Camerini, Mario
Regista cinematografico, nato a Roma il 6 febbraio 1895 e morto a Gardone Riviera (Brescia) il 4 febbraio 1981. Autore sensibile, dotato di malinconica ironia e di uno stile garbato ed elegante, ha reso "con mano leggera e con grazia serena" (G. Debenedetti, 1937) le vicende di un'umanità semplice, casi né comici né grotteschi ma divertenti, intrisi di un sostanziale ottimismo. Più volte premiato a Venezia, C. realizzò le sue opere migliori negli anni Trenta, affermandosi come uno dei registi più importanti del periodo, anche se i suoi rapporti con il regime fascista, pur improntati a un'apparente tolleranza, mascheravano un'inconciliabilità di fondo. Professionista compiuto e perfettamente competente su tutti gli aspetti, tecnici e non, della vita del set, partecipò sempre al lavoro di sceneggiatura dei suoi film, occupandosi anche di luci, angolazioni, inquadrature e curando personalmente il montaggio, che considerava il momento chiave nella costruzione di un'opera. Amava pianificare ogni aspetto delle riprese e lavorò molto sulle attrici e sui giovani principianti che poteva più facilmente plasmare, contribuendo alla formazione di molti protagonisti del cinema di quegli anni e dei successivi. Ancora studente di liceo scrisse un soggetto giallo per il cinema, Le mani ignote, venduto alla Cines; si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza ma non conseguì mai la laurea. Fu ufficiale dei bersaglieri durante la Prima guerra mondiale e prigioniero in Austria. Rientrato a Roma alla fine del conflitto, fu coautore di varie sceneggiature per la Cines con il fratello Augusto e con il cugino, il regista Augusto Genina, di cui fu anche più volte aiuto. Il primo film interamente realizzato da C. ‒ anche se firmato ancora da Genina che ne era il produttore ‒ fu Jolly o Jolly clown da circo (1923); seguì una serie di opere (La casa dei pulcini, Saetta principe per un giorno, 1924; Voglio tradire mio marito!, 1925; Maciste contro lo sceicco, 1926) girate per la casa di produzione e distribuzione Fert-Pittaluga, una delle poche iniziative vitali della cinematografia italiana del dopoguerra, la quale, dopo i trionfi prebellici, continuava a riproporre moduli roboanti e melodrammatici, andando così incontro a una lunga crisi economica, tecnologica e di idee. Nel 1928, con gli amici Aldo De Benedetti e Luciano Doria, fondò una piccola società, la Attori e direttori italiani associati (ADIA), per la quale firmò un film di ambiente coloniale, Kiff Tebby. Nel 1930 apparve Rotaie: la storia, sceneggiata da Corrado D'Errico, di una giovane coppia di sposi poveri e disperati, ma infine capaci di reagire alla loro cattiva sorte, è narrata quasi esclusivamente attraverso espressioni, oggetti, piccoli dettagli e solo cinque didascalie. Il film, in cui sono presenti alcune caratteristiche costanti della poetica cameriniana più matura quali l'interesse per la piccola gente, la cura dei particolari, il ruolo determinante attribuito alla fotografia e al montaggio, lanciò il nome di C., procurandogli un notevolissimo consenso soprattutto da parte della critica. Sempre nel 1930 l'avvento del sonoro condusse il regista in Francia dove, per impratichirsi delle nuove tecniche, girò La riva dei bruti, edizione italiana di una produzione Paramount (Dangerous Paradise, 1930, di William A. Wellman); in questa circostanza C. concepì l'idea, poi comunemente applicata, di utilizzare per la fotografia e per il sonoro due diverse pellicole, per sincronizzare in seguito il sonoro sulle immagini secondo un procedimento che permetteva di tagliare liberamente la pellicola fotografica e di restituire così al regista, in fase di montaggio, piena libertà di imporre al film il ritmo desiderato. Rientrato in Italia, C. girò per la Cines Figaro e la sua gran giornata (1931), sul cui set incontrò Mario Soldati e Ivo Perilli, destinati a essere collaboratori, come aiuto registi e sceneggiatori, dei suoi film più importanti. In quest'opera, ai toni seri e sentimentalmente impegnati di Rotaie si sostituiscono il clima di commedia e l'ironico clin d'œil che sono l'altro elemento costitutivo della poetica cameriniana. Nel 1932 realizzò Gli uomini, che mascalzoni… la sua opera più famosa e una delle sue migliori: prodotto ancora dalla Cines e sceneggiato da De Benedetti e Soldati oltreché da C., ebbe come interprete il giovane Vittorio De Sica, che vi incontrò il suo 'primo' personaggio, quello, tipicamente italiano, del giovanotto vanitoso e farfallone, ma capace infine di apprezzare l'amore di una brava ragazza, in una storiella dal ritmo sostenuto che corrispondeva all'atmosfera operosa e vivace dell'ambiente milanese. Il film, girato infatti a Milano quasi tutto fuori dagli studi, in esterni alla Fiera, sui tram, sul lago di Como, utilizzando una macchina da ripresa a mano, risultò un piccolo capolavoro nel genere della commedia sentimentale e aprì una fase particolarmente fortunata e produttiva. Nel 1933 C. girò l'intimista T'amerò sempre e, con il fratello Augusto, Cento di questi giorni, di cui curò in realtà la supervisione; nel 1934 Giallo, dalla trama brillante tinta di poliziesco, per il quale scelse Assia Noris che divenne sua interprete favorita. L'anno seguente filmò due soggetti tratti da testi letterari, Come le foglie, dal dramma di G. Giacosa, e Il cappello a tre punte, da P. de Alarçon, trasponendo l'ambientazione di quest'ultimo dalla Spagna a una Napoli seicentesca, abitata dall'ombra di Masaniello, allo scopo di utilizzare, per la prima volta nel cinema, Eduardo e Peppino De Filippo. La prima versione del film evidenziò la componente grottesca, da cui traspariva una larvata satira sul potere che irritò B. Mussolini durante una visione a Villa Torlonia; il regista fu allora costretto a eseguire tagli che fecero prevalere il tono boccaccesco nuocendo, almeno in parte, al buon esito dell'opera. Successivamente il piccolo gruppo di intellettuali collaboratori di C., in cui già si era inserito Ercole Patti, si arricchì della presenza di Cesare Zavattini, che firmò soggetto e sceneggiatura di Darò un milione, premiato alla Mostra del cinema di Venezia del 1936: la commedia, meno sentimentale e più francamente umoristica rispetto alle precedenti, narra, con un estro tipicamente zavattiniano, la storia di un miliardario che, disgustato dalla ricchezza, si trasforma in un barbone e trova l'amore nella ragazza del circo in cui si è rifugiato. Ancora nel 1936, dopo la trasposizione del dramma di L. Pirandello Ma non è una cosa seria, C. realizzò la sua unica opera di regime, Il grande appello, un film molto sobrio, quasi un documentario, di ambientazione e di intenti colonialisti, che fu considerato però dalle autorità troppo blando sul piano della propaganda, a ulteriore conferma della profonda incompatibilità che improntava i rapporti tra il regista e il fascismo. Vertice e spartiacque della produzione cameriniana fu Il signor Max, uscito nel 1937 e premiato l'anno stesso a Venezia: la geometria della sceneggiatura di Soldati ‒ strutturata sul doppio ruolo del protagonista, un modesto giornalaio con la passione dei viaggi e della mondanità che si finge un ricco sfaccendato, e sul meccanismo del rovesciamento ‒ dà origine a una miniera di trovate, di piccoli e grandi ritratti nella contrapposizione di due ambienti sociali, in un capolavoro di ritmo esente da ogni moralismo. Il film segnò la consacrazione in Italia di C., ormai circondato dall'apprezzamento generale, ma i risultati del periodo precedente non saranno più raggiunti. Nella produzione del triennio 1938-1940, C. cercò, più o meno consapevolmente, di dare una svolta alla sua poetica e di irrobustire la sua vena: il delicato equilibrio delle opere migliori non costituiva genere ‒ nonostante le imitazioni dei molti epigoni ‒ né poteva ripetersi e riproporsi all'infinito. Tentò dunque strade diverse, mentre al suo fianco, allontanatosi Soldati, comparve come aiuto e sceneggiatore, Renato Castellani. Si avvicinò quindi alla sophisticated comedy alla Lubitsch (Batticuore, 1939) e alla pochade francese (Il documento, 1939), per tornare ai motivi preferiti con Grandi magazzini (1939, ancora con De Sica e la Noris), mentre il successivo Centomila dollari (1940) appare più direttamente ascrivibile al cosiddetto cinema dei telefoni bianchi (v. commedia). Alla tenera favola di Una romantica avventura (1940), tratta da un racconto di Th. Hardy, seguì il grosso impegno produttivo di I promessi sposi (1941), ricco di consulenze prestigiose (da E. Cecchi a R. Bacchelli), ma segnato da incertezze e dalla perdita della perfetta corrispondenza dello stile alla materia trattata. Nel dopoguerra C., che entrò anche a far parte della Commissione di epurazione per la categoria registi, aiuto registi, sceneggiatori e autori del cinema, tentò di inserirsi nel nuovo clima resistenziale e neorealista (Due lettere anonime, 1945, e Molti sogni per le strade, 1948), firmò grandi produzioni con attori di rilievo del cinema statunitense (Ulisse, 1954), storie delicate come Suor Letizia (1956, con Anna Magnani), commedie divertenti e gradevoli come Primo amore (1959), Crimen (1960, con Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Nino Manfredi, Franca Valeri, Silvana Mangano), Delitto quasi perfetto (1966); tuttavia i colori delicati, i mezzi toni della commedia sentimentale, che costituivano i tratti distintivi del suo stile, non poterono trovare vero spazio in una cinematografia in cui si erano affermati il dramma neorealista e la satira, talvolta aspra, spesso greve e volgare, della 'commedia all'italiana'. L'ultimo film della sua carriera, il cinquantesimo, è Don Camillo e i giovani d'oggi, ispirato ai personaggi di G. Guareschi, del 1972. C. fu poco conosciuto all'estero e, a sua volta, rifiutò ogni filiazione o accostamento a particolari personalità e correnti della cinematografia nazionale e internazionale. L'understatement, l'innata signorilità, l'ironia leggera che erano parte della sua personalità umana oltreché del suo cinema, gli procurarono un generale apprezzamento, ma non lo resero mai particolarmente ben accetto alla cinematografia ufficiale, né durante il fascismo né dopo, né del resto la sua ispirazione fu tanto forte da consentirgli di impostare un suo proprio genere, una commedia sentimentale con caratteri tipicamente italiani: non riuscì insomma, se non in qualche felice episodio, a essere il Clair italiano (il regista cui il suo nome fu più spesso accostato). Per la medesima ragione non lasciò veri eredi, anche se tracce del suo insegnamento si riscontrano nell'opera dei molti che lavorarono con lui, non ultimo il miglior De Sica regista, che riconobbe sempre, in quanto a eleganza e amabile ironia, i suoi debiti nei confronti dell'antico maestro.
G. Debenedetti, 'Il signor Max' di Mario Camerini, in "Cinema", 1937, 35, p. 384.
C. Lizzani, Il cinema italiano 1895-1979, 2° vol., Roma 1979, con una filmografia completa a cura di R. Chiti.
F. Savio, Cinecittà anni Trenta, Roma 1979.
L'avventurosa storia del cinema italiano, a cura di F. Faldini, G. Fofi, Milano 1979.
S. Grmek Germani, Mario Camerini, Firenze 1980.