EQUICOLA, Mario
Nacque ad Alvito (Frosinone) verso il 1470.
Della sua famiglia e del suo vero cognome non abbiamo notizie sicure. Secondo il Santoro - a tutt'oggi il maggior biografo dell'E. - egli sarebbe stato figlio illegittimo di Giampaolo Cantelmo, e questa origine spiegherebbe il suo duraturo legame con la famiglia Cantelmo.
Dopo i primi rudimenti letterari impartitigli in casa Cantelmo, passò ancor giovinetto a Napoli, dove studiò diritto senza però arrivare alla laurea. Qui fece parte dell'Accademia Pontaniana con nome Equicola (non Equicolo come pure alcune volte si firmò), nome derivato dagli Equicoli che anticamente abitarono la sua terra natia. Nell'Accademia strinse rapporti d'amicizia col Pontano, col Parrasio, col Nifo (al quale dedicherà più tardi il De opportunitate) e col Sannazzaro. In seguito all'esilio di G. Cantelmo, dovuto alla sua partecipazione alla "congiura dei baroni", l'E. probabilmente passò dei periodi imprecisabili a Roma e a Firenze per studiare, rispettivamente, con P. Leto e G. Lascari, ricordati in alcune lettere come suoi "precettori". A partire dal 1494 - anno in cui Carlo VIII scese alla conquista dell'Italia meridionale - lo troviamo a fianco dei Cantelmo, schieratisi col partito filoangioino. Partecipò infatti alla battaglia di Atella (9 luglio 1496), ricordata nella Chronica de Mantua, e fu presente alla caduta di Sora, sede del feudo dei Cantelmo, nelle mani del re Federico. Questa disfatta divise i tre fratelli Cantelmo: Giampaolo andò in esilio e morì in povertà, Sigismondo si trasferì a Ferrara e Fernando si conciliò col re Federico. L'E. rimase a servizio di quest'ultimo. Nel giugno del 1497 fece parte del corteo che accompagnava Isabella Del Balzo a Barletta ad incontrare il marito Federico d'Aragona. Morto Fernando Cantelmo nella battaglia di Diano (dicembre 1497), l'E. passò a Ferrara presso Sigismondo, assumendo il ruolo di segretario della moglie Margherita Maloselli.
A Ferrara l'E. entrò ben presto in contatto con la corte estense, sodalizzando con Ariosto, Bembo, C. Calcagnini, Collenuccio ed altri. E a Ferrara esordì coi suoi primi lavori, il De religione libellus e l'Oratio dicta Papiae, stampate insieme (probabilmente a Ferrara nel 1499, e poi a Monaco di Baviera da A. Stoklio, 1555).
Nella prima l'E. sostiene che le religioni erano un prodotto naturale in tutte le civiltà antiche ed esse prepararono l'avvento del monoteismo cristiano. Nella seconda - una sorta di prolusione letta allo Studio di Pavia nel 1498 - si definiscono i campi specifici delle tre facoltà (teologia, fisica, diritto) e se ne esaminano le rispettive funzioni.
Nel 1499 pronunciò a Milano, in presenza del cardinale Ippolito d'Este, l'orazione De Passione Domini che fu pubblicata forse nello stesso anno (se ne conoscono due soli esemplari contenenti redazioni leggermente diverse). A chiudere questa prima fase della produzione venne il De mulieribus (Mantova 1501), ricordata dall'E. nel Libro de natura de amore col titolo di "Perigynecon".
La tesi sostenuta in quest'opuscoletto rarissimo (Fahy ne ha rinvenuto un esemplare alla Vaticana) è che le donne siano per natura uguali agli uomini e che le disuguaglianze sociali siano pertanto ingiuste. L'E. chiude l'opera con una serie di medaglioni fra cui non può mancare Margherita Cantelmo, ispiratrice dell'opera.
L'otium letterario dell'E. fu interrotto quando, scoppiata la guerra fra Francia e Spagna per il dominio dell'Italia meridionale, Sigismondo Cantelmo intravvide la possibilità di riavere il suo feudo. L'E. lo seguì nelle sue imprese militari e partecipò alla battaglia del Garigliano (28 dic. 1503) in cui, con la sconfitta dei Francesi, svanirono per sempre le speranze del Cantelmo. Tornato a Ferrara nel 1504, l'E. fu assegnato dalla corte alla missione diplomatica inviata a Blois per seguire le trattative di pace fra Spagna e Francia. Qui l'E. entrò in contatto coi circoli dell'umanesimo francese e seppe apprezzarne con acume l'alto livello culturale: lo prova una lettera (Parigi, 11 dic. 1504) a Francesco Soderini, stampata tra le testimonianze gratulatorie nelle Totius Aristotelis philosophiae naturalis paraphrases di J. Lefèvre d'Etaples. Al periodo francese risale anche la stesura del dialogo Nec spe nec metu, che verrà pubblicato più tardi. Compiuta la missione, l'E. rientrò a Ferrara e, dopo un breve soggiorno a Mantova (settembre 1506) alla corte di Isabella Gonzaga, fu inviato da Ippolito d'Este a Napoli in ambasceria presso Ferdinando il Cattolico che visitava il Regno napoletano. L'E. rimase a Napoli dalla fine del 1506 al maggio dell'anno successivo. Riallacciò i vecchi rapporti coi cenacoli letterari napoletani e pubblicò (Napoli, febbraio 1507) il De opportunitate.
Questo dialogo prende lo spunto dall'impresa nobiliare di Ippolito d'Este (un falco che sostiene col becco i pesi dell'orologio) per discorrere sui geroglifici, sulle imprese usate dagli antichi, per passar quindi a definire la natura del tempo e del modo più opportuno di utilizzarlo.
Nel novembre del 1507 l'E. accompagnò Margherita Cantelmo presso la corte di Isabella d'Este, marchesa di Mantova, la quale nell'autunno successivo lo assunse come suo precettore. In questo ruolo, tenuto fino al 1519, l'E. seguiva Isabella nelle letture e la consigliava sull'acquisto di libri. Per la sua protettrice volse in volgare le Icone di Filostrato basandosi sulla versione latina di Demetrio Mosco (la traduzione dell'E. si conserva a Parigi: Bibl. nat., ms. 77573.3) . Nel 1509, incoraggiato da Isabella, pubblicò l'Apologia pro Gallis intesa ad assolvere i Francesi dalla taccia di codardia (taccia ancora viva dopo la battaglia del Garigliano) e a difendere la linea politica della sua protettrice che quell'anno reggeva lo Stato, in assenza del consorte Francesco II Gonzaga prigioniero a Venezia.
L'Apologia si apre con la descrizione fisica della Francia; segue una rassegna delle virtù militari e civiche dei Francesi, e si chiude con una storia della monarchia francese. In quest'ultima parte, la più ampia, l'E. difende le origini celtiche della monarchia francese opponendosi a una lunga tradizione storica che le attribuiva origini troiane. L'Apologia echeggia (lo ha provato Simone) una corrente filofrancese dell'unianesimo italiano e alcuni miti nazionalistici di quello francese: non è un caso, pertanto, se l'opera fu tradotta in francese nel 1550.
La presenza dell'E. nella cultura italiana doveva contare alquanto se nel 1512 fu bersaglio di due satire: una è il Dialogus in lingua mairiopinea; l'altra è l'Epistula in sex linguis (Bologna 1512).
Del Dialogus che si conserva manoscritto (ne ha pubblicato qualche stralcio il Sabbadini) ignoriamo l'autore e le sue motivazioni. Non è chiaro, per esempio, se sia legato in qualche modo ad una "baruffa" di corte provocata dal Tebaldeo con una serie di sonetti che irridevano gli amori dell'E. per una Isabella Lavagnola, damigella di corte, e un suo supposto vanto d'esser il miglior scrittore in volgare. Ancor meno chiara è l'associazione dell'E. a G. B. Pio (onde l'aggettivo "mariopionea"), noto per la sua lingua arcaizzante e intrisa di stilemi apuleiani. L'accoppiamento sorprende alquanto poiché l'E. è scrittore latino elegante, immune dagli abusi linguistici del Pio. Comunque stiano le cose, è vero che la lingua dell'E. (anche il volgare, di cui non risulta avesse dato ancora prove) viene attaccata anche nell'Epistula. Quest'opuscolo fu attribuito dal Niceron in poi all'E. stesso; ma il Dionisotti (1968), che ne ha rinvenuto un esemplare alla Vaticana, l'ha restituito al vero autore, a Ercole di Parione, cioè Pasquino. A un'altra epistola satirica contro la lingua dell'E. rimandano le prime pagine del Nec spe nec metu.
Il dialogo Nec spe nec metu (che il Santoro riteneva pubblicato nel 1505 e quindi perduto) apparve nel 1513 forse a Mantova.
Gli interlocutori - Calandra, Stazio Gadio e G. B. Spagnoli (Baptista Mantuanus) - prendono lo spunto dal motto dell'emblema di Isabella d'Este per discorrere sulla speranza e sul timore che precedono l'attingimento di un bene, e concludono che solo il giusto mezzo fra queste passioni consente di viver saggiamente. La dedica del dialogo a Giuliano de' Medici risponde ad un calcolo diplomatico. Già nel 1512 l'E. aveva accompagnato a Roma Alfonso d'Este che cercava una conciliazione con Giulio II; e sempre nello stesso anno s'era recato ad Urbino per dissuadere Francesco Maria Della Rovere dal prestarsi come strumento delle mire papali su Ferrara. La morte di Giulio II (febbraio 1513) e l'elezione di Leone X, della famiglia medicea, sventò il pericolo d'una guerra contro Ferrara. L'E. fu inviato quale ambasciatore a Roma per congratularsi col papa, ed ebbe facile accesso alla Curia grazie ad amici quali il Bibbiena e l'Accolti. E lo stesso calcolo diplomatico doveva presiedere alla stesura dell'epistola Ad invictissimum Maximilianum Sfortiam, ducem Mediolani, de liberatione Italiae (Mantova, 16 giugno 1513), scritta in occasione della vittoria che il duca di Milano, con l'appoggio di Leone X, riportò contro i Francesi a Novara il 6 giugno. È anche vero, però, che l'entusiamo ancora vivo a pochi giorni dalla vittoria dettava gli iperbolici paragoni di Massimiliano con Ercole, Camillo, Marcello e, soprattutto, con Scipione liberatore dell'Italia.
Gli anni fra il 1514 e il 1519 furono anni intensi di viaggi in compagnia di Isabella, viaggi prima in varie città italiane (Roma, Napoli, Genova), quindi in Provenza. Di quest'ultimo viaggio (estate-autunno 1517) l'E. lasciò un ragguaglio nel Dominae Isabellae Estensis Mantuae principis iter in Narbonensem Galliam (s.l. e s.d., ma forse 1532 secondo L. Chiodi), in cui osservazioni folkloriche e geografiche si associano a ricordi di storia classica. In quegli anni compose anche una Genealogia de li signori da Este principi di Ferrara, rimasta manoscritta, contenente una breve storia dei principi di Ferrara (903-1505). Allo stesso periodo risale la stesura dell'orazione In conservatione (ma si legga "consacratione") divae Osannae Andreasiae mantuanae (s.l. e s.d.). L'orazione fu pronunciata probabilmente nel 1513 in occasione della beatificazione di Osanna Andreasi, cara ai Gonzaga; ma alcune allusioni a eventi del 1517 e 1518 fanno pensare a rielaborazioni seriori e a una data di stampa non anteriore al 1518. Fra il 1518 e il 1519 pubblicò tre Suasoriae per la crociata contro il pericolo ottomano; solo la prima, Ad Leonem X pont. opt. max. et christianos principes suasoria in Turcas (Mantova 1518?), sopravvive in forma integrale.
Nel 1519, morti Francesco II Gonzaga e il suo segretario B. Capilupi, l'E. fu nominato segretario di Federico II Gonzaga succeduto al padre. In questo ruolo l'E. visse i suoi ultimi anni. Fu sagace consigliere del suo signore (che nel 1520 lo onorò della cittadinanza mantovana e gli donò la castellania di Canedole), specialmente durante la guerra contro la Francia che egli condusse a fianco del papa e dell'imperatore Carlo V. Già malfermo di salute, l'E. lo seguì nelle sue campagne militari. Nonostante questi impegni trovò modo di comporre (1523) tre orazioni, oggi perdute, in lode del doge Andrea Gritti (fu per questo nominato poeta laureato e insignito del titolo di "cavaliere degli sproni d'oro"), e di completare le sue maggiori opere, la Chronica de Mantua e il Libro de natura de amore. Sono entrambe opere in volgare: l'ultimo periodo della produzione dell'E. costituisce invero un "ciclo in volgare".
Della Chronica de Mantua ignoriamo l'editore ma conosciamo la data precisa di pubblicazione che risulta dal colophon: 10 luglio 1521. Poiché in appendice figurano due brevi curiali, firmati rispettivamente dal Bembo e dal Sadoleto (1º luglio 1521), indicanti la nomina di Federico a capitano generale della Chiesa (i brevi furono presentati a Federico "il quinto di quintile"), bisogna supporre interventi all'ultimo momento su un testo già stampato. Ciò potrebbe anche spiegare il fatto che i pochi esemplari conservati, aventi lo stesso colophon, differiscano in vari punti: più che a due edizioni diverse dello stesso anno, si può supporre che l'E. abbia apportato delle correzioni a tiratura già avviata. È certo, in ogni modo, che la stesura dell'opera risale ad alcuni anni precedenti: dai proemi al quarto e quinto libro - dedicati rispettivamente a Federico e a Giovanni Gonzaga - oltre che da vari altri dati interni si deduce che i primi quattro libri furono stesi prima della morte di Francesco al quale, del resto, l'opera è dedicata. La Chronica si apre con una rassegna dei miti classici relativi alla fondazione di Mantova e si chiude con la ricordata nomina di Federico. La narrazione si articola per lo più puntando a costruire medaglioni biografici dei vari Gonzaga. L'E. basa la sua ricerca sugli storici di Mantova che lo precedettero (Platina, Preti, Aliprandi, Corio, ecc.), ma ne corregge spesso gli errori utilizzando una documentazione archivistica di prima mano. Basterebbe questo rigore critico per dare all'E. un posto singolare nella tradizione storiografica umanistica. Da tale tradizione egli s'allontanava anche per il rifiuto d'infarcire d'orazioni e di panegirici il racconto degli eventi, e per la sua renitenza ad usar la storia con finalità moralistiche e retoriche, nonché per la sua decisione di scrivere in volgare. Non mancano però le "digressioni", come l'A. stesso le definisce. Fra queste è notevole il medaglione di Sordello e l'edizione del partimen fra il trovatore mantovano e Peire Guilhem: è il primo testo provenzale a stampa. Notevoli sono anche le digressioni sull'origine delle imprese; le difesa della storia come "lectione veramente signorile", cioè indipendente da altre discipline, e la difesa del volgare come lingua atta agli scritti di storia. Ma il volgare dell'E., sollecito di una brevitas "per non fastidire in cose soverchie e redundanti", quella sua lingua "senza fuoco", attenta alla "purità de proprie, consuete et usitate parole... e collocando li verbi a suo loco senza affectatione", quella sua lingua, insomma, esosamente legata agli ideali della lingua cortigiana, costituirono il maggior ostacolo al successo dell'opera. Nel 1574 F. Sansovino pensava di "rifarla" in toscano, ma questo progetto fu realizzato da Benedetto Osanna nel 1607 (ristampa Bologna 1968).
L'opera cui l'E. deve la sua maggior fama è il Libro de natura de amore. Pubblicato a Venezia (colophon 23 giugno 1525), il Libro ebbe un'ampia fortuna: se ne conoscono quattordici edizioni (l'ultima è del 1607) comprese quelle dei rifacimenti toscani di L. Dolce e T. Porcacchi; fu tradotto in francese e si hanno indicazioni d'una traduzione in spagnolo. Il Libro, per la sua mole e per la ricchezza dei materiali raccoltivi, dovette avere una gestazione assai lunga risalente addirittura agli anni napoletani. Per lungo tempo s'è creduto all'esistenza di una redazione originale in latino. Nel 1889 il Renier segnalò un ms. dell'opera (Bibl. naz. univ. di Torino) che, oltre a presentare una redazione dal punto di vista linguistico leggermente diversa da quella arrivata alla stampa, contiene una lettera prefatoria indirizzata a Isabella e firmata da Francesco Prudenzio, nipote dell'E., il quale dichiara d'aver tradotto il Libro dal latino. Ma nel 1961 la Castagno ha restituito all'E. l'autografia della lettera per cui risulta che il ricorso ad una proclamata traduzione non sia altro che una finzione letteraria, anche se questa non esclude la possibilità che la raccolta dei materiali fosse condotta originariamente in latino.
L'opera si divide in sei libri. Nel primo vengono riassunte le teorie sull'amore degli autori delle origini da Guittone a Boccaccio (l'unica eccezione non italiana è il Roman de la Rose), dei filosofi umanistici (Ficino, G. e F. Pico della Mirandola, Cattani) e dei trattatisti contemporanei, dal Fregoso all'Alberti, al Bembo, all'Edo e al Calandra. Come già il Bembo, dunque, anche l'E. stabilisce una continuità fra la letteratura amorosa delle origini e le teorie neoplatoniche dell'umanesimo; ma, a differenza del Bembo, egli non rivaluta tanto quella letteratura per il suo valore letterario e per quel che di "neoplatonismo" vi può essere, quanto per il suo apporto tematico alla conoscenza dell'amore, e per la topica della letteratura amorosa. Nel secondo libro egli studia gli "affetti" alla cui origine starebbe l'amor sui. Vi si studiano i sinonimi d'amore e come questo si divida in "celeste" (diviso a sua volta in "divino", cioè amore di Dio per le creature, e "angelico", cioè amore delle creature per Dio) e "umano" (suddiviso in "naturale" e "accidentale"). Comune denominatore di questi amori è la tensione verso il bello che consiste nell'armonia e nella bontà dell'oggetto amato. Nel terzo libro si analizzano questi tipi d'amore meno quello "accidentale", cioè sensuale e sessuale, al quale è riservato il quarto libro. Nel quinto libro si enumerano gli effetti dell'amore erotico e le virtù e le maniere che gli amanti devono avere per accattivarsi "la benivolentia" dell'amata. Questo libro si chiude con una rassegna dei poeti classici e romanzi e della loro topica amorosa. Importantissima, in questa sezione, è la rassegna dei trovatori in quanto costituisce il primo tentativo di una storia della poesia provenzale (Debenedetti). L'ultimo libro ha per argomento "il fine dell'amore" che non può esser altro che Dio giacché l'amore terreno, pur giustificato ai fini della provvidenza, è caduco, per cui bisogna perseguirlo sempre con moderazione e mai come fine a se stesso.
Questo rapido schema del contenuto del Libro non rende conto dell'imponente documentazione classica, patristica e romanza dispiegata dall'E. a supporto delle sue tesi. E non rende conto neppure della parte svolta dalla tradizione medica sulla malinconia e sugli effetti dell'eros, né delle digressioni più o meno estese su problemi linguistici, sulle superstizioni degli amanti, sulla loro farmacopea, sulla cabala, sull'astrologia, né di tanti altri temi. La varia e densa erudizione dell'E., frutto dell'enciclopedismo umanistico, dà al Libro un taglio veramente enciclopedico che doveva farlo sentire, già al momento della sua apparizione, come cosa di vecchio stampo: si pensi che vent'anni prima il Bembo aveva impostato con altri fini, con altra eleganza e con soluzioni culturalmente ben più feconde il problema dell'amore negli Asolani. Ma è anche vero che proprio questo carattere enciclopedico favorì la fortuna del Libro grazie all'insostituibile contributo ch'esso porgeva all'euristica dei lettori italiani e stranieri.
L'E. morì a Mantova di febbre terzana il 26 luglio del 1525, un mese dopo la pubblicazione della sua opera maggiore. Fu sepolto con onori nella cappella del battistero della chiesa di S. Pietro.
Postume apparvero le Institutioni al comporre ogni sorte di rima della lingua volgare con un eruditissimo discorso della pittura e con molte segrete allegorie circa le Muse et la Poesia (Milano 1541 e Venezia 1555). Non pare che quest'opera si possa identificare con il trattato "de ortu linguae latinae, et ut altera (scil. l'italiano) facta sit" di cui l'E. scrive a G. Bardelloni nel 1508, o con l'Osservantia de la italica lingua che l'E. inviò in esame a G. Verità nel 1520: per quel che possiamo sapere del contenuto di queste due opere, che non furono mai pubblicate, esse non avevano niente in comune con le Institutioni. Lacomposizione delle Institutioni si fa risalire a una data anteriore al 1521 poiché in un passo del primo libro della Chronica (p. 18 n.n. dell'ed. del 1521) l'E. accenna a delle "institutioni". Sennonché questa datazione crea delle perplessità: se si ricorda che il primo libro della Chronica era già composto prima del 1519, non si capisce come l'E. accenni ad una sua precedente opera in cui figura una delle "annotazioni" del Claricio all'Amèto boccacciano stampato a Milano nel 1520. Ma poiché il contesto del passo in questione e l'argomento cui rimanda sembra indicare un trattato su temi di araldica di cui non è traccia nelle Institutioni, bisognerà pensare che l'E. alludesse ad un'opera perduta anziché a un trattato di poesia. Tutte le perplessità cadono se portiamo la data di composizione delle Institutioni a dopo il 1521 e, verosimilmente, verso gli ultimissimi anni di vita dell'Equicola. Le Institutioni hanno infatti il carattere di un'opera non ultimata, ben sviluppata nelle prime parti e corrivamente conclusa. Inoltre, la patina linguistica e alcuni appunti finali siglati "BAN" (probabilmente "Bandello" secondo un suggerimento di Dionisotti) fanno pensare che l'originale dell'E. arrivò in tipografia alquanto ritoccato. Comunque stiano le cose, le Institutioni rimangono un'opera importante. Dopo un raffronto fra pittura e poesia a tutto vantaggio di quest'ultima, l'E. procede a fare un'analisi dei progressi della lirica italiana del Due e del Trecento; passa quindi a studiare alcuni generi metrici, e chiude il trattato con rapide note di prosodia e dei tipi di rima. Le Institutioni sono dunque un'altra espressione degli interessi dell'E. per la poesia delle origini e precorrono con notevole anticipo le ricerche affini di un Trissino o di un Tolomei.
Nel 1889 D. Santoro aggiungeva al canone dell'E. Ilnovo corteggiano - De vita cauta e morale di cui rinvenne un esemplare (senza indicazioni d'autore, di data e d'editore) nella Bibl. comunale di Siena, che un'indicazione a penna attribuiva all'Equicola. E poiché l'Alvetano in un passo del Libro de natura de amore alludeva ad un suo libretto sul "buon cortegiano", l'attribuzione sembrava certa, e recentemente ha trovato molti sostenitori. Ma è un'attribuzione da respingere. Intanto il passo dell'E. (si trova nel quinto libro in una sezione dedicata all'uomo di corte, sezione che presenta delle problematiche similarità col Cortegiano del Castiglione) ricorda che nella sua opera sul "buon cortegiano" si trattano tre virtù fondamentali per il cortegiano ideale, e solo una di queste, la modestia, ha riscontro nel Novo corteggiano: iltrattato dell'E. sul "buon cortegiano" e il Novo corteggiano non sono dunque la stessa opera. L'attribuzione a penna tardocinquecentesca si può spiegate col fatto che alcune pagine del Novo corteggiano siano pressoché identiche ad alcune del Libro de natura de amore: ma un esame di questi riscontri prova che il primo ha semplicemente plagiato il secondo spesso fraintendendolo. Del resto è difficile immaginare come un'opera quale il Novo corteggiano, di tono ascetico (fu nel secolo scorso attribuita al Savonarola) e di venature controriformistiche, possa sintonizzarsi con altre opere dell'E. così equilibrate e aperte ai fermenti più vivi dell'umanesimo. Quest'opera in cui è del tutto assente la corte rinascimentale deve esser decisamente espunta dal canone delle opere equicolane. Un'atetesi si dovrebbe fare - come del resto già aveva fatto il Santoro - per gli Annali della città di Ferrara, conservati manoscritti nella Bibl. comunale di Ferrara: benché attribuiti all'E., non sono che un "tardivo raffazonamento" condotto in parte su una perduta Istoria dall'Equicola. Inedito in gran parte rimane il suo ricco epistolario.
L'E. dovette godere fama di buon poeta se il Bembo gli indirizzava una lettera (5 genn. 1524) chiamandolo "poeta unico in Mantua", e se G. C. Della Scala (Scaligero) poté definirlo "pater vatum" (Poemata, Heidelberg 1621, pp. 498 s.). Purtroppo il suo poema Alae amoris è andato perso, e i pochi versi raccolti dal Santoro (vi si dovrebbero aggiungere quelli figuranti nel Nec spe e quelli recentemente pubblicati da M. Marti) non ci consentono di confermare quei giudizi. Ma soprattutto l'E. godette di grande stima e simpatia personale presso i contemporanei: basta ricordare il ritratto che ce ne lascia il Bandello in varie novelle, o un'ottava dell'Orlando furioso (XL, 9 della I ed.), o un passo del Cortigiano del Castiglione (II redaz., ed. Ghinassi, pp. 277 s.) e tante altre testimonianze sparse in epistolari e in raccolte poetiche. Alla fortuna moderna dell'E. ha sicuramente nociuto l'estrema rarità di quasi tutte le sue opere. Si son privilegiati pochi aspetti della sua produzione (problema della lingua e dell'amore, filologia romanza) mentre se ne sono trascurati altri non meno importanti, quali l'enciclopedismo, l'interesse per il linguaggio delle imprese e per la storia, nonché l'attenzione per il tema del tempo, della morale e delle religioni comparate.
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