DAL PRA, Mario
Nacque a Montecchio Maggiore (in provincia di Vicenza) il 29 aprile 1914, da Carlo, panificatore, e Cecilia Longo.
A causa delle ristrettezze economiche familiari in cui versò la famiglia dopo la morte del padre (1920), Dal Pra frequentò il ginnasio e il liceo nel seminario di Vicenza, dove entrò in contatto con il vescovo Ferdinando Ridolfi, uno dei pochi presuli italiani apertamente avversi al regime fascista. Uscito dal seminario intraprese gli studi di filosofia presso l'Università di Padova, dove si laureò con una tesi dal titolo Il realismo e il trascendente (Padova 1937, pubblicata a spese della facoltà), diretta da Erminio Troilo (già discepolo di Roberto Ardigò, poi passato ad una sorta di monismo naturalistico denominato «realismo assoluto»). Vi sosteneva la posizione realistica, in polemica con l’idealismo immanentistico gentiliano, ma non aderiva al monismo di Troilo: chiedeva piuttosto alla filosofia un’apertura al trascendente, in linea con la sua formazione cristiana. Di qui la proposta di un «realismo dualistico relativo»2, all’interno di una concezione teocentrica del reale. Laureatosi, entrò in contatto con nuovi ambienti, in particolare con quello che gravitava attorno alla rivista veronese Segni dei tempi, fondata e diretta da Paolo Bonatelli (cui collaborò dal 1932 al ‘42), e con Giuseppe Zamboni, che a Verona veniva sviluppando un indirizzo empiristico per il quale fu poi allontanato dalla Cattolica di Milano, da cui pure proveniva. In questa varia temperie Dal Pra riconobbe di aver incontrato le prime radici di un vero e proprio «realismo critico», aperto alle problematiche della coscienza e della persona umana (Dal Pra - Minazzi, 1992, p. 42), e lì si collocano le sue prime pubblicazioni (Verona,1940), che denotano l’apertura a una maggiore complessità filosofica: un’antologia di Galilei, un’altra dei Prolegomeni di Kant e soprattutto il volume Pensiero e realtà, nel quale si misurò direttamente con il problema gnoseologico, muovendo da un ripensamento del criticismo kantiano. Al tempo stesso continuò la sua polemica con l’idealismo, che si presentava come una «filosofia assoluta dell’Assoluto», in analogia con la pretesa politica del fascismo di uniformare tutte le singole individualità. Fu in quegli anni che prese avvio anche la sua carriera di insegnante di filosofia e storia, prima al Liceo Paleocapa di Rovigo (1937-39), poi sino al 1943 al Pigafetta di Vicenza.
Il contatto e la frequentazione di Antonio Giurolo e Luigi Meneghello, oltre che la maturazione personale, lo condussero dalle sponde dell’Azione cattolica, in cui pure era presente un certo contrasto con il fascismo, a quelle di Giustizia e Libertà, l’organizzazione partigiana del Partito d’azione. Quel gruppo editava i Quaderni di cultura politica, ove fra l’altro nell’agosto del 1943 fu pubblicato il testo dell’ultimo discorso tenuto alla Camera da Giacomo Matteotti, a fianco dello scritto di John Stuart Mill, La libertà di discussione. In quei mesi maturò anche l’iniziativa di realizzare un’edizione clandestina di Giustizia e Libertà specifica per il Veneto, che gli venne affidata, stampata clandestinamente dalla tipografia di Vittore Gualandi a Vicenza, con cui mantenne una pluridecennale collaborazione editoriale.
Nel frattempo le cose precipitarono con la violenza della guerra, il crollo del fascismo, l’occupazione tedesca e la nascita della RSI, asservita al nazismo. All’inizio di quella che fu la stagione più buia della storia italiana, pubblicò Valori cristiani e cultura immanentistica (Padova 1944, ma la premessa è datata 21 gennaio1943), che sul piano intellettuale segnò una svolta rispetto alla sua prima fase cristiana, non ancora abbandonata ma reinterpretata come ispirazione morale interiore. I capitoli che scandiscono il libretto sono indicativi delle grandi scelte che si ponevano al giovane autore: «Spirito cristiano e rinascita morale», «Interiorità e legalismo», «Idealità e utilitarismo», «Carità e violenza».
Suoi punti di riferimento erano pensatori laici come Guido De Ruggiero, Benedetto Croce (spesso citato per il suo famoso articolo Perché non possiamo non dirci cristiani, pubblicato su La Critica nel novembre del 1942), Guido Calogero, ma anche Piero Martinetti (per il suo libro Gesù e il cristianesimo, nella traduzione francese, Parigi 1942) e soprattutto Aldo Capitini (Elementi di un’esperienza religiosa, Bari 1937). L’ultimo capitolo del volume lo dedicò ai temi scottanti del momento, ovvero alla ribellione al fascismo. Spiegò così che «anche la violenza usata veramente per il trionfo della carità è una forma di carità» (p. 88), che «l’uniformismo morale» imposto dalle «chiese intolleranti», dalle «caste politiche» o dalle «forze brute scatenate alla conquista materiale» era pur sempre «un atto di violenza» (p. 94, 96). Non era difficile vedere come si preparasse, filosoficamente e moralmente, alla resistenza attiva contro il fascismo e il nazismo. Nella conclusione del lavoro guardava poi all’immanentismo, cioè al pensiero laico, con occhi diversi: lo difendeva dalle accuse di immoralismo e ateismo lanciategli da Carmelo Ottaviano, mentre il libro si chiudeva con una notevole dichiarazione: «Con questa fede nell’idealità morale guardiamo positivamente alla cultura immanentistica», in cui vedeva un invito ad una «rinascita morale» e un «ardore rivoluzionario» non incompatibile con il messaggio cristiano (p. 107). Come è stato giustamente sottolineato da Fabio Minazzi, in quel volume si trovano alcune tra le pagine più significative «per motivare l’adesione alla lotta armata» della Resistenza, che sarebbe cominciata pochi mesi dopo (Dal Pra - Minazzi, 1992, pp. 110-111).
Non erano discorsi astratti, e la coerenza invocata da Dal Pra «al di fuori di ogni compromesso»6 si tradusse in prassi. Per la sua opposizione al regime fu costretto a fuggire precipitosamente da Vicenza, avvertito da un ex allievo impiegato nella locale Questura di un'imminente arresto, e a riparare in una città più grande, Milano.
Condannato a diciotto anni di reclusione e a cinque anni di libertà vigilata dal Tribunale speciale di Salò, in quanto «responsabile di attività insurrezionale contro i poteri dello Stato e di propaganda sovversiva» (ibid, p. 265), si nascose come combattente nelle file di Giustizia e Libertà, diventando capo-redattore dei Nuovi quaderni di Giustizia e Libertà (1944-1946) – sui quali scrisse con lo pseudonimo di «Procopio» – a cui collaborarono Franco Venturi, Ferruccio Parri, Leo Valiani, Riccardo Lombardi, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Vittorio Foa, Aldo Garosci. Raccontava che stampavano di nascosto gli opuscoli politici in un edificio proprio di fronte alla Questura di Milano, con l’idea che la polizia avrebbe cercato ovunque ma non lì. Con Leo Valiani collaborò direttamente durante l’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945: insieme pubblicarono i primi numeri de L’Italia libera usando la tipografia del quotidiano fascista Il Popolo d’Italia, già conquistata con un’azione militare partigiana. Aderì anche al movimento federalista di Silvio Trentin, di cui pubblicò nel ‘45 l’edizione clandestina Stato, nazione, federalismo (Milano 1945). Tra i tanti effetti di quel periodo durissimo ma decisivo vi fu il rinvio del matrimonio con Ines Rizzoli, che poté svolgersi solo dopo la liberazione, il 21 luglio 1945, quando entrambi si stabilirono definitivamente a Milano. Per la sua attività di antifascista e resistente gli furono conferite due croci al merito di guerra da parte dell’Italia repubblicana.
Più, tardi, a Liberazione avvenuta, dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, Dal Pra entrò con Vittorio Foa e Riccardo Lombardi nel Partito socialista italiano, sino a divenire membro del comitato centrale e consigliere comunale a Milano. Anche se si allontanò dalla politica come attività istituzionale, dedicandosi all’impegno culturale e all’ insegnamento, prima al Liceo Carducci e poi all’Università, non dimenticò mai l’importanza della fase resistenziale e contribuì in maniera sostanziale alla nascita dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, presieduto da Ferruccio Parri, al quale lo unì una costante e calda amicizia, così come al gruppo fiorentino de ‘La Nuova Italia’ di Tristano Codignola. Del periodo partigiano Dal Pra si fece anche storiografo, in un testo che rimase inedito e venne pubblicato solo postumo: La guerra partigiana in Italia: settembre 1943-maggio 1944 (Milano-Firenze 2009).
Il ‘lungo viaggio attraverso il fascismo’ di Dal Pra fu dunque più breve rispetto a quello di molti altri intellettuali suoi contemporanei; il suo approdo all’antifascismo attivo e militante, senza compromessi né accomodamenti, precedette di alquanto la crisi e la caduta del regime. Del rapporto originario con la cultura cristiana e della profonda esperienza resistenziale rimasero in lui tracce evidenti, sia per la decisa intransigenza morale e il forte senso del dovere, che per la generosità dimostrata verso le istituzioni repubblicane, la cultura democratica, il valore dell’insegnamento e il dialogo con le giovani generazioni. Queste notevoli qualità personali e morali, oltre che la sua alta figura professionale di filosofo e di storico, fecero di Dal Pra un riferimento importante a Milano e in Italia negli anni nuovamente bui che sopravvennero con il terrorismo rosso e nero, con la strategia della tensione e l’attacco alla democrazia, a partire dalla strage di Piazza Fontana (1969) sino al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro (1978), e oltre.
Sempre vicino alla sinistra socialista di Riccardo Lombardi, si allontanò progressivamente dal PSI quando questo finì sotto l’egemonia di Bettino Craxi e si profilò col tempo l’urgenza della ‘questione morale’ in politica; cominciò invece a guardare con interesse e simpatia all’evoluzione antidogmatica del PCI sotto la guida di Enrico Berlinguer. E’ di quegli anni l’interesse per il pensiero di Antonio Gramsci e per una forma di materialismo storico che fosse dialetticamente calato nel rapporto tra pensiero e realtà economico-sociale. Al tempo stesso, nell’Università mantenne un rapporto di interlocuzione positiva con le istanze della contestazione e del movimento studentesco, cercando di coglierne le istanze di riforma e rinnovamento, senza però condividere gli esiti violenti che si manifestarono con la nascita dei gruppi dell’estrema sinistra extra-parlamentare.
Durante il periodo clandestino (fortunatamente non fu mai arrestato), Dal Pra poté sopravvivere a Milano collaborando di nascosto con l’editore Fratelli Bocca come correttore di bozze, consulente e curatore di una collana di storia della filosofia, già progettata da Piero Martinetti, in cui uscirono anche alcune sue opere: una prima monografia di filosofia medievale, Scoto Eriugena e il neoplatonismo medievale (Milano 1941), Il pensiero di Sebastiano Maturi (Milano 1943) e il Condillac (Milano 1942), che segnò una svolta importante verso la storia dell’empirismo.
Nel dopoguerra il lavoro filosofico di Dal Pra si indirizzò più nettamente verso la ricerca storico-filosofica, spaziando con ammirevole competenza dall’antichità al Medioevo, dall’età moderna a quella contemporanea, ma almeno sino alla metà degli anni Cinquanta si caratterizzò anche per una nuova proposta teorica, elaborata insieme ad Andrea Vasa, con cui aveva stretto rapporti già durante la Resistenza. Si trattava del ‘trascendentalismo della prassi’, contrapposto al ‘teoreticismo’ di gran parte delle tradizioni filosofiche, accusate «di identificare il senso dell’essere con un dato conosciuto e conoscibile» (M. Dal Pra, A proposito di trascendentalismo della prassi, in Rivista Critica di Storia della Filosofia, V, 1950, p. 305). Vasa e Dal Pra intendevano sottolineare il fondamento pratico di una visione del mondo, la loro, che rifiutava garanzie conoscitive precostituite e totalizzanti. Il trascendentalista attribuiva un senso al mondo, ma solo come possibile, avendo a unico fondamento la libertà e la sua apertura. Evitando gli opposti scogli della «giustificazione equivoca» dei teoricisti e il «carattere ingiustificato dell’azione» di certo esistenzialismo, il trascendentalista rivendicava «la possibilità, nel mondo della prassi, di guardare in avanti con la fiducia verso una universalità possibile, cioè non data e garantita, ma sperata e voluta attivamente», come ebbe a dire guardando retrospettivamente a quella stagione (Dal Pra - Minazzi, 1992, p. 178). Questa posizione filosofica sollevò tuttavia obiezioni, per esempio da parte di Gustavo Bontadini, e fu al centro del dibattito al XVI Congresso nazionale della Società Filosofica Italiana (Bologna 1953). In quanto rifletteva in filosofia la tensione ideale e morale della Resistenza, venne gradualmente ad esaurirsi nel clima della ripresa. Vasa prese altre strade, mentre Dal Pra accentuò sempre di più l’impegno storiografico. Nello stesso tempo, instaurò un contatto più stretto e amichevole con Antonio Banfi, che durante la Resistenza aveva militato nelle file del Partito Comunista, e con il suo circolo, di cui facevano parte fra gli altri Remo Cantoni, Enzo Paci, Giulio Preti, Dino Formaggio e Luciano Anceschi. E fu soprattutto con Giulio Preti, fino alla sua scomparsa nel 1972, che mantenne stretti contatti svolgendo un dialogo teorico incessante.
Sul terreno storiografico il primo grande impegno consisté nel distaccare la storia della filosofia dalla sudditanza al dominio neo-idealistico, per restituirle consistenza autonoma e rinnovarne i metodi in consonanza con quanto era già avvenuto nel contesto europeo e nordamericano. Questo impegno si tradusse nella fondazione nel 1946, insieme a Ernesto Buonaiuti (morto in quello stesso anno e sostituito da Bruno Nardi) e Mario Untersteiner, della Rivista di Storia della Filosofia anch’essa edita al principio da Bocca (proseguita poi con il titolo Rivista Critica di Storia della Filosofia, con La Nuova Italia, e ora ritornata al titolo originario, con l’editore Franco Angeli). Norberto Bobbio, Giulio Preti, Andrea Vasa, Eugenio Garin, Antonio Santucci, Nicola Abbagnano, Paolo Rossi, Cesare Vasoli, Paolo Casini, ma anche Bertrand Russell, Rudolf Carnap, Richard Popkin e Charles Schmitt furono tra le grandi firme del nuovo periodico che rapidamente si impose a livello internazionale.
La Premessa al I fascicolo della Rivista fissò le coordinate. La Rivista si proponeva «di adempiere una funzione ben precisa e limitata nel campo della cultura filosofica: promuovere le ricerche e gli studi di storia della filosofia sul fondamento di indagini filologiche severamente condotte e in riferimento a problemi di interesse particolarmente vivo nella cultura del nostro tempo» (articolo ripreso in Dal Pra, Storia della filosofia e della storiografia filosofica, Milano 1996, p.19). Si trattava dunque di liberare la storia «dall’eccessivo pesare delle posizioni teoretiche», da «ogni elemento metafisico-dogmatico», «meta-storico o sopra-storico», ma anche di indirizzarla alla «problematicità», «all’apertura e alla concretezza» dello sviluppo storico. Dunque, né filologismo né astratta teoria, ma neppure rinuncia al «giudizio»10, piuttosto un intreccio continuo tra strutture teoriche, verifiche testuali e ricostruzioni storiografiche. Tra le nuove direzioni di ricerca Dal Pra indicava la storia della teoria storiografica, il rapporto centrale con la scienza, l’immersione nel campo più vasto della storia della cultura, realizzando un «contatto concreto colla viva esperienza umana in tutta la sua ricchezza» (ibid., pp. 20-21).
Questa nuova stagione storiografica si orientò decisamente verso lo studio dell’empirismo, che era già iniziato nel ‘42 con il volume su Condillac (Milano 1942) per proseguire con il volume su Hume (Milano 1949). Di quest’ultimo, nello stesso giro di anni, Dal Pra tradusse anche i Dialoghi sulla religione naturale (Milano 1947) e il Trattato delle passioni (Milano 1949). Seguirono la Lettera di un gentiluomo di Edimburgo, il grosso volume di Saggi e trattati morali, politici, letterari (con Emanuele Ronchetti, Torino 1974), le due Ricerche e una nuova traduzione dei Dialoghi (nelle Opere di Hume, Bari 1971). Quando Laterza pubblicò un volume celebrativo, raccogliendovi le testimonianze più prestigiose dei suoi autori, Dal Pra ascrisse all’editore il grande merito di aver reso disponibile in italiano «tutto Hume». Cominciava così quella che abbiamo chiamato la ‘traversata dell’empirismo’ (G. Paganini, La traversata dell’empirismo. Mario Dal Pra tra ricerche storiche e posizioni teoriche, in Rivista di Storia della Filosofia, 71 (2016) suppl. al n. 4, pp. 539-554) che condusse Dal Pra dall’empirismo classico del Settecento sino all’empirismo logico del Novecento e all’empirismo critico di Giulio Preti.
A differenza degli anni Quaranta, il clima era ora favorevole anche alla nascita del cosiddetto Neo-Illuminismo. Per iniziativa di Nicola Abbagnano, nel 1953, venne indetto a Torino il I convegno del movimento, a cui parteciparono, insieme a Dal Pra, Preti, Ludovico Geymonat, Eugenio Garin, Bobbio, fra gli altri. Tuttavia, né nella lettera di convocazione stesa da Abbagnano né nella dichiarazione conclusiva del convegno si parlava esplicitamente di empirismo; più genericamente la convocazione si riferiva a «un’interpretazione non metafisica della ricerca filosofica»e sottolineava l’urgenza dell’ «applicazione di tali criteri particolarmente ai rapporti tra indagine filosofica e ricerche scientifiche, come a quelli tra indagine filosofica e vita politica». A quella serie di convegni e al Centro di studi metodologici che li ospitò Dal Pra diede contributi specifici sulle questioni di metodo della storiografia filosofica (si veda in particolare la relazione Sul “superamento” nella storiografia filosofica, presentata al convegno del 1955 sul tema «Analisi del linguaggio storiografico» e ripresa poi in Storia della filosofia cit., pp. 73-83). Contemporaneamente, egli ampliava il raggio dei suoi interessi, come testimonia la serie davvero notevole di monografie pubblicate in pochi anni su temi ed epoche differenti: Lo Scetticismo greco (Milano 1950; nuova edizione riv. e aggiornata, Roma-Bari 1975); La storiografia filosofica antica (Milano 1950); nel 1951 uscirono a Milano, sempre da Fratelli Bocca (come i volumi qui sopra citati) studi medievali nuovi: Amalrico di Bène, Giovanni di Salibsury e Nicola di Autrecourt, oltre alla seconda edizione, interamente rifatta, dello Scoto Eriugena. La pubblicazione degli Scritti di logica di Pietro Abelardo (Firenze 1969; prima edizione con il titolo: Scritti filosofici, Milano 1954) consacrarono Dal Pra come uno dei massimi specialisti internazionali di questo autore, di cui aveva tradotto anche il Conosci te stesso (Vicenza 1941; seconda edizione interamente rielaborata, Firenze 1976).
In particolare il volume su Hume e quello sullo scetticismo consentivano di esplorare fino in fondo l’opzione anti-dogmatica che si era già palesata con il trascendentalismo. La prima edizione di entrambi i libri rifletteva questa posizione, ma la loro successiva rielaborazione si rivolse nel senso dell’ «empirismo critico» proposto da Preti. Nel ’50, al termine del volume sullo Scetticismo greco, dopo quattrocento pagine di analisi documentate con acribia filologica e sicura comprensione storica, Dal Pra concludeva che il dilemma tra scetticismo e dogmatismo era inaccettabile perché entrambi si basavano su elementi «teoricistici», che finivano per «accecarli» ambedue. Invece, nell’ampia introduzione alla nuova edizione (Roma-Bari 1975), presentò lo scetticismo come «l’autocritica del realismo» e più in generale del dualismo metafisico apparenza-realtà, con il suo modello rappresentazionistico del conoscere. Indicava inoltre una via d’uscita dal ‘paradosso’ dello scetticismo nella costruzione della gnoseologia come «ontologia critica», che sfociasse in «una nuova forma di realismo critico-filosofico» (ibid., p. 15).
Ma fu soprattutto il volume su Hume, interamente rifatto e pubblicato con il nuovo titolo David Hume e la scienza della natura umana (Roma-Bari 1973), a evidenziare il distacco dall’originaria ispirazione ‘trascendentalistica’. Nel ’49, Dal Pra sottolineava ancora i limiti insuperabili della filosofia humeana, descrivendola così: poiché «non ha altra giustificazione che quella di presentarsi come una notazione psicologica, come un modo di sentire», alla fine incorse in un «fallimento» (Hume, Milano 1949, p. 354). L’autore aveva ben presente la conclusione aporetica del I libro del Treatise e ne apprezzava anche l’onestà, giacché riconoscere uno «scacco», come aveva fatto Hume, era pur sempre un segno di «eroismo spietato», anche se, aggiungeva, metteva capo al «sacrificio dell’intero edificio della sua filosofia» (ibid., p. 355). «Il richiamo di Hume all’esperienza – scriveva allora Dal Pra – ha principalmente un valore polemico nella lotta contro il razionalismo [...] Ma egli non si avvede di sostituire una fede a un’altra fede, ad un dogma un altro dogma» (ibid., p. 48). Alla base di questo fallimento vi erano l’immediatezza dell’esperienza come dato e quindi la descrizione della realtà della natura umana come un dato immediato. Questi capisaldi dell’empirismo non trovavano adeguata «giustificazione teoretica», ma solo una mera «accettazione pragmatica». Empirismo e razionalismo si presentavano entrambi come il risultato di un’«ipostatizzazione teoricistica di posizioni pragmatiche» (ibid., p. 51-52), anche se il primo risultava comunque preferibile al secondo in quanto portava in sé la consapevolezza della radice del proprio filosofare, cioè la natura «pratico-istintiva della conoscenza».
Nel rifacimento del 1973 lo scenario cambiò e di molto. Già in apertura del volume, l’autore affermò di essere pervenuto ad «un’interpretazione [...] più equilibrata e composta» del pensiero di Hume: sia per aver «riconsiderato la prospettiva generale» alla luce delle «correnti contemporanee dell’empirismo», sia per aver «più efficacemente “storicizzato”» la figura dello scozzese, mettendo a frutto più di vent’anni di ricerche (Hume e la scienza della natura umana, Roma-Bari 1973, pp. V-VI). I cambiamenti erano notevoli. Si prenda ad esempio un capitolo chiave, il capitolo IV. Nel ’49 esso si intitolava «La base dogmatica del sistema», mentre divenne nel ’73: «La concezione unitaria della natura umana» (ibid., pp. 63-83). Non si riteneva più che il nominalismo e lo scetticismo professati da Hume costituissero ostacoli insormontabili «nei confronti della scienza universale della natura umana». Anche il fatto di aver collocato, alla base del sapere scientifico, un complesso «psicologico-istintivo» non significava di per sé che si dovesse «assumere un atteggiamento negativo verso la scienza in genere e la scienza della natura umana in particolare» (ibid., p. 73). Certo permanevano delle riserve critiche nei riguardi dell’impianto ‘classico’ dell’empirismo humeano, ma esse non derivavano più dall’accusa di ‘teoreticismo’, semmai da una sorta di fallacia naturalistica che elevava il piano descrittivo della psicologia a norma dell’epistemologia. Guardando all’indietro, Dal Pra scrisse in Ragione e storia di aver voluto staccare il pensiero di Hume dalle interpretazioni positivistiche per soffermarsi piuttosto su un diverso tipo di «enigma» consistente nella «contraddittorietà della nozione di istinto» (M. Dal Pra - F. Minazzi, 1992, p. 210). Questa vera e propria «bipolarità» avrebbe fatto di Hume «un moralista che preferisce l’istinto alla ragione, ma che, quanto più preferisce l’istinto, tanto più sviluppa la ragione» (ibid., p. 211). Il piano della «scienza della natura umana», che quasi non trovava spazio nel ’49 divenne invece la chiave di volta nel ’73. Per «scienza della natura umana» si doveva intendere un insieme di idee generali che hanno, come le ipotesi, la funzione di ‘anticipare’ l’esperienza, senza mai esserne saturate, pur essendo concepite unicamente in funzione dei dati empirici. «Nella effettiva costruzione della filosofia di Hume bisogna cogliere la funzione attiva e costitutiva delle idee generali che, pur essendo volte a connettere ed a spiegare i fatti osservabili, non ne derivano in maniera meccanica e passiva; l’empirismo, in tale prospettiva, va piuttosto dalle idee generali ai fatti osservabili, che non nella direzione opposta: si tratta insomma, più di un empirismo critico, che non di un empirismo passivo» (Hume e la scienza della natura umana, p. 82).
Si delineavano così i temi dell’astrazione e dell’ipotesi criticamente controllata, istanze entrambe tipiche dell’intervento del soggetto, a cui Dal Pra dava sempre più spazio pur nei limiti dell’impianto empiristico (si veda il discorso dell’Aquila L’empirismo contemporaneo e l’iniziativa del soggetto, tenuto al XXIV Congresso nazionale della S.F.I.). La «scienza della natura umana» di cui parlava Hume, la «metafisica guardinga» a cui si era riferito Condillac, potevano essere assimilate alle ontologie regionali e formali teorizzate da Preti: reti di astrazioni controllate ma mai saturate dall’esperienza. Nell’empirismo degli illuministi Dal Pra vedeva già prefigurata una sorta di ontologia regionale dell’«uomo generico» (Hume e la scienza della natura umana, p. 81). La storia dell’empirismo ‘classico’ e la teoria dell’ empirismo ‘critico’ avanzata da Preti si incontravano nello ‘storicismo critico’ da ultimo teorizzato da Dal Pra.
Come si vede, lo storico della filosofia continuava a ripensare se stesso e la propria opera, mantenendo un costante dialogo con le tematiche della filosofia contemporanea, sia italiana sia internazionale. Tra i tanti lavori dedicati ai contemporanei, molti furono riuniti in volumi, tra i quali bisogna ricordare: Logica, esperienza e prassi (Napoli 1976), Studi sul pragmatismo italiano (Napoli 1984), Studi sull’empirismo critico di Giulio Preti (Napoli 988), Filosofi del Novecento (Milano 1989, in cui si trovano studi su Banfi, Dewey, Gramsci, Russell, Abbagnano). In questo quadro, un polo importante della ricerca di Dal Pra riguardò il rapporto tra esperienza, teoria e prassi. Il pragmatismo era un riferimento obbligato, sia per l’Italia (costante l’interesse per Giovanni Vailati, di cui fece editare l’Epistolario 1891-1909, a cura di G. Lanaro, Torino 1971), sia nel panorama internazionale con John Dewey, cui dedicò vari saggi e di cui fece tradurre alcuni libri importanti. Su questo sfondo, il rapporto tra pensiero e realtà si configurava come un’integrazione, o meglio come una «transazione» per riprendere il termine usato da Dewey e Bentley. Nella transazione Dal Pra vedeva «un criterio di integrazione degli esseri e delle cose nel processo che li produce» (Introduzione a Dewey -Bentley, Conoscenza e transazione, trad. it., Firenze 1974, p. XXI): era questa un’eredità, ma solo parziale, della dialettica hegeliana, poiché ai pragmatisti sfuggiva la dialettica come antitesi e come strumento di sviluppo del reale e della storia. Dal Pra ritornava dunque a leggere Hegel, ma soprattutto il giovane Marx, contrapposto al marxismo del materialismo dogmatico che anche Dewey aveva avversato. Preparandosi con corsi universitari, che divennero anche un libro (Il pensiero filosofico di Marx dal 1835 al 1848, con particolare riguardo alla filosofia della prassi, Milano 1959), affrontò direttamente il problema della dialettica in una monografia (La dialettica in Marx. Dagli scritti giovanili alla ‘Critica dell’economia politica’, Roma-Bari 1965, seconda edizione 1972) che si poneva al centro dei dibattiti teorici di quegli anni, tra la Scuola di Francoforte, Marcuse e Popper. Dal Pra faceva sua una lettura della dialettica come metodo ‘critico-euristico’ e mirava a integrarla nella riflessione epistemologica e analitica, a cui poteva fornire una consapevolezza pratico-storica, senza tuttavia ricadere nella critica demolitrice della scienza tipica dei Francofortesi.
Negli ultimi anni Dal Pra parlava sovente di «ragione minuscola» (Il razionalismo critico, in A. Bausola et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1985, pp. 31-92) per alludere a quell’atteggiamento di moderazione critica, consapevole dei limiti della ragione, che fu tipica della razionalità illuministica. Questa ragione ‘minuscola’ non era tuttavia né il pensiero ‘debole’ né la ragione in ‘crisi’ di cui si discuteva negli anni Ottanta: aver tenuto fermo con Hume il riferimento all’esperienza come criterio di controllo dei significati e di verifica delle proposizioni significanti non tautologiche fece sì che la prospettata ‘scienza della natura umana’ mantenesse i contatti con il sapere scientifico – caratteristica tipica della stagione neo-illuministica – senza per questo ricadere né in un verificazionismo stretto né in un’interpretazione estensiva dell’empirismo logico come «nuovo razionalismo», secondo la formula geymonatiana del 1946. La ‘ragione’ dell’ «empirismo critico» conservava, del vecchio come del nuovo Illuminismo, i tratti benigni della vicinanza all’esperienza, e rifuggiva dalle esagerazioni minacciose dei Francofortesi così come dalle invettive heideggeriane sul presunto ‘destino’ della metafisica occidentale. Riflettendo sul lungo arco che dal problematicismo banfiano aveva condotto alla diaspora del neorazionalismo, sui dissidi tra Garin, Preti e Geymonat, Dal Pra concludeva con una nota ottimistica, auspicando di riprendere «quel senso della ragione che negli anni Cinquanta ebbe una sua, anche se breve, primavera» (ibid., p. 92).
Dal Pra seppe unire all’attività di studioso un impegno costante di insegnamento e di organizzatore di cultura. Conseguita la libera docenza il 16 luglio 1943 (presidente della commissione Giovanni Gentile), venne nominato professore straordinario di storia della filosofia medievale nel ’51 all’Università Statale di Milano, per ottenere poi la nomina di ordinario della stessa disciplina nel 1954; due anni dopo, nel 1956, venne la nomina a ordinario di storia della filosofia, come successore di Antonio Banfi, sempre nell’Università di Milano; venne collocato a riposo nel 1986 e l’anno successivo dichiarato Emerito. Preside della facoltà di Lettere e Filosofia dal ‘67 al ‘69, si trovò immerso negli anni della contestazione prima e del terrorismo poi. Il suo impegno nelle istituzioni, la vicinanza alla politica della sinistra, il dialogo con le richieste degli studenti per un’università critica e non più élitaria, fecero di lui a Milano e a livello nazionale una figura di riferimento come professore e intellettuale ‘democratico’ teso alla riforma della società e della scuola, senza nulla detrarre al rigore degli studi e alla serietà del lavoro. Presidente della Società Filosofica Italiana dal ‘71 al ‘73, da quella tribuna come dalla Rivista e dai giornali presentò numerosi progetti e riflessioni sulla riforma dell’insegnamento, in particolare della filosofia. La sua cattedra all’Università Statale attrasse diverse centinaia di studenti ogni anno, con un carico di lavoro che non ebbe eguali in Italia. Questa attività, svolta con passione e scrupolo, gli dette l’autorevolezza per parlare a intere generazioni di giovani, nella città e nella regione che più di altre era al centro di trasformazioni vitali della società italiana. In questa prospettiva di diffusione del sapere, vanno ricordati sia il fortunato manuale di liceo (Storia della filosofia) che ebbe innumerevoli edizioni, sia la direzione della grande Storia della Filosofia pubblicata da Vallardi (10 voll, Milano 1975-78, il cui aggiornamento fu completato su sua indicazione da Gianni Paganini, con l’aggiunta di due nuovi tomi interamente dedicati alla seconda metà del Novecento: vol. XI, due tomi, Padova 1998). Si aggiungano la fondazione e direzione del Centro C.N.R. per la filosofia del ‘500 e del ‘600 in relazione ai problemi della scienza (durante la sua direzione nel consiglio scientifico sedettero F. Barone, R. Crippa, C.A. Viano, G. Paganini, A. Pacchi ); la direzione di importanti collane filosofiche come i Pensatori del nostro tempo (La Nuova Italia), ove comparvero testi di Cassirer, Carnap, Ayer, Marcuse, Dewey, i Saggi filosofici di Giulio Preti, i Classici della Filosofia (La Nuova Italia), la collana Filosofia di Franco Angeli (Milano) e la collana del Centro C.N.R.. fitta di studi, edizioni critiche e bibliografie.
Socio dell’Accademia dei Lincei, dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, dell’Accademia Olimpica di Vicenza, Dal Pra nel 1975 fu insignito del diploma di I classe e della medaglia d’oro come benemerito della scuola, della cultura e dell’arte. Ricevette nel 1990 il Premio ‘Antonio Feltrinelli’ dell’Accademia dei Lincei per le scienze filosofiche.
Morì a Milano il 21 gennaio 1992.
La bibliografia degli scritti di Dal Pra (sino al 1983) si trova in appendice al volume: La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti a Mario Dal Pra, introduzione di E. Garin, Milano 1984, pp. 751-772. Fondamentale (anche per le integrazioni storiche e bibliografiche) è l’autobiografia in forma di dialogo: M. Dal Pra - F. Minazzi, Ragione e storia. Mezzo secolo di filosofia italiana, Milano 1992. Si vedano: A. Pacchi, Il filosofo e l’educatore, in Comune di Montecchio Maggiore. In onore di Mario Dal Pra, Quaderni della Biblioteca Civica,1988, pp. 12-28; E. Rambaldi, Ricordo di Mario Dal Pra, in Rivista di Storia della Filosofia, 47 (1992), pp. 9-45; Mario Dal Pra e i cinquant’anni della “Rivista di storia della filosofia”, a cura di M. A. Del Torre, Milano 1998; G. Paganini, La traversata dell'empirismo. Mario Dal Pra tra ricerche storiche e posizioni teoriche, in Rivista di Storia della Filosofia, 71(2016), suppl. al n. 4, pp. 539-554; Mario Dal Pra nella “scuola di Milano”, a cura di F. Minazzi, Sesto S. Giovanni 2018.