CUTELLI, Mario
Nacque a Catania alla fine del sec. XVI (1589 ?), figlio naturale di Agatino, esponente di un'antica casata della nobiltà urbana, fin dall'età aragonese al servizio dei sovrani di Sicilia nelle magistrature municipali e negli alti tribunali della capitale. Addottoratosi "in iure pontificio et cesareo" nello Studio di Catania (1621), esercitò l'avvocatura e fu giudice della corte patriziale della sua città.
Nel 1628 il visitatore Diego de Riafio, inviato da Filippo IV nell'isola per svolgere un'inchiesta straordinaria sul ministero togato e sull'ufficialità, ma soprattutto per accertare l'esistenza di gruppi dirigenti da aggregare alla "grande" politica olivaresiana, lo chiamò quale fiscale della visita. La collaborazione con de Riaflo costituì per il C. un'esperienza decisiva, gli sollecitò le prime riflessioni sulla "crisi" della monarchia spagnola, gli consentì di acquisire la fiducia della corte madrilena. Al visitatore dedicò nel 1630 il primo 1 tomo. stampato a Palermo, del Tractationum de donationibus contemplatione matrimonii, aliisque de causis inter parentes et filios factis tomus primus. L'opera, il cui secondo tomo venne pubblicato nell'anno 1642, assicurò al C., soprattutto attraverso le ristampe postume venete del 1661 e del 1668, una fama europea nell'ambito della giurisprudenza culta.
La sua novità nei confronti della scienza giuridica siciliana precedente e coeva, fondata su un mediocre studio degli scritti dei glossatori e dei commentatori, consistette nella profonda conoscenza e utilizzazione dei giuristi del mos gallicus iura docendi, da Cuiacio a Donello, da Tiraqueau a Duareno. Queste letture fornirono al C. importanti modelli metodologici quali l'uso della ricerca storicoerudita sulle fonti legislative in vista di obiettivi politici. Gli altri autori su cui egli fondò la sua formazione unianistica e costruì la sua attenta analisi della società siciliana e spagnola furono, poi, Tacito e Seneca, Grozio, Bodin, Pierre Grégoire.
Nominato nel 1630 giudice biennale del tribunale della Gran Corte, nel 1632 il C. dette alle stampe varie allegazioni scritte in occasione della sua precedente attività di patrocinio forense. La raccolta, intitolata Decisiones supremorum huius Regni Siciliae Tribunalium iuxta orationes editas (Messanae), è dedicata al viceré Fernando Afán de Ribera, duca di Alcalá, giunto in Sicilia nel luglio di quell'anno.
Alla fine del 1632 il C. era in Spagna, inviato dal viceré con il compito di esporre al sovrano ed al Consiglio d'Italia i gravi inconvenienti causati all'ordine pubblico ed alla vita economica del Regno dalle continue controversie giurisdizionali tra le magistrature ordinarie ed il tribunale del S. Ufficio. A tal fine il C. pubblicò a Madrid nel 1631, il Patrocinium pro regia iurisdictione inquisitoribus siculis concessa.
Con il sostegno dei diritto canonico, del diritto comune e della legislazione regia, egli dimostrava che gli inquisitori, titolari di una delega amplissima nelle materie spirituali e nelle cause di fede, godevano di ogni altra giurisdizione temporale sui propri ministri, ufficiali e familiari a titolo di concessione regia conferita "sub clausula revocandi ad libitum", ed avente perciò carattere precario. Il C. denunziava le usurpazionì operate dal S. Ufficio che estendeva la sua giurisdizione temporale oltre i limiti stabiliti dalle prammafiche del 1580 e del 1597, l'utilizzazione del privilegium fori da parte dei suoi ministri ed ufficiali quale espediente per godere l'impunità dei delitti, l'abuso di censure e di scomuniche nei confronti di quei magistrati regi che difendevano la giurisdizione ordinaria. Attraverso l'attenta esegesi delle fonti legislative, il C. metteva a nudo le illecite consuetudini usurpative che avevano alterato ed oscurato caratteri originari e compiti dell'Inquisizione siciliana. La ricerca storico-erudita dei C. era finalizzata al raggiungimento di un importante obiettivo politico, vigorosamente riaffermato negli scritti successivi: la rigenerazione della sovranità regia, troppo spesso mortificata in quei decenni dalle forze particolafistiche isolane (feudalità, alto clero, finanza locale e straniera). L'appassionato ed argomentato intervento del C. ebbe un'influenza decisiva sulla prammatica del 1635, che escluse numerosi delitti e materie dal privilegium fori, e che pose limiti e condizioni al conseguimento dello status di familiare.
Durante il lungo soggiorno a corte si rafforzò la meditata adesione del C. al partito olivaresiano. Ne costituiscono una significativa testimonianza le dediche del Patrocinium: ad Alonso Guillén de la Carrera, reggente del Consiglio d'Italia e già reggente del Consiglio di Castiglia, ideologo e propagandista politico del conte-duca, egli offriva l'edizione di Madrid del 1633; al genero di Olivares, Ramiro Núflez de Guzmán, duca di Medina de la Torres, tesoriere generale del Consiglio di Aragona e futuro viceré di Napoli, la ristampa madrilena del 1635.
Nuovamente nominato giudice biennale della Gran Corte (settembre 1635-agosto 1637) il C. pubblicò nel 1636 a Messina il Codicis legum sicularum libri quattuor. Dedicata a Filippo IV, l'opera espresse in modo compiuto - attraverso le notae iuridicae-politicae apposte ai "capitoli" del Regno promulgati dai primi re aragonesi - l'ideologia e l'utopia del C., costituì il manifesto del partito olivaresiano in Sicilia ed il più alto contributo isolano al dibattito sulla crisi causata dalla guerra dei Trent'anni.
Il C. esprimeva la sua violenta polemica al fiscalismo esasperato (causa di rivolte e fonte di guadagni parassitari), alla vendita delle giurisdizioni feudali, alle usurpazioni degli usi civici, alle alienazioni di città demaniali. Egli denunziava il "nuovo" blocco di potere che nobiltà antica e recente, appaltatori d'imposte, mercanti, ministri. ed ufficiali avevano costruito intorno al comune interesse di uno sfruttamento sempre più avido e rapace della crisi finanziaria attraversata dalla Spagna. Secondo l'analisi del C., la ripresa non passava soltanto attraverso una più equa distribuzione dei costi della guerra tra i domini della Corona: era necessario, soprattutto, realizzare un generale processo di assimilazione culturale e politica della nobiltà siciliana, rieducata in Spagna ad una diversa, unitaria idea d'Impero. Nel progetto politico dei C., il ministero togato doveva poi costituire un mero strumento dell'assolutismo, idoneo a contrastare l'erosione della sovranità ad opera del baronaggio e degli ecclesiastici; ed al fine di garantire ai giudici l'autonomia necessaria al pieno esercizio delle loro funzioni istituzionali, egli sostenne la necessità di rendere perpetue le supreme magistrature biennali del Regno.
Dopo una seconda missione a Madrid (1638), il C. venne nominato nel 1639 avvocato. fiscale del tribunale del Patrimonio. Esercitò l'ufficio per circa un anno. Alla fine del 1640, infatti, il viceré Francisco de Mello lo inviava nuovamente a Madrid. Prestando fede a quanto lo stesso C. ebbe ad affermare in scritti successivì (in particolare nel Supplex libellus), i suoi biografi, da Antonino Mongitore agli apologeti ottocenteschi, hanno ritenuto che la missione fosse finalizzata ad esporre a Filippo IV la situazione siciliana in materia di fiscalità ed a raccomandargli una maggior vigilanza nelle alienazioni dei cespiti e beni appartenenti al regio patrimonio. In realtà, anche se su questi problemi il C. ebbe a confrontarsi con i responsabili delle segreterie madrilene, l'incarico viceregio fu il pretesto per rimuoverlo dall'ufficio. Il de Mello, al suo arrivo nel febbraio del 1639 aveva trovato, infatti, un'isola inquieta, scoraggiata, lacerata da gravi tensioni. Era necessario riconquistare il Qonsenso del baronaggio e la fiducia degli hombres de negocios. Questi ultimi avevano decisamente rifiutato, in assenza di garanzie politiche e fiscali, di stipulare contratti con il duca di Montalto Luigi Moncada, presidente del Regno alla partenza del suocero, il viceré Alcalá. In questo quadro, la presenza e le iniziative del C. quale avvocato fiscale del Patrimonio avevano immediatamente provocato aspre conflittualità all'interno del tribunale, rendendo impossibile al viceré de Mello il raggiungimento degli obiettivi perseguiti: la generale ricomposizione dei precari equilibri, al fine di reperire las asistencias affannosamente sollecitate dalla monarchia nel momento di maggiori difficoltà finanziarie e militari. Da ciò la sostanziale rimozione di un personaggio scomodo, anacronistico di fronte all'ormai evidente fallimento del progetto olivaresiano della unión de armas.
Intorno al 1640 è da ricondurre la stesura delle Vindiciae siculae nobilitatis, un'operetta anonima, rimasta inedita, la cui ampia circolazione è testimoniata dalle numerose copie manoscritte pervenuteci. La paternità cutelliana fu nota agli stessi contemporanei in considerazione dell'ideologia espressa nell'opera, avendo voluto il C. "vendicar con essa, l'antica dalla moderna, e la vera dall'intrusavi Nobiltà", secondo quanto osservò nella seconda metà del Settecento il marchese di Villabianca, F. M. Emanuele e Gaetani.
Il lungo esilio madrileno, prolungato sino al 1648, rappresentò per il C. un periodo di difficoltà economiche e di completa emarginazione politica, specie dopo il 1643, allorquando la deposizione del conte-duca d'Olivares coinvolse gran parte dei personaggi compromessi con la sua politica. A Madrid, nel 1644, aveva sposato in seconde nozze Afia de Herreros, e visse esercitando la professione forense insieme al suocero. Tuttavia, secondo quanto egli scrisse alcuni anni dopo, gli aemuli erano riusciti a privarlo del favore del principe, ma non ad allontanarlo dagli studia e dall'obsequium nei confronti della sovranità. E nel 1646 aveva già ultimato il De prisca et recenti immunitate Ecclesiae ac ecclesiasticorum libertate generales controversiae (Matriti 1647).
L'opera investiva temi e problemi comuni alla società di antico regime, di particolare rilievo nel Mezzogiorno isolano e continentale, sovrappopolato di ecclesiastici. Nella dedica, significativamente indirizzata ad Innocenzo X, il C. rilevava il contrasto tra l'antica disciplina, fondata sui decreti dei pontefici e dei concHi e sulle dottrine dei Padri della Chiesa, e la nuova, in cui le capziose interpretazioni dei canonisti avevano surrettiziamente esteso le originarie immunità locali e personali. Era perciò necessario controbattere tali erronee dottrine (che nel palermitano Antonino Diana avevano trovato un teorico di successo europeo ed il principale bersaglio del C.) ed offrire ai magistrati regi un valido ed indispensabile strumento di esegesi storica e dottrinale, affinché essi potessero meglio tutelare i diritti sovrani. La vigorosa polemica contro la giurisdizione ecclesiastica costituiva, peraltro, un argomento meno pericoloso rispetto ai temi affrontati in passato (Inquisizione, fiscalismo, riscatti al demanio, meri e misti imperi baronali, rinvigorimento nobiliare), dai quali erano derivati al C. soltanto amarezze ed avversità. Infatti, in un regime in cui i proventi dei magistrati erano direttamente proporzionali al contenzioso discusso ed alle sentenze pronunziate, il più vasto consenso (non senza riserve mentali) dei togati siciliani agli obiettivi politici del C. era garantito dal comune interesse economico a restringere l'ambito dell'usurpatio iurisdictionis ecclesiastica.
Il De prisca servì a reinserire il giurista catanese nella carriera ministeriale: alla fine del 1648 venne nominato, infatti, maestro razionale del tribunale del Patrimonio. Ma anche il clima politico era mutato: la rivolta di Masaniello ed i moti siciliani del 1647-49 sembravano aver dato ragione al C. sui pericoli di un fiscalismo rapace e vessatorio. La restaurazione, specialmente dopo la congiura aristocratica del conte di Mazzarino, fu progettata dalla monarchia nella consapevolezza che fosse in discussione e vacillasse la stessa fedeltà verso la Corona dei gruppi dominanti siciliani. In questo clima, il devoto e tenace servitore di Filippo IV tornava nel 1649 in Sicilia, e nello stesso anno il viceré don Giovanni d'Austria lo proponeva alla presidenza del concistoro. Gli antichi nemici del Consiglio d'Italia lo esclusero tuttavia dalla terna. Nel 1651, il Senato di Catania lo nominava suo procuratore in Parlamento, e, su proposta della suprema assise siciliana, don Giovanni lo eleggeva deputato del Regno per il braccio demaniale. L'anno successivo, in segno di gratitudine verso la sua città natale, pubblicava il Catania restaurada, un'ampia allegazione in spagnolo in cui ricostruiva le vicende seguite alla vendita dei "casali" catanesi.
Nell'epistola con cui nel 1652 dedicava a Filippo IV il secondo tomo di Decisiones su questioni fiscali e feudali, pubblicato a Palermo, il C. chiedeva, in considerazione dei suoi meriti e delle sue precarie condizioni fisiche, una "honorificani vacationem". Avrebbe così potuto assolvere la promessa di scrivere un libro "contra caluinniatores exteros" sulle gesta dei sovrano. In verità, la ruota della fortuna si mostrava nuovamente avversa al vecchio ministro. Il visitatore Flores de Valdés, giunto in Sicilia nel 1651, gli aveva contestato, insieme con altre accuse, l'acquisto di alcune terre feudali con danno del venditore, approfittando della "mano di ministro", e ne aveva proposto a corte la sospensione dall'ufficio ed il destierro a venti leghe dalla capitale. Filippo IV alla fine del 1652 aveva accolto l'istanza, dietro consulta del Consiglio d'Italia, di cui, oltre al presidente conte di Monterrey, facevano parte quali reggenti Ascanio Ansalone e Pietro de Gregorio, nemici personali del Cutelli. Il Supplex libellus satisprolixusadRegem Philippum IV, pubblicato a Palermo nell'agosto del 1653. costituì la difesa del giurista catanese. In essa il C. sottolineava la sua irriducibile e costante azione volta a restituire regalie, giurisdizioni, beni patrimoniali al sovrano; i numerosi, acerrimi e notori avversari che questa politica gli aveva procurato; la legittimità degli acquisti fatti, e l'assenza di lesione ultra dimidium; la mancanza di accuse in materia di conservazione ed accrescimento del real patrimonio. La sentenza sarebbe stata pronunziata soltanto nel 1657, ed i suoi eredi condannati ad un'ammenda di circa 8.000 ducati.
Il C. morì il 17 sett. 1654 a Palermo, dove fu sepolto nel convento di S. Francesco di Paola.
Nel testamento, egli aveva istituito suo unico erede il nipote Antonino, figlio del primogenito Giuseppe; aveva, inoltre, vincolato il suo patrimonio "con fedecommesso strettissimo di primogenitura agnatizia mascolina", estesa anche ai discendenti illegittimi: fatto "invero degno da notarsi", secondo quanto osservò nella Sicilia nobile il marchese di Villabianca. In assenza di successori maschi, il patrimonio era destinato alla fondazione a Catania di un "collegio d'uomini nobili all'uso di Spagna". Egli autorizzava, inoltre, la seconda moglie Aña de Herreros a tornare in Spagna portando con sé i due figli maschi, "che là si alleveranno meglio al servizio di Dio e di Sua Maestà". Nel Codex aveva già proposto il richiamo a corte dei figli della nobiltà provinciale per educarli ad una unitaria idea di impero, ed aveva suggerito che i proventi degli spogli ecclesiastici fossero destinati alla creazione di collegi di nobili, indispensabile strumento di formazione della classe dirigente siciliana. Nelle disposizioni di ultima volontà, il C. riaffermava coerentemente la sua utopia, la sua concezione aristocratica della politica, il suo ideale di un baronaggio moralmente rinvigorito ed idoneo a svolgere responsabilmente funzioni di governo.
Fonti e Bibl.: Madrid, Biblioteca de la Academia de Historia, Colecc, Pellicér, XXIII, ff. 241-246; Madrid, Archivo histórico nacional, Estado, legajo 2171, 1° luglio 1649; Ibid., legajo 2152, memoriale del C., s. d.; Archivo general de Simancas, Secreterias provinciales, legajo 1295, 14 marzo 1675 (sentenza della visita di Flores de Valdés); Ibid., libro 818, ff. 181v-182r. I manoscritti delle Vindiciae Siculae nobilitatis (in cui il C. riconosce la sua nascita illegittima) sitrovano presso la Bibl. region. diCatania, Fondo Ventimiglia, ms. 68; Acireale, Bibl. Zelantea, ms. III. C. 7. 21; Palermo, Biblioteca comunale, mss. Qq. D. 175; Qq. E. 86 (è il vol. X degli Opuscolipalermitani dei marchese di Villabianca, F. M. Emanuele e Gaetani: al f. 119 si trovano i brani riferiti nel testo), Qq. E. 83; Qq. F. 240; Qq. H. 57, 3; Qq. c. 38. Copia del rarissimo Suppl. libellus, ibid., ai segni CXXXVI. G. 50, ins. 5; Testamento del conte M. C. del 17 sett. 1654, Catania 1904; A. Mongitore, Bibliotheca sicula, II, Panormi 1714, 14, II, pp. 47 s.; F. M. Emanuele e Gaetani, Della Sicilia nobile, Palermo 1754-59, III, p. 273; R. Gregorio, Introduz. allo studio del diritto pubblico siciliano, Palermo 1794, pp. 81-84; G. Fiorenza, Geneal. della nobile famiglia Cutelli, Palermo 1844; E. Reina, Novello onore ai dotti e agli artisti catanesi, Catania 1861, pp. 100-107; V. Di Salvo, M. C. giureconsulto siciliano del secolo XVII, Catania 1893; F. San Martino de Spucches, Storia deifeudi in Sicilia, Palermo1924-41, II, pp. 60 s.; V. Sciuti Russi, Stabilità ad autonomia del ministero siciliano in un dibattito del sec. XVIII, in Riv. stor. ital., LXXXVII (1975), pp. 48 ss.; M. Caravale, Potestà regia e giurisdizione feudale nella dottrina giuridica siciliana tra '500 e '600, in Annuario dell'Ist. storico ital. per l'età moderna e contemporanea, XXIX-XXX (1977-78), pp. 168-172; G. Giarrizzo, La Sicilia dal Viceregno al Regno, in Storia di Sicilia, VI, Napoli 1978, pp. 105-109; V. Sciuti Russi, Astrea in Sicilia. Il ministero togato nella società siciliana dei secoli XVI e XVII, Napoli 1983, pp. 216-230, e ad Indicem.