CAMERINI, Mario
Nacque a Roma il 6 febbr. 1895 da Camillo, noto socialista, avvocato, originario dell'Aquila, e da Laura Genina, di famiglia altoborghese, imparentata con P. S. Mancini.
Il C. frequentó il ginnasio liceo "Tasso" e, già dagli anni della scuola, insieme con un compagno scrisse un soggetto giallo per il cinema, Le mani ignote, venduto alla Cines. Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza, dette alcuni esami ma non si laureò mai; allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò come ufficiale nel corpo dei bersaglieri e fu anche prigioniero in Austria. Rientrato a Roma alla fine del conflitto, fu coautore con il fratello Augusto e. con il cugino regista Augusto Genina di varie sceneggiature per la Cines e aiuto regista di quest'ultimo per parecchie pellicole.
Il primo film interamente realizzato dal C. - anche se firmato ancora da Genina che ne era il produttore - fu Jolly o Jollyclown da circo, del 1923, da un soggetto di Orio Vergani, interpretato fra gli altri, da Diomira Jacbbini, con cui il C. ebbe una lunga relazione. La cinematografia italiana, dopo i trionfi anteguerra, non aveva saputo modificarsi e modernizzarsi e, riproponendo i vecchi moduli roboanti e melodrammatici che le avevano dato il successo ai tempi di Cabiria, andava incontro ad una lunga crisi economica oltreché tecnologica e di idee; in questa congiuntura il C. riuscì ad inserirsi per qualche tempo in una delle poche iniziative vitali, la casa di produzione e distribuzione Pittaluga-Fert, di Stefano Pittaluga, per cui girò una serie di film (La casa dei pulcini del 1924; Voglio tradire mio marito; Saetta principe per un giorno; Maciste contro lo sceicco del 1925), i quali, senza distaccarsi dai moduli allora imperanti, preludono in qualche caso ai toni che saranno poi propri al Camerini. Con l'accentuarsi della crisi, tra il '25 e il '28, il C. dovette limitarsi a curare il taglio delle pellicole straniere per l'inserimento delle didascalie.
Nel 1928, per una piccola società - la Autori direttori italiani associati, ADIA -, formata dal C. e dai suoi amici Aldo De Benedetti e Luciano Doria, firmò un film di ambiente coloniale, Kiff Tebbi, girato quasi interamente in Africa, a Tripoli e in altre località della Cirenaica. L'anno seguente, alla vigilia dell'avvento del sonoro, apparve il primo film importante, Rotaie, che già contiene molti elementi caratteristici della sua poetica matura.
Si tratta di una storia semplice - da un soggetto di Corrado D'Errico - di cui è protagonista una coppia di giovani sposi, poveri e disperati: i due tentano, senza successo, di suicidarsi, quindi, dopo un momento di fortuna al gioco subito svanito, decidono di dar fede alla possibilità loro offerta da un modesto lavoro. Tutto è detto attraverso le immagini, le espressioni dei personaggi, gli oggetti, i piccoli dettagli, con il supporto di sole cinque didascalie, e vi appaiono già definite alcune costanti dell'opera del C., il suo interesse per la piccola gente, la cura dei particolari, l'utilizzazione di attori molto giovani e all'inizio della carriera (in questo caso Rodolfo Gucci, attore con il nome di Maurizio D'Ancora), il ruolo determinante attribuito alla fotografia e al montaggio. Il film valse a lanciare indiscutibilmente il nome del C. ed ottenne un successo di pubblico controverso ma un notevolissimo consenso da parte dei critici che per parecchio tempo lo considerarono il suo migliore anche in rapporto alla produzione successiva e più nota.
Nel 1930 l'avvento dei sonoro condusse il C. in Francia dove, per impratichirsi delle nuove tecniche, girò negli studi di Joiriville l'edizione italiana di una produzione Paramount (Dangerous Paradise di W. Wellman) dal romanzo Victory di J. Conrad, La riva dei bruti; fu in questa circostanza che il C. concepì l'idea, poi comunemente applicata, di utilizzare due diverse pellicole in luogo di una sola per la fotografia e il sonoro, sincronizzando in seguito il sonoro sulle immagini; questo procedimento permetteva di tagliare liberamente la pellicola fotografica, restituendo al regista, in fase di montaggio, piena libertà di imporre il ritmo desiderato all'andamento del film, come succedeva nel muto.
Rientrato in Italia, nel luglio 1931 il C. girò per la Cines un film tratto da un testo teatrale di Arnaldo Fraccaroli, Figaro e la sua gran giornata, storia di una compagnia di guitti che deve rappresentare un'opera in una piccola città di provincia: ai toni seri e sentimentalmente impegnati di Rotaie si sostituiscono il clima di commedia, l'ironico clin d'oeil che sono l'altro elemento costitutivo della poetica cameriniana. Sul set di Figaro incontrò Mario Soldati, che vi svolgeva il ruolo di ciacchista, e Ivo Perilli, allora scenografo e costumista, destinati ad essere collaboratori, come aiutoregisti e sceneggiatori, nei suoi film più importanti. Dopo un film minore con Armando Falconi e Diomira Jacobini, L'ultima avventura, nel 1932 il C. girò Gli uomini che mascalzoni, la sua opera più famosa e certamente una delle sue migliori.
Il soggetto fu proposto da Aldo De Benedetti e sceneggiato da questo e da Soldati oltreché dal C., il quale figura sempre nelle sceneggiature di tutti i suoi film. La produzione fu curata dalla Cines, proprio in quel periodo passata alla direzione di Emilio Cecchi; nella parte del protagonista - un giovane autista che corteggia una commessina della Fiera di Milano, per lei perde il suo posto e, dopo qualche vicissitudine, la conquista - il C. volle ed impose Vittorio De Sica, la commessa fu Lya Franca. Per il film - girato quasi tutto fuori degli studi, in esterni alla Fiera, sui tram di Milano, sul lago di Como, utilizzando una macchina da ripresa a mano - C. A. Bixio compose un motivo particolarmente felice e fortunato, Parlami d'amore Mariù; De Sica, allora giovane attore di teatro, vi incontrò il "suo" personaggio, il personaggio, tipicamente italiano, che con qualche variante ripropose per tutta la sua carriera cinematografica anteguerra, del giovanotto vanitoso, farfallone, un po' presuntuoso, ma fondamentalmente buono, capace infine di apprezzare e accettare riconoscente l'amore di una brava ragazza; il C. seppe raccontare con garbo, eleganza e ironica ma sentita partecipazione la storiella, dandole un ritmo sostenuto che corrispondeva all'atmosfera operosa e vivace dell'ambiente milanese. Ne venne fuori un piccolo capolavoro nel genere della commedia sentimentale in un'accezione particolare e tipica del C., il quale, nelle opere migliori del periodo successivo (Darò un milione, 1935, Il signor Max, 1937), riuscì a replicare nel giusto dosaggio le componenti di questa semplice ma non facile alchimia.
Si aprì allora per il C., riconosciuto, insieme con Blasetti, come uno dei nomi significativi del nostro cinema, una fase particolarmente fortunata e operosa. Nel 1933 girò (sempre per la Cines di Cecchi, come tutti i film di questa annata), T'amerà sempre, in cui risalta la sua vena più sentimentale e intimista, con l'esordiente Elsa De Giorgi; Giallo, una trama brillante tinta di poliziesco, che Soldati trasse liberamente da E. Wallace, dove lavorò per la prima volta con lui Assia Noris, da allora, insieme con De Sica, interprete favorita dei regista e sua nuova compagna nella vita (la relazione portò, nel 1940, al matrimonio); e il meno riuscito Cento di questi giorni, di cui il C. curò in realtà la supervisione, lasciando la regia vera e propria al fratello Augusto. Nel 1934 filmò due soggetti tratti da celebri testi letterari, Come le foglie, dal dramma di Giacosa, con Besozzi e la Miranda, e Il cappello a tre punte, da El sombrero de tres picos di Pedro de Alarçon. Poiché l'idea di quest'ultimo lavoro nacque in parallelo all'intenzione di utilizzare per la prima volta in cinema i due De Filippo, Eduardo e Peppino, l'ambientazione fu trasferita dalla Spagna ad una Napoli seicentesca, abitata dall'ombra di Masaniello; la prima stesura risultò un ottimo grottesco, che rivelava in qualche momento una larvata satira sul potere; ma proprio questo, e in particolare la descrizione di una sommossa popolare provocata dalle tasse nell'incipit, visionata a villa Torlonia irritò Mussolini in persona; il regista corse qualche rischio e fu costretto ad una serie di tagli che, eliminando ogni accenno politico, fece prevalere il tono boccaccesco nuocendo, almeno in parte, al buon esito dei film. Queste due pellicole segnarono l'inizio della collaborazione, come sceneggiatore, di Ercole Patti, che si inserì così nel piccolo gruppo di intellettuali collaboratori e spesso amici personali dei Camerini. Fra questi compare l'anno seguente, il 1935, Cesare Zavattini ai suoi esordi, con il soggetto e la sceneggiatura di una delle migliori opere del C., Darò un milione (produzione Rizzoli), primo premio al Festival di Venezia del '36.
La storia, l'ambientazione risentono del carattere estroso dell'invenzione zavattiniana: un miliardario (De Sica) per stanchezza e disgusto della sua ricchezza si trasforma in un barbone e finisce per trovare disinteresse e amore nella ragazza di un circo (Assia Noris) in cui si è rifugiato. Il correttivo Zavattini giovò all'opera che risultò una deliziosa commedia meno sentimentale, più francamente umoristica rispetto alla vena abituale del regista, tuttavia la collaborazione fra i due fu tutt'altro che facile perché Zavattini tendeva a una comicità quasi clownesca, alla Charlot, fondamentalmente estranea al Camerini.
Nel '36 uscirono la trasposizione dei meno pirandelliano e il più intimista dei drammi di Pirandello Ma non è una cosa seria (con De Sica e la Cegani) e, unica opera di regime del C., Il grande appello. I suoi rapporti con il fascismo improntati ad una apparente tolleranza che nascondeva una profonda incompatibilità, furono sempre molto tiepidi - il C. del resto non prese mai la tessera del partito - e tali rimasero anche dopo questo episodio. Il film, con Pilotto e Roberto Villa, sceneggiatura di Patti e Soldati, colonialista nell'ambientazione e nelle intenzioni, è in realtà molto sobrio, quasi un documentario, e piacque poco alle autorità che lo considerarono allora troppo blando come film di propaganda.
Nel '37 uscì Il signor Max, con De Sica, la Noris, Melnati e Rubi Dalma, tutti perfettamente in parte.
Il soggetto figura di Amleto Palermi ma l'idea di base, la geometria della sceneggiatura - strutturata sul doppio ruolo del protagonista, un modesto giornalaio con la passione dei viaggi e della mondanità che, in particolari circostanze, si finge un ricco sfaccendato - è di Soldati. Il film è un capolavoro di ritmo e una miniera di trovate, disegnando figure e figurine nella contrapposizione dei due ambienti frequentati dal giornalaio Gianni, alias il signor Max, presentata senza alcun moralismo, per il puro gusto di raccontare divertendosi.
Il signor Max (premiato l'anno stesso a Venezia), segna un vertice della produzione cameriniana, ma anche uno spartiacque; gli anni che seguono sono gli anni del successo pieno: il C. è considerato in Italia un piccolo maestro e circondato dall'apprezzamento generale, ma i risultati del Periodo precedente non saranno più raggiunti. Nella produzione del triennio '38-40 il C. cercò, più o meno consapevolmente, di dare una svolta alla sua poetica e di irrobustire la sua vena: il delicato equilibrio delle opere migliori non costituiva genere - nonostante le imitazioni dei molti epigoni -, né poteva ripetersi e riproporsi all'infinito. Tentò dunque strade diverse, mentre al suo fianco, allontanatosi Soldati, compare come aiuto e sceneggiatore, Renato Castellani. Abbiamo così film in cui il C. si rifà più decisamente alla sophisticated comedy alla Lubitsch (Batticuore, del 1938, con Leo Longanesi fra gli sceneggiatori, e Assia Noris, John Lodge, Luigi Almirante), o alla pochade francese (Il documento, del '39, da un testo di G. Zorzi, la collaborazione di Mario Pannunzio per la sceneggiatura, e due mostri sacri del teatro nel cast, Ruggero Ruggeri e Armando Falconi); seguirono un ritorno ai suoi motivi preferiti con Grandi magazzini (1939), di nuovo con De Sica e la Noris, affiancati dagli esordienti Andrea Checchi e Luisella Beghi, provenienti dal Centro sperimentale di cinematografia; un "telefono bianco" Centomila dollari (del 1940, con Nazzari e la Noris, e Zampa fra gli sceneggiatori); la tenera favola di una Cenerentola risorgimentale con Una romantica avventura (1940), tratto da un racconto di Th. Hardy, tutto condotto sul ritmo sognante di un valzer di A. Cicognini, con Cervi, la Noris, Leonardo Cortese; il grosso impegno produttivo de I promessi sposi, per cui furono convocati come sceneggiatori e consulenti, accanto al C. e a Perilli, Gabriele Baldini, Ojetti e Bacchelli. Furono, questi citati, tutti film di buon livello, alcuni di ottima riuscita, come Batticuore, Grandi magazzini, Una romantica avventura, in cui però si notano qualche incertezza, qualche momento di stanchezza, ed è già andata perduta la perfetta corrispondenza dello stile alla materia trattata.
Nel dopoguerra il C. - il quale, in seno alla nuova Unione lavoratori dello spettacolo, entrò anche a far parte della Commissione di epurazione per la categoria registi, aiutoregisti, sceneggiatori e autori del cinema - tentò con Due lettere anonime (del 1945, con Checchi e Clara Calamai) e Molti sogni per le strade (del 1948, con la Magnani e Massimo Girotti), di inserirsi a suo modo nel nuovo clima resistenziale e neorealista, né la sua carriera si concluse nei primi anni Quaranta; dette ancora notevoli prove di talento e di mestiere in film d'impegno stilistico quali Il brigante Musolino (1950, con Nazzari e la Mangano); in grosse imprese produttive come l'Ulisse (1954, liberamente tratto dall'Odissea, con nomi di rilievo del cinema americano come Kirk Douglas e Anthony Quinn); in storie delicate come Suor Letizia (1956, con la Magnani) e gradevoli e divertenti commedie come Primo amore (1958), Crimen (1960, con Gassmann, Sordi, Manfredi, la Valeri, la Mangano), Delitto quasi perfetto (1966, un giallo rosa con Philip Leroy). Ancora alla sua scuola si maturò un regista raffinato come Franco Brusati, suo aiuto e sceneggiatore dal '50 al '54, e anche nei lavori meno significativi e più di routine si mostrò sempre abile ed accurato artigiano. Tuttavia i colori delicati, i mezzi toni della commedia sentimentale che costituivano i tratti distintivi del suo stile non poterono trovare vero spazio in una cinematografia in cui si erano affermati il forte dramma neorealista e la satira, talvolta aspra, più spesso greve e volgare della "commedia all'italiana".
L'ultimo film della sua carriera, il cinquantesimo, Don Camillo e i giovani d'oggi, è del 1972, quando l'ormai anziano regista già da un anno aveva lasciato Roma e si era trasferito a Gardone Riviera con la seconda moglie Tulli Hruska, sposata nel 1946 (aveva divorziato dalla Noris nel '43), da cui ebbe due figlie, Laura e Anna Maria.
Il C. morì a Gardone Riviera il 4 febbraio 1981.
Regista sicuro, rapido (si vantava di aver sempre rispettato i tempi stabiliti con la produzione e di non superare in media le dieci settimane di lavorazione per un film), l'aisance, l'apparente naturalezza venivano al C. da un compiuto professionismo e da una perfetta conoscenza di tutti gli aspetti, tecnici e non, della vita del set. Partecipò sempre in prima persona, e fin dall'inizio, al lavoro di sceneggiatura delle sue pellicole, e, pur accettando consigli e idee dai suoi collaboratori - che si chiamarono appunto De Benedetti, Patti, Soldati, Zavattini, Pannunzio, Perilli, Castellani, Monicelli, Brusati -, imponeva infine il suo particolare punto di vista. Non amava l'improvvisazione e arrivava sul set senza incertezze, in quanto tutto era stato da lui già pensato, previsto e preparato in anticipo. Si occupò con competenza dei lato visivo del film: luci, angolazioni, inquadrature; gli operatori che lavorarono per lui - A. Brizzi, M. Terzano, U. Arata, C. Montuori, T. Delli Colli, tra i migliori del cinema italiano - gli riconobbero un'indiscussa competenza, e lo stesso C. scrisse: "Inquadratura e fotografia sono elementi vitali in un film. Un'inquadratura sbagliata falsa completamente il senso della scena" (Come si dirige un film, in La Gazzetta del popolo, 12 Maggio 1933). Curava personalmente il montaggio che considerava il momento chiave nella costruzione dei film, quello in cui i frammenti, i pezzetti girati acquistavano senso e unità dalla loro armonica fusione e dall'imposizione di un determinato ritmo. Lavorò molto sulle attrici e sui giovani" principianti che prediligeva - non a caso tenne a battesimo il Gotha del cinema italiano anni Trenta - perché poteva plasmarli meglio ottenendo una maggior corrispondenza tra le loro caratteristiche fisico-recitative e il personaggio sulla carta. Questo ricco bagaglio di capacita professionali, frutto di una lunga e intelligente pratica risalente ai tempi del muto, il C. mise al servizio di una sensibilità che prediligeva i casi né comici né grotteschi ma semplicemente umani e divertenti e li trattava con mano leggera, con una grazia serena dove "la tenerezza finemente pucciniana e sentimentale che Camerini nutre verso la gente dei suo piccolo mondo si nasconde dietro il sorriso" (De Benedetti).
Il C. fu poco conosciuto all'estero e pur professando ammirazione per alcuni grossi nomi (Ford, Carné, il Blasetti di Sole) rifiutò ogni filiazione o accostamento a particolari personalità e correnti. L'understatement, la signorilitè, l'ironia leggera e malinconica, pur nel sostanziale ottimismo, riconosciuti al C. uomo oltreché al regista, nonostante il generale apprezzamento, non lo resero mai particolarmente ben accetto alla cinematografia ufficiale né durante il fascismo né dopo, né dei resto la sua ispirazione fu tanto forte da consentirgli di impostare un suo proprio genere, una commedia sentimentale con caratteri tipicamente italiani: non riuscì insomma, se non in qualche felice episodio, ad essere il Clair italiano (il regista cui il suo nome fu più spesso accostato). Per la medesima ragione non lasciò veri credi, tuttavia tracce del suo insegnamento si riscontrano nell'opera di molti tra i tantissimi che lavorarono con lui, non ultimo il miglior De Sica regista, che riconobbe sempre i suoi debiti nei confronti dell'antico maestro.
Fonti e Bibl.: Per una completa rassegna della filmografia dei C., corredata di tutti i dati, si veda quella a cura di R. Chiti in C. Lizzani, Il cinema italiano dalle origini agli anni Ottanta, Roma 1982, pp. 336-356. Inoltre cfr. G. De, Benedetti, "Il signor Max" di M. C., in Cinema, II (1937), n. 35, p. 384; G. C. Castello, Una pentalogia piccolo-borghese, ibid., n. s., III (1950), n. 31, pp. 57-59; Id., M. C., in Enciclopedia dello spettacolo, Roma 1954, coll. 1570-1574; Antologia di Bianco e nero 1937-1943, I-IV, Roma 1964, ad Indicem; G. Calendoli, Materiali per una storia del cinema italiano, Parma 1967, ad Indicem; F. Savio, Cinecittà anni Trenta, Roma 1979, ad Indicem (alle pp. 203-226 intervista con il C.); L'avventurosa storia dei cinema italiano, a cura di F. Faldini-G. Fofi, Milano 1979, ad Indicem; F. Pasinetti, L'arte della cinematografia, Padova 1980, pp. 179-181, 203-204; S. G. Germani, M. C., Firenze 1980 (con bibl. e filmografia); G. Rondolino, Visconti, Torino 1981, ad Indicem; L. Autera, Raccontò con garbo e stile piccoli casi, amori gentili, in Corriere della sera, 5 febbr. 1981; O. Ripa, L'ultimo incontro con M. C., in Gente, 20 febbr. 1981; C. Lizzani, Il cinema italiano., cit., ad Indicem.