad essa conseguenti sono compatibili o meno con essa; b) per indicare normativamente i mezzi necessari per la realizzazione del fine. Se non si può giustificare un ideale etico per mezzo di enunciati fattuali, non di meno la giustificazione di un atto morale avviene sempre all'interno di un universo deduttivo: è un argomento che si ritroverà nel celebre libro Il lingugggiodella morale dell'analista inglese Hare. Ci fu, d'altro canto, un rapporto storicamente diretto tra il C. e il "capostipite" degli analisti inglesi della morale, il filosofo Moore. Nel C. si trova infatti la stessa argomentazione che svolge Moore nei suoi Principia ethica (1903) relativa al fatto che il limite teorico dell'utilitarismo morale consiste nel fatto di predicare un'evidenza cognitiva del fatto che l'utilità, o il bene del maggior numero, siano il bene morale per eccellenza. Ciò sarebbe possibile se per utilità s'intendesse la totalità dei fini possibili, ma in tal caso si andrebbe incontro ad un insieme di contraddizioni nella prescrizione delle azioni da compiere. La posizione generale del C. sui temi di filosofia morale è quindi nell'ambito dell'etica emozionale ed analitica.
Un elemento del tutto originale del C. è invece il suo tentativo di ricostituire il funzionamento del mondo morale oggettivo usando il modello marginalistico che nell'economia viene usato per l'intellegibilità delle condizioni dello scambio. Le azioni morali sono quelle che sono utili per un insieme sociale. Da questo insieme nasce per queste azioni utili un apprezzamento più o meno elevato, e in ciò paragonabile al prezzo, secondo l'elevatezza del costo o sacrificio dell'azione medesima. Quanto più utile e quanto più rara è un'azione tanto più l'apprezzamento (prezzo) è elevato. Ma quando queste ragioni per un motivo qualsiasi avessero costi molto bassi e quindi diventassero molto comuni, ecco che l'apprezzamento, come il prezzo tende a calare. è una legge generale di funzionamento della vita morale che ha le sue ingiustizie. Come infatti rispetto al prezzo marginale vi sono produttori o acquirenti che hanno una posizione di. vantaggio, o ricardianamente di "rendita", così vi sono coloro cui costa meno compiere azioni per le quali l'apprezzamento sociale è grande, e persone cui compiere queste stesse azioni costa molto di più senza che perciò possa variare l'apprezzamento oggettivo. Ma questa ingiustizia o, come dice il C., questa "legge dell'indifferenza morale" è implicita nelle generalizzazioni della morale che, d'altro canto, sono l'unico modo perché un organismo prescrittivo possa funzionare. A suo tempo il Croce osservò che al C. di questo scritto sfuggiva ciò che vi è di specifico nell'azione morale, ma è osservazione che l'esperienza filosofica successiva ha mostrato essere sempre condizionata da un personafismo metafisico che è una di quelle entità essenziali che non resistono alla prova della metodologia neoempirista. Infatti è proprio da questo studio, che verte sul meccanismo di funzionamento sociale della morale, che oggi si può misurare, oltre che per i contributi teorici generali, l'importanza della ricerca filosofica del Calderoni.
Il C. morì a Imola il 14 dic. 1914.
I suoi scritti vennero raccolti solo nel 1924 (Scritti, a cura di G. Papini, Firenze 1924).
Bibl.: P. M. Arcari, Le elaborazioni della dottrina politica nazionale, Firenze 1934-39, passim;A.Hermet, La ventura delle riviste, Firenze 1941, pp. 38, 85, 88, 99 ss., 418; G. Papini, Gli amici di…, Firenze 1941, pp. 285 ss.; L. Pedrazzi, Il pragmatismo in Italia (1903-11), in Il Mulino, II(1952), pp. 495-520; P. Bozzi, Il pragmatismo italiano: M. C., in Rivista critica di storia della filosofia, XII(1957), pp. 293-322; D. Frigessi, Introduzione a La cultura italiana attraverso le riviste, I, Torino 1960, ad Indicem;G. Prezzolini, Il tempo della Voce, Milano-Firenze 1960, ad Ind.;E. Garin, G. Vailati e la cultura italiana del suo tempo, in Riv. crit. di storia della fil., XVIII (1963), pp. 287 ss.; A. Santucci, Il pragmatismo in Italia, Bologna 1963, pp. 216-262; J. F. Renauld, Quelques observations sur les idées morales de Giovanni Vailati e M. C., in Rivista critica di storia della filosofia, XVIII(1963), pp. 429-432; E. Garin, Storia della filosofia italiana, III, Torino 1966, pp. 1305-1307.