FUBINI, Mario
Nacque a Torino il 18 marzo 1900 da Riccardo e da Bice Colombo, entrambi di origine vercellese. Nella città natale, cui sarebbe rimasto sempre affettivamente e culturalmente legato, compì l'iter degli studi fino alla laurea in lettere, conseguita nel 1921, discutendo con Ferdinando Neri una tesi in letteratura francese su Alfred de Vigny.
Il Neri e lo storico dell'arte Lionello Venturi furono i due professori che esercitarono maggiore influsso sulla sua formazione: nell'uno, la scuola del metodo storico, svincolata dagli schemi del positivismo, si perpetuava come scrupolo di rigorosa ma non pedantesca erudizione; nell'altro la pura filologia cedeva alla storia del gusto, cioè, per usare sue parole, "delle preferenze nel mondo dell'arte da parte di un artista o di un gruppo di artisti". Delle lezioni del primo il F. - che ne seguì i corsi su Fr. Villon, J. Racine, Ch.-A. de Sainte-Beuve - avrebbe ricordato lo scrupolo della informazione, l'eleganza della parola, la sensibilità estetica; di quelle del secondo l'insistente richiamo alla storia della critica, alla opportunità "di rifarsi sempre per giudicare di un artista al pensiero dell'artista medesimo e di quanti al suo gusto partecipano" (cfr. rispett. Foscolo, Leopardi…, I, p. 335 e Saggi e ricordi, p. 223). Ma, salvo queste e poche altre eccezioni, il corpo docente della facoltà di lettere torinese, arroccato nella difesa di un positivismo già da tempo in crisi, restava chiuso alle nuove istanze della cultura: e il F., se aveva il buon senso di accogliere quanto la scuola poteva offrirgli (la disciplina filologico-erudita), possedeva tuttavia lo spirito critico per avvertirne il limite (la mancanza di una chiara idea dell'arte e della storia). Non diversamente da altri suoi compagni di studio, procedendo per via autonoma, cercò nel Croce una guida e un termine di confronto sia per i problemi di storiografia letteraria e di metodologia critica al centro dei suoi interessi, sia in senso lato per gli interrogativi filosofici ed etico-politici che la sua esperienza individuale e le condizioni dei tempi gli ponevano. Il Croce, per lo più ignorato o respinto dall'ambiente accademico torinese, offriva non solo il punto di riferimento della sua opera ma anche lo stimolo a ripercorrere il cammino, da lui battuto, della cultura occidentale - dai Greci ai moderni, attraverso G. Vico, l'idealismo tedesco, F. De Sanctis, K. Marx, Antonio Labriola, G. Sorel - per aprirsi alle ulteriori esperienze del pensiero contemporaneo.
Negli anni universitari il F. strinse rapporto di amicizia con Piero Gobetti, conosciuto al corso del 1917-18 di letteratura tedesca di A. Farinelli. Pur nella diversità della formazione e degli interessi, il F. ne restò conquistato sul piano intellettuale e su quello umano. Conveniva con lui nella concezione politica liberalprogressista, nel modo di intendere la libertà come autonomo impulso vitale, non identificabile con uno specifico programma di partito o con un determinato indirizzo ideologico: si legò pertanto al sodalizio che si era costituito intorno a lui (ne facevano parte, tra gli altri, le sorelle Maria e Pia Marchesini, Elena Valla, N. Sapegno, L. Ronga, G. Manfredini, A. Passerin d'Entrèves, E. Rho, Carlo Levi); collaborò alle riviste da lui fondate - Energie nove, Rivoluzione liberale, Il Baretti -; ne recensì il libro sull'Alfieri, riconoscendovi una ispirazione idealmente autobiografica, che liberava il grande astigiano dall'astrattezza del mito, facendone persona viva, quale avevano sentito i giacobini italiani, il Foscolo, i Piemontesi del 1821; e il carattere e l'opera dell'amico evocò nella circostanza della morte prematura (1926) in un memorabile articolo del Baretti.
Aveva intanto iniziato il suo insegnamento nei licei, come supplente a Sanremo, per passare subito dopo titolare a Carmagnola, e poi dal 1930 al "Cavour" di Torino. Nel 1929 conseguì la libera docenza in letteratura italiana e nel '34 fu incaricato dell'insegnamento di questa disciplina, in supplenza di Michele Barbi, presso il magistero di Firenze, ove rimase fino al 1937, allorché, vinto il concorso a cattedra, passò all'università di Palermo. In questa sede rimase solo un anno, essendo allontanato dall'insegnamento in seguito alle leggi razziali. Continuò a pubblicare suoi lavori, nascondendo la sua identità sotto sigle e pseudonimi (M. F., Spettatore, Luigi Vigliani, Mario Fusi). Verso la fine del 1943 riuscì a riparare con la moglie e i due figli in Svizzera. Nel campo universitario per militari italiani internati a Mürren (cantone di Berna) tenne tra il 1944 e il '45 un corso di lezioni sulla poesia del Tasso, pubblicato dapprima sulla Rivista della Svizzera italiana e poi accolto nel volume Studi sulla letteratura del Rinascimento (1948); e anche in quella sede commemorò Vico in occasione del secondo centenario della morte.
Il rientro in patria gli fu rattristato dalle notizie che lentamente pervenivano di familiari e amici vittime delle persecuzioni: tra i morti anche il suo unico fratello Renzo, apprezzato studioso di economia. Riprese il lavoro scientifico, con una alacrità sorprendente, come mostra l'infittirsi delle sue pubblicazioni a partire dal 1946; e riprese l'insegnamento prima nell'università di Trieste e poi dal 1948, vincitore di un secondo concorso, in quella di Milano, ove, oltre che alla Statale, insegnò per incarico anche alla Bocconi. Nel 1953 fu nominato socio nazionale dell'Accademia dei Lincei ed entrò a far parte della direzione del Giornale storico della letteratura italiana. Nel 1967 lasciò la cattedra milanese di letteratura italiana per passare alla Scuola normale superiore di Pisa, ove insegnò per un decennio storia della critica.
Il F. morì a Torino il 29 giugno 1977.
All'attività di studioso e di docente venne affiancando quella di promotore e guida di svariate iniziative culturali: fu presidente, dalla ripresa dei lavori dopo l'interruzione della guerra, del comitato per l'Edizione nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, di cui avevano visto luce negli anni Trenta solo due volumi, e che lasciò prossima al compimento (personalmente curò il V volume, Prose varie d'arte, Firenze 1951); affiancò prima, e dal '55 subentrò a F. Neri nella direzione della collana dei "Classici italiani" della UTET; coordinò la sezione settecentesca della "Letteratura italiana storia e testi", edita a partire dal 1951 dalla Ricciardi (curate da lui, per questa raccolta, le Opere di P. Metastasio, Milano-Napoli 1968; sue le introduzioni ai Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, ibid. 1959, e al primo tomo delle Opere di V. Alfieri, a cura di A. Di Benedetto, ibid. 1977); diresse i "Classici italiani" della Loescher di Torino (vi figurano le nuove edizioni dei suoi commenti ai Canti e alle Operette morali del Leopardi); né va dimenticato il suo contributo alle iniziative, anche editoriali, del Centro nazionale di studi alfieriani e di quello leopardiano, delle cui commissioni scientifiche fece parte. Collaborò con articoli, note, rassegne, recensioni a numerose riviste (oltre quelle del Gobetti e il Giornale storico della letteratura italiana, La Cultura, Leonardo, La Nuova Italia, Convivium, Civiltà moderna, Il Marzocco, Il Ponte, Belfagor, Lo Spettatore italiano, ecc.) e, tra il 1963 e il '68, pubblicò una ventina di elzeviri sul quotidiano La Stampa (degli scritti sparsi è stata curata una raccolta postuma in due volumi: Foscolo, Leopardi e altre pagine di critica e di gusto, a cura di D. Conrieri - P. Cudini - R. Fubini - M. Scotti, Pisa 1992). Redasse alcune voci per la Enciclopedia Italiana (F.S. Salfi, Diodata Saluzzo, Poesia sepolcrale, A. de Vigny, A. Zeno); per il Dizionario biografico degli Italiani (Alfieri, Baretti); per la Enciclopedia dantesca (S. Bettinelli, Catone, B. Croce, F. De Sanctis, Piccarda, Ulisse, G. Vico); suoi sono circa duecento profili, concernenti opere e personaggi di opere della letteratura italiana, che figurano nel Dizionario letterario Bompiani; allestì con G. Isnardi un'antologia per i ginnasi superiori (Letture italiane e straniere, Milano 1956), e con E. Bonora un'ampia Antologia della critica letteraria (I-IV, Torino 1958-60), che incontrò molto favore, e un'Antologia della critica dantesca (ibid. 1966).
La letteratura francese fu la disciplina cui egli volse dapprima prevalentemente i suoi interessi di studio: alla tesi di laurea (Alfred de Vigny, Bari 1922), si affiancarono alcuni articoli e recensioni (notevoli i tre Studi sulla cultura politica francese, serrata e spregiudicata disamina di R. Rolland, H. Barbusse, Ch. Maurras), l'Introduzione al Borghese gentiluomo di Molière (trad. di F. Rey-Ragazzoni, Torino 1924) e il libro Jean Racine e la critica delle sue tragedie (ibid. 1925). Dopo il lavoro su Racine, egli volse la sua attività scientifica alla letteratura italiana, in particolare su alcuni temi destinati a restare interessi costanti nel suo itinerario critico (Foscolo, Leopardi, Alfieri). Il nuovo campo di studi aveva del resto già praticato in parallelo con l'altro, pubblicando, a partire dal '19, articoli e recensioni su critici e scrittori italiani (notevole l'intervento del '21 sul libro del Croce La poesia di Dante). Il cambiamento non comportò una svolta di metodo, perché nei suoi saggi di letteratura francese già si erano dispiegate alcune fondamentali caratteristiche del suo modo di far critica: nel saggio su Vigny, ad esempio, le considerazioni sul mondo interiore del poeta non miravano a un ritratto psicologico ma a cogliere il tono della poesia, e quelle sulle strutture metriche non si esaurivano in se stesse ma erano funzionali al giudizio estetico; in quello sul Racine la storia della critica non era più un'adiafora rassegna, perché le diverse posizioni erano ricondotte ai presupposti storico-culturali che le condizionavano; nell'esame della commedia del Molière la storicità della struttura era rapportata a quella della recezione come a una presenza condizionante e la letteratura veniva considerata come il legame dell'opera al tempo, che la poesia supera nell'atto stesso che fa propria.
Nel 1926 a Torino vide luce, per sua cura, il volume dei Saggi letterari del Foscolo, che si apriva con una importante e innovatrice Introduzione. Gli scritti critici del Foscolo, secondo il F., restano "frammenti mirabili di un edificio che non fu mai innalzato", pur essendo la critica radicata nella sua vita del pari alla poesia, e costituendo, non diversamente dalle sue lettere ove "la convenzione epistolare è vinta da prorompente afflato poetico", una forma di poesia minore. Il Foscolo - osservava - converte i problemi storici in esperienza personale: così, se il Parallelo fra Dante e Petrarca può considerarsi il suo capolavoro critico, Dante e Petrarca furono per lui "prima ancora che due individui storici, due ideali vagheggiati di vita e poesia". I pregi e i limiti, le derivazioni e le novità della critica foscoliana venivano individuati attraverso una compiuta analisi delle sue componenti: dal mito del poeta primitivo, al nesso inscindibile tra storia della lingua e storia letteraria, alla pregiudiziale preclusione al nuovo, al carattere disorganico delle pur perfette analisi dello stile, al contrasto fra la capacità individualizzante e il fondare talvolta il giudizio di valore sull'astratto parametro dei generi. L'esame delle derivazioni non si limitava a stabilire rapporti esterni, come nella vecchia critica delle fonti, ma mirava a cogliere la continuità storica e insieme l'originale configurarsi di certe idee e di certi atteggiamenti: se Foscolo deriva da Alfieri il senso dell'ufficio civile delle lettere e l'antimecenatismo, in genere egli corregge la unilateralità di quell'atteggiamento, che rende moralistico il giudizio estetico; se in lui confluisce la varia esperienza del Settecento italiano e francese, pure se ne distacca per l'originalità di certe idee e della loro applicazione. Egli, infatti, ritiene la critica una propedeutica alla comprensione dell'arte e non una precettistica relativa al bello, riconosce che essa richiede un fondamento filosofico e insieme una nativa sensibilità estetica, intende in tutta la complessità il valore della parola. Molte considerazioni avrebbero trovato sviluppo in successivi lavori del F., come d'altro canto certi pensieri del Foscolo avrebbero offerto spunto a sue considerazioni metodologiche.
Due anni dopo seguiva una monografia (Ugo Foscolo. Saggio critico, ibid. 1928) che puntava a una delineazione unitaria della vita interiore, del pensiero e dell'arte del Foscolo, di cui non la passione nel suo urgere ma il senso dell'armonia veniva indicato come l'autentico nucleo di fondo. Si collegava tale monografia al rinnovamento che si veniva operando negli studi foscoliani, sotto l'impulso dello storicismo idealistico, attraverso le pagine del Croce, i lavori del Citanna, del Donadoni, dello Sterpa: ma su quei lavori spiccava per più ricca articolazione e per più profonda organicità. Il suo pregio non era solo nei molti rilievi felici e nelle molte analisi fini e penetranti (ove la distinzione di poesia e non poesia costituiva la sottesa logica di un discorso non freddo e spassionato), ma anche nell'individuazione di una linea di sviluppo interna a un mondo umano e poetico, la cui coerenza non inficiano occasionali devianze e fratture. In questa prospettiva acquistavano rilievo tante opere o parti di opere foscoliane in precedenza trascurate o mal intese, prima fra tutte le Grazie, considerate non più il frutto di una perizia letteraria e decorativa ma l'esito in cui sfocia un coerente processo di umanità e di stile.
Di alcuni punti del lavoro bisognosi di ulteriore scavo e ripensamento (i legami fra l'Ortis e il successivo sviluppo della poesia foscoliana, il più sottile che persuasivo parallelo della stagione poetica aperta dalle Odi e lo stilnovismo dantesco, l'esame delle Grazie, che proprio per la finalità esemplare si concentrava solo su alcuni frammenti) meglio d'altri si rese conto lo stesso autore, che pure avrebbe ristampato il libro qual era, preferendo ritornare sui temi trattati e affrontarne nuovi in altri scritti - letture, saggi, varietà - sparsamente pubblicati e poi raccolti nel volume Foscolo minore (Roma 1949), riapparso con ulteriori aggiunte sotto il titolo di Ortis e Didimo. Ricerche e interpretazioni foscoliane (Milano 1963).
Era questa scelta il portato del suo senso di rispetto storico e del suo modo di intendere la critica come riflessione che segue a una lettura e ne prepara una successiva in un ininterrotto processo di intelligenza. La preferenza poi per il saggio, volto a uno specifico problema e a un singolo particolare, e non per l'onnicomprensiva monografia - sia negli studi di storia letteraria sia in quelli di teoria e metodo critico - era segno di mente che non amava indugi sul già assodato, di gusto per la sobrietà e la misura, di contemperanza del giudizio e del momento simbolico della critica. Alla filologia foscoliana il F. si interessò quando, se non tutta, certo ampia parte dell'esperienza di critico del Foscolo era compiuta: e l'esperienza critica, a suo avviso, guida e illumina la ricerca filologica, forse più di quanto la filologia conduca alla critica. Risultato di questo nuovo impegno fu il citato quinto volume, da lui curato, dell'Edizione nazionale delle Opere del Foscolo, edito nel 1951, che sotto il titolo di Prose varie d'arte radunava il Sesto tomo dell'io, alcune Pagine sparse, la versione del Viaggio sentimentale di L. Sterne seguita dalla Notizia intorno a Didimo Chierico, le Lettere scritte dall'Inghilterra, in precedenza conosciute come Gazzettino del bel mondo. Ai testi era premessa una introduzione, la cui ampiezza era richiesta dalla necessità di documentare gli intenti del poeta e identificare la linea progressiva del suo lavorare a strati, per rifacimenti di parti spesso non compattate in una struttura unitaria. Ricostruendo questo processo il F. illustrò lo stile dello scrittore fin nelle minime caratteristiche, trovando in esse il fondamento delle soluzioni da adottare anche sul piano ecdotico: non modificare la punteggiatura, portandola a modi a noi più prossimi e consueti, era scelta fondata non su un semplice criterio conservativo, ma sulla consapevolezza che a quella punteggiatura "or nuova or varia" il Foscolo attribuiva importanza, "sentendola intimamente connessa al suo modo di pensare e di scrivere".
Nel 1930 apparve il suo commento ai Canti (Torino) del Leopardi e tre anni dopo quello alle Operette moraliseguite da una scelta di Pensieri (Firenze 1933): tra l'uno e l'altro si collocano la Discussione leopardiana (garbata ma ferma polemica con G.A. Levi) e lo studio L'estetica e la critica di Giacomo Leopardi. I punti fondamentali dell'interpretazione del Levi, che venivano contestati, erano sostanzialmente due: il considerare la storia interiore dell'anima leopardiana come un continuo anelito alla trascendenza, pur mai accettata; la rinunzia programmatica a ogni valutazione estetica, non potendosi la bellezza, che appartiene alla sfera del sentimento, dimostrare in base a un canone razionale e obiettivo. Per il F. costituiva una forzatura storica ridurre all'ansia del trascendente la vita intima del poeta, il cui pensiero e il cui mondo affettivo restano estranei a ogni religione rivelata; e d'altro canto per lui la critica estetica, che differisce dai giudizi di biasimo o di elogio di stampo classicistico e dalle effusioni estetizzanti, "non si propone altro che di determinare lo stato d'animo del poeta nel momento in cui compone la poesia, né altro è che la storia della poesia" (Foscolo, Leopardi…, I, p. 207). Le pagine introduttive al commento delineano la riflessione del Leopardi intorno ai problemi dell'arte, che nell'insieme non costituisce una summa estetica valida alla intelligenza di ogni poesia ma il preludio alla sua poesia. Di questa testimonianza offerta soprattutto dallo Zibaldone si avvalse il F., sia nello studio analitico del pensiero estetico leopardiano, sia nel più rapido profilo premesso al commento, sia nei cappelli introduttivi e nelle note a ciascun canto: ché, se la critica è sempre dialogica, nulla di meglio che ascoltare prima d'altri lo stesso poeta. Così facendo poneva in atto - avrebbe dichiarato più tardi, tracciando un bilancio di tutta la sua attività di leopardista - la lezione di metodo, non certo accolta passivamente, del Venturi. Ma l'indagine non si esauriva nel delineare le tappe del pensiero e il suo rapporto con la poesia: conduceva, infatti, a considerare il realizzarsi del pensiero nell'individualità poetica, che non resta ineffabile ove si colga nella sua realtà effettiva, cioè nello stile. Al cui ambito venivano ricondotte le stesse forme metriche, considerate non più meri schemi tecnici ma peculiarità di un particolare accento poetico e quindi una delle vie per l'intelligenza critica della poesia.
Una non diversa impostazione caratterizzava il commento alle Operette morali. Di contro alla tesi, sostenuta da G. Gentile, della unità sistematica del pensiero leopardiano, quale si dispiegherebbe nella coerente linea interna delle Operette, il F. studiava quel pensiero non in sé, nella sua portata teoretica (di cui avvertiva tutto il limite), né in relazione alla filosofia sensistica che ne è la matrice, ma nel peculiare modo del suo articolarsi ora nello stile raziocinante proprio dello Zibaldone, ora in quello poetico o anche letterario delle Operette. La cui prosa appariva al F. non fredda e assertiva, ma carica di risonanze sentimentali nella struttura sintattica, nel lessico e finanche nella punteggiatura. Non si esauriva qui il capitolo leopardiano dell'attività del critico: ai molti interventi, che precedono o sono coevi ai due commenti, si affiancano quelli di una tarda ripresa, tra cui le analisi di vari canti incluse nei suoi corsi del 1955-56 e 1956-57 sulla metrica (raccolti nel volume Metrica e poesia. Lezioni sulle forme metriche italiane, Milano 1962) e la relazione Leopardinella critica dell'Ottocento, tenuta al Convegno recanatese del 1967.
Se ricercando le ascendenze culturali e artistiche del Foscolo e del Leopardi il F. fu portato di necessità a occuparsi del Settecento, allo studio della poesia e della critica di quel secolo lo inducevano altri e non occasionali motivi, tra cui la personale propensione verso una cultura fondata sulla chiarezza razionale e per converso la diffidenza verso le forme torbide del misticismo romantico e decadente. In quest'ambito si colloca anzitutto il suo interesse per l'Alfieri, il cui primo risultato fu lo studio del 1933 Petrarchismo alfieriano, che mostrava come all'impetuoso celebratore della libertà non restassero estranee le sfumature di una sensibilità più morbida rispetto alla tensione di un ideale eroico, di cui era espressione lo stile aspro e fremente. Ma non si tratta di un inerte calco letterario, perché - osservava - l'Alfieri seppe, a differenza dei petrarchisti, trasfondere nei moduli del Petrarca la vibrazione di un'esperienza concretamente vera, fino a non evitare talora la notazione diaristica. E non solo l'irruente volere ma anche la disposizione contemplativa caratterizzava la personalità del poeta e si rifletteva in personaggi contrapposti o in contrapposte tendenze di uno stesso personaggio delle sue tragedie e nel duplice registro, eroico ed elegiaco, del loro stile. Nel 1937 vedeva luce a Firenze la monografia V. Alfieri (Il pensiero - La tragedia), preceduta l'anno prima dai due saggi La formazione dell'"Antigone" e "Carlo primo". Il primo, fondato sulle diverse stesure offerte dai manoscritti, seguiva la metamorfosi ideativa dei personaggi di Antigone e Argia; il secondo mostrava come in questa tragedia solo abbozzata per la prima volta il re tiranno cedeva al re di cui la sventura rende umano l'eroismo. Nella monografia le tragedie, non più considerate come espressione del pensiero politico o dell'aspirazione eroica dell'animo alfieriano (quali erano apparse, tra gli altri, al Gobetti) ma come autentiche e autonome opere di poesia, sono esaminate singolarmente nella struttura, nel tono, nello stile, cioè nel nucleo essenziale della tormentosa ricerca del poeta. Del 1951 è la raccolta Ritratto dell'Alfieri e altri studi alfieriani (ibid.; ulteriormente accresciuta nella riedizione del 1963): alcuni dei saggi che vi figurano sono volti, attraverso una serie di precisi riscontri, alla collocazione storica dell'autore nel suo tempo, cui fu legato più di quanto egli amò credere e la critica di solito ritenne.
Anche l'esame dello stile nella sua diacronia, quale si rivelava nel passaggio dalla prima alla seconda Scienza nuova, è la via tenuta dal F. nel primo dei suoi studi vichiani (1940) che, con altri (sulla fortuna, la lingua, la critica dantesca, il rapporto con D. Bouhours) e con il ricordato discorso di Mürren, avrebbe riunito nel volume Stile e umanità di Giambattista Vico, Bari 1946 (riedito nel '65 con aggiunta di altri saggi, tra cui alcuni ancora sulla fortuna, Vico e Dubos e Vico e Calepio). In questi lavori si congiungevano, con matura perizia, l'attitudine dello studioso all'analisi del linguaggio poetico (mai esercizio di virtuosa lettura, perché sempre finalizzata al giudizio di valore) e il suo senso storico (mai incline a sintesi generalizzanti e più o meno astratte). Che il problema del linguaggio fosse per il Vico qualcosa di diverso dalla semplice ricerca di un veicolo di comunicazione del pensiero e che la natura poetica del suo ingegno operasse a potenziare la espressività ma insieme a disgregare la compatezza strutturale della prima Scienza nuova nel passaggio alla seconda era convinzione accolta ma pur talora contraddetta: l'indagine del F. veniva a convalidarla, potrebbe dirsi documenti alla mano.
Una storia della critica dall'età dell'Arcadia a quella del Romanticismo fu progettata e poi abbandonata dal F., ma una serie di singoli studi composti lungo l'arco di oltre un decennio a partire dal 1933 (Le "Osservazioni" del Muratori al Petrarca, Giuseppe Baretti scrittore e critico, Giuseppe Baretti dalle "Lettere a' suoi tre fratelli" alla "Frusta letteraria", Introduzione alla lettura delle "Virgiliane") ne affrontano questioni nodali con una coerenza di metodo e di valutazione, onde essi riuniti insieme nel volume del 1946 Dal Muratori al Baretti. Studi sulla critica del Settecento (ibid.), pur nella diversità del taglio, rivelavano una intrinseca organicità, come capitoli di quella progettata storia. A essi, nella riedizione del libro (ibid. 1954), sarebbe stato aggiunto il saggio Arcadia e illuminismo, già apparso nel volume miscellaneo del 1949, Questioni e correnti di storia letteraria, redatto sotto la direzione di Attilio Momigliano. Le linee guida di questa lucida e articolata sintesi storica della vita intellettuale e artistica del Settecento sono il riconoscimento della funzione storica dell'Arcadia, instauratrice, per reazione al barocco, di un gusto educato sui classici; e il riconoscimento di una interrelazione fra Arcadia e Illuminismo. Esemplare sarà poi la sua lettura dei lirici del Settecento: con simpatia che non travalica la misura è rievocata l'esperienza artistica di un'età priva di geniali presenze di poesia ma ricca di opere pervase da una schietta aspirazione alla poesia. A evitare sommarie condanne occorreva comprendere quel che la poesia fosse in quell'epoca: "non tanto un'esperienza di vita, quanto un ornamento della vita". Da questa premessa il critico moveva per un particolareggiato esame, che non finiva per essere un profilo sociologico o una storia di costume, perché mai veniva trascurato il giudizio di valore e la individuazione di valori o ridotta la produzione arcadica a un livello uniforme.
La finezza del senso storico portava il F. a evitare, qui e altrove, l'uso di stereotipi astratti e precostituiti. Così gli studi sul romanticismo (raccolti nel volume Romanticismo italiano. Saggi di storia della critica e della letteratura, Bari 1953) offrono l'immagine di una stagione letteraria e culturale nei suoi presupposti e nelle sue implicazioni proprio là dove affrontano concreti e specifici problemi, sia che affrontino motivi e figure della polemica suscitata dalla Staël, sia che si appuntino sullo stile del Berchet poeta e critico, sia che si soffermino sulla personalità e l'opera del Cattaneo. Questa caratteristica e insieme un felice connubio di attitudini filologiche e critiche improntano anche gli Studi sulla letteratura del Rinascimento (Firenze 1948), di cui memorabile quello sulla Nencia da Barberino, ove alla questione dell'attribuzione reca luce non una scoperta documentaria ma un'elegante analisi dello stile, attraverso cui viene identificata l'autenticità e la priorità della più breve fra le tre stesure che del poemetto rusticano ci sono pervenute.
Accanto a questa varia e complessa attività storico-critica (è da aggiungere lo studio di altri autori, Dante, Manzoni, Carducci e della metrica) si colloca l'attività teorica e metodologica del Fubini. Fra tutti i critici della sua generazione egli fu quello dotato di maggiore attitudine speculativa. In conformità allo spirito dello storicismo e del magistero crociano la filosofia egli intese, e implicitamente praticò, come metodologia della storia. E laddove i più furono nei confronti del Croce o entusiasti o iconoclasti, egli conservò sempre verso quell'esperienza culturale un ragionato rispetto, arricchendola sul piano della critica letteraria di originali contributi col volgere la sua attenzione allo stile di un autore o di un'epoca e poi discutere la legittimità e i limiti di questo procedimento, con l'interessarsi di problemi quali i generi nella poesia e nelle arti o la traduzione, sui quali troppo recisa e schematica, quindi fonte di equivoci, gravava la pur intrinsecamente coerente e ineccepibile teoresi crociana. Pubblicati sparsamente, questi lavori furono raccolti nel volume Critica e poesia. Saggi e discorsi di teoria letteraria (Bari 1956).
Per un elenco degli scritti del F. v. Bibliografia degli scritti di M. F. 1918-1970, a cura di R. Ceserani - F. Giuntini - L. Roberti, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. F., Padova 1970, I, pp. XVII-LXXXVII; G. Grana, M. F., in Letteratura italiana. I critici, Milano 1973, V, pp. 3503-3532; Bibliografia degli scritti 1971-78, a cura di M. Chiesa - M. Pozzi, in Giorn. stor. della letteratura italiana, CLV (1978), pp. 91-99.
Qui, oltre agli scritti segnalati nel testo, ricordiamo: Due studi danteschi, Firenze 1951; Il peccato di Ulisse e altri scritti danteschi, Milano-Napoli 1966; Saggi e ricordi, ibid. 1971; Tre note manzoniane, Torino 1977. Edizioni curate dal F.: C. Cattaneo, Lombardia antica e moderna, ibid. 1943; G. Vico, Autobiografia…, Torino 1947; G. Boccaccio, Il Decamerone, giornata V, Milano 1950; G. Parini, Il Giorno, le Odi e Poesie varie, Bologna 1963; T. Tasso, Aminta. Favola boschereccia, Torino 1967; G. Carducci, Poesie e prose scelte (in coll. con R. Ceserani), Firenze 1968.
Fonti e Bibl.: E. Bonora, Appunti per un ritratto critico di M. F., in Protagonisti e problemi, Torino 1985, pp. 121-148; Id., F. direttore del "Giornale storico", ibid., pp. 149-175; Giorn. stor. della letteratura italiana, CLV (1978), 1 (fasc. dedicato al F., contiene: E. Bonora, L'itinerario del critico, pp. 3-29; M. Marti, Gli studi danteschi, pp. 30-51; M. Pozzi, Gli studi sulla letteratura del Rinascimento, pp. 52-66; E. Bigi, Gli studi sul Settecento, pp. 67-90); S. Antonielli, Gli studi foscoliani di M. F., ibid., CLVI (1979), pp. 511-523; R. Wellek, M. F., in Letteratura italiana, IV, L'interpretazione, Torino 1985, pp. 401-405; Annali della Scuola norm. sup. di Pisa, classe di lettere e filosofia, s. 3, XIX (1989), 1 (fasc. dedicato al F. con scritti di F. Diaz, D. Della Terza, E. Scarano, R. Ceserani, L. Blasucci); V. Stella, Estetica, poesia e storia in M. F., in L'intelligenza della poesia, Roma 1990, pp. 87-179; G. Folena, F. e la storia della lingua poetica, in Filologia e umanità, Vicenza 1993, pp. 359-370.