GALEOTA, Mario
Nacque nel Regno di Napoli tra gli ultimi anni del '400 e i primi del '500 da Giovanni Berardino e da Andreana Lazza. La famiglia, che già godeva del feudo di Casaterra, aveva aggiunto le terre di Monasterace in Calabria e di Bagliva presso Aversa grazie a Silvestro, protomedico e nonno del G.; il padre invece, come giurista, ricoprì nei primi due decenni del '500 incarichi di spicco nell'amministrazione del Regno di Napoli (presidente della R. Camera della Sommaria, giudice della Vicaria, consigliere del R. Consiglio).
Il G. non si orientò alla professione medica né alla carriera giuridica, bensì alle arti militari - acquisendo nozioni scientifiche teoriche, in matematica, e applicate, in ingegneria militare - e agli studi umanistici: era legato d'amicizia col poeta Luigi Tansillo ed è attestata una sua partecipazione all'Accademia dei Sereni (creata nel 1546 e poco dopo soppressa dal viceré don Pedro di Toledo), anche se il suo nome non compare in calce allo statuto di fondazione. L'ingegno e l'erudizione del G. furono oggetto di apprezzamento nei circoli della cultura napoletana, e anche Scipione Ammirato ne loderà la dottrina, attraverso le parole di Bernardino Rota, nel suo dialogo sulle "imprese".
Attorno al 1520 contrasse matrimonio con Lucrezia, della famiglia Mansella del "seggio" di Porto; ne ebbe otto figli (la prima, Camilla, nacque nel 1521; l'ultima nel 1536), tre maschi e cinque femmine. Il 22 giugno 1534 entrò a far parte della Compagnia dei Bianchi della Giustizia, una confraternita impegnata nell'assistenza spirituale e materiale di chi doveva scontare la pena capitale: ne divenne secondo consigliere nel 1535 e primo nel 1538, poi governatore nel 1541, ma ne sarà espulso dopo le prime inchieste dell'autorità ecclesiastica sulla sua ortodossia religiosa (probabilmente nel 1552, stando a una testimonianza processuale del 1566). Nel 1539, dopo il sacco di Castro nei pressi di Otranto, assunse il comando militare di un corpo di 300 uomini per fronteggiare sulle coste della Calabria le temute incursioni turche.
In quegli stessi anni il G. iniziò a frequentare Juan de Valdés, lo spagnolo che diffondeva opinioni eterodosse celate dietro una cornice di intensa spiritualità, attivo a Napoli dal 1534. Il G. divenne uno dei più brillanti esponenti del circolo valdesiano, che raccoglieva prevalentemente membri dell'aristocrazia e della cultura cittadina. I cicli di predicazione tenuti da Pietro Martire Vermigli e da Bernardino Ochino - quest'ultimo fu a Napoli nel 1536, 1539 e 1540 - spinsero il G. su posizioni di incisiva critica: in una testimonianza del 1548 contro di lui si ricorderà che i "luterani o spiritati" (seguaci di Valdés) si incontravano con il frate senese nel monastero di S. Efrem e nella chiesa di S. Paolo che, già attorno al 1536-37, era stata quasi trasformata in un tempio riformato. Sappiamo inoltre che lo spagnolo usava consegnare all'Ochino, prima che iniziasse il suo sermone, una "carticella" con l'indicazione dell'argomento da esporre.
Già prima della morte di Valdés, avvenuta a Napoli nel 1541, il G. svolse un ruolo di primo piano nella diffusione delle sue idee: assunse infatti due scrivani, prima il bresciano Giusto Seriato e poi lo spagnolo Juan de Miero, con il compito di copiare alcuni manoscritti redatti in spagnolo dal Valdés. Il Seriato trascrisse l'opera Le cento et dieci divine considerationi (poi stampata in italiano nel 1550 a Basilea a opera di Celio S. Curione, che aveva ricevuto il testo da Pierpaolo Vergerio) e le Preguntas; il Miero si occupò di "tre o quactro libri sopra li evangelii" che durante la stesura furono mostrati a Girolamo Scannapeco, arrestato nel 1552 per eresia, e a Galeazzo Caracciolo, dal 1551 esule a Ginevra, che assoldò poi il medesimo scrivano. Erano anni di intensa circolazione manoscritta di testi valdesiani: nel 1541 Marcantonio Flaminio aveva portato diversi scritti dello spagnolo da Napoli a Viterbo per le meditazioni del gruppo di "spirituali" raccolti attorno al cardinale Reginald Pole. Tra questi scritti vi erano le Considerationi e il commento ai salmi, che il G. traduceva in italiano per incarico di Giulia Gonzaga; nel 1542 i membri dell'Accademia di Modena consegnavano al cardinale Giovanni Morone un breve catechismo, identificato nel Lacte spirituale del Valdés; ancora Flaminio aveva trasmesso a Roma allo stesso Morone un commento di Valdés ai Salmi nonché "certe interrogationi", probabilmente quelle Preguntas che lo stesso G. aveva fatto trascrivere. Il compenso abbastanza elevato per le trascrizioni e la segretezza con cui l'operazione fu condotta dal G. si legano al clima di paura e di sospetti insorto già a partire dal 1536 con le disposizioni emanate da Carlo V contro l'eresia e con gli arresti disposti a Napoli dalle autorità ecclesiastiche. Da successivi documenti processuali emerge anche il tentativo, infruttuoso, del G. di ottenere l'autorizzazione alla stampa di inediti valdesiani, forse per quell'Alphabeto Christiano che insegna la vera via d'acquistare il lume dello spirito santo, poi pubblicato a Venezia nel 1546.
Negli anni 1543 e 1544 furono inasprite a Napoli le misure contro l'eresia, coerentemente a quanto la Curia romana andava operando con la riorganizzazione dell'attività inquisitoriale: ai primi roghi di testi ereticali accesi di fronte alla cattedrale fecero seguito i divieti contro la stampa e il commercio di libri privi di autorizzazione. Una notevole eco, anche al di fuori di Napoli, ebbero i vivaci tumulti insorti in città nel 1547 contro il progetto di introdurre nel Regno l'Inquisizione spagnola: nello scontro con l'autorità vicereale si saldarono la difesa di posizioni religiose eterodosse e l'ostilità baronale a una troppo forte affermazione del potere centrale. Si ignora se il G. avesse preso parte all'agitazione: in ogni caso il viceré don Pedro de Toledo aprì un'inchiesta contro di lui, raccogliendo nell'ottobre 1548 la testimonianza compromettente dello scrivano Giulio Seriato sulle trascrizioni degli scritti valdesiani, sui contatti con l'Ochino a Napoli, forse anche epistolari (è prodotta una lettera scritta da Siena a Francesco, figlio del G. ed estimatore del Valdés - anzi, Giovan Berardino e Giovan Francesco, figli del G., sapevano dello "scrictorio" dove il padre custodiva gli scritti dell'eretico spagnolo -, e firmata da un fra Stefano da Sestino che il teste ritiene in realtà pseudonimo dell'Ochino), e sull'ostilità del G. verso la pratica del digiuno e le devozioni tradizionali. La gravità delle accuse emerge anche dal fatto che il Toledo ritenne opportuno trasmettere a Carlo V nel giugno 1549 la testimonianza contro il G.: l'imperatore fece replicare che vi era materia per arrestare il G. e i suoi complici, anche se consigliava una linea di prudenza, viste le reazioni del 1547. Proprio all'epoca dei cosiddetti "romuri de Napoli" il G. paragonò - così nella deposizione del prete Ranieri Gualano - il ruolo svolto da Valdés a quello a suo tempo giocato da Agostino d'Ippona.
Nel corso del 1552, pochi mesi dopo la fuga di Galeazzo Caracciolo e l'insediamento dell'intransigente Gian Pietro Carafa alla guida della diocesi di Napoli, si strinse il cerchio contro diversi esponenti del valdesianesimo, che subirono arresti e condanne: al G. furono soltanto imposti il domicilio obbligato nelle sue terre calabresi e l'invito a presentarsi a ogni richiesta del tribunale inquisitoriale. Nonostante le protezioni che poteva vantare (era, tra l'altro, cugino di Girolamo Seripando, già generale dell'Ordine agostiniano e futuro cardinale), il G., a partire dall'estate del 1555, si trovava a Roma da dove implorava proprio il Seripando per un passo in suo favore presso il cardinale Marcello Cervini, considerando che un silenzio da parte del cugino implicava la fondatezza delle accuse formulate contro di lui, e rievocava il diverso comportamento di Pole che aveva scritto prendendo le difese del protonotario Pietro Carnesecchi. Tuttavia tra marzo e aprile 1555 la morte di Giulio III e l'ascesa al papato proprio del Cervini dovettero giovare al G., che ritroviamo libero a Napoli.
Sulla fine del 1555 un'ulteriore incriminazione si tradusse in un nuovo arresto del G., che fu segregato nelle carceri di Ripetta (o in quelle di Castel Sant'Angelo, secondo la testimonianza del veneziano Bernardo Navagero). L'iter processuale fu alquanto lento e il G. restò in stato di detenzione fino al giugno 1559, e poi in domicilio coatto fino ad agosto, quando con la morte di Paolo IV le prigioni furono attaccate, i detenuti liberati, gli incartamenti processuali in parte distrutti. Il G. non fuggì dalla città - qui ricevette a settembre una lettera del Seripando che gli chiedeva un'informazione filologica sul testo di Clemente di Roma - ma si ripresentò al tribunale e ne uscì assolto nel marzo 1560. Non mancano nelle lettere inviate dal Carnesecchi a Giulia Gonzaga fra il 1558 e il 1560 frequenti richiami alla sorte del G., ora inclini alla speranza, ora propensi al pessimismo.
Agli anni che seguono il rientro del G. a Napoli risale la redazione del suo unico scritto conservato, quel trattato sulle fortificazioni che in realtà contiene - al di là dell'analisi dei problemi di ingegneria militare - spunti di notevole interesse su questioni di scienza politica, etica ed economia. Nella dedica a Filippo II di Spagna il G. afferma di voler ridurre a "metodo e compendio" le ragioni del fortificare e di istruire il principe su come difendere nel modo migliore lo "stato fortificato".
Nel primo libro, dopo aver rimarcato l'ignoranza dei principi sulla materia, egli riprende ampiamente i discorsi già intesi dal marchese Alfonso d'Avalos, grande esperto del tema. Il G. si sofferma poi sugli strumenti necessari all'ingegnere militare (riga, compasso, squadro, traguardo, livello, lenza, piombo) sino a descrivere un livello portatile costruito in ottone dietro sue istruzioni. Seguono nozioni elementari di geometria e l'illustrazione delle tecniche edilizie idonee a edificare fortezze. In queste pagine il G. ricorda i consigli che Ferrante Gonzaga gli diede a Messina e che poi applicò quando fu addetto a lavori di fortificazione a Catanzaro. Il secondo libro si apre con le direttive che devono guidare l'azione del principe che voglia garantire la propria sicurezza: la pace che richiede la prudenza, l'amore che esige la bontà e il timore che è espressione della potenza. Da qui il G. apre una serie di riflessioni che spaziano dalla provvidenza e la giustizia distributiva agli esercizi fisici utili a mantenere il vigore del corpo, fino alle politiche annonarie: il G. argomenta la sua ostilità ai divieti di esportazione di generi alimentari e all'imposizione di prezzi fissi per le merci, accettabili solo in caso di accaparramento di esse nelle mani di pochi che intendano attuare manovre speculative. Infine il G., dopo aver fornito il ritratto ideale di un principe che deve non solo regolare gli scambi, ma anche mostrarsi "religioso, buono e vero cristiano" e al tempo stesso utilizzare la ragione per realizzare la "riformazione", si dilunga sul problema dei difetti della giustizia e della giurisprudenza, e avanza proposte innovative, come una codificazione che porti chiarezza sulla normativa e riduca le dispute. Le parti conclusive dell'opera ritornano sulla questione militare con un ampio ventaglio di temi, dall'opportunità di difendere il Regno con forze esclusivamente locali, all'attenzione al ruolo della cavalleria ormai trascurata dalle "persone nobili e ben nate", all'elogio per le pratiche alimentari dei soldati del Turco. L'andamento farraginoso dell'esposizione non impedisce pagine efficaci sul piano descrittivo o che racchiudono elementi non banali di analisi oltre a preziosi spunti autobiografici: gli incontri col d'Avalos e col Gonzaga, la rievocazione di giudizi espressi a voce da Agostino Nifo o da Garcilaso de la Vega, il ricordo denso di amarezza, inserito nella dedica a Filippo II, di essere stato da "alcuni, se ben peggiori […] calunniato e perseguitato", e, infine, una nota in margine al manoscritto che specifica essere Giulia Gonzaga la gran signora cui il G. si riferisce nel testo e alla quale un principe parlava di cose serie ma anche di burle.
A Napoli nei primi anni Sessanta l'intreccio fra politica e religione ebbe ancora modo di manifestarsi in forme contrastate e violente: alla campagna di distruzione delle enclaves valdesi in Calabria e in Puglia e all'esecuzione capitale nel marzo 1564 di valdesiani di rango, come il nobile Giovan Francesco Alois, amico del Flaminio e dello stesso G. (a quest'ultimo anzi nel suo ultimo processo verrà attribuita l'appartenenza alla "setta" dell'Alois). Nonostante alcune testimonianze sul consenso dimostrato dalla città di Napoli alla cruenta vittoria sull'eresia, la risposta non si fece attendere, prima con la levata di scudi di membri dell'aristocrazia, dai Carafa ai Caracciolo ai di Sangro e allo stesso G., poi con una protesta estesa anche ai ceti popolari: alla lunga fu ottenuto dal viceré l'allontanamento del vicario generale Luigi Campagna, zelante persecutore dell'eresia. Non si fece attendere però una reazione contro il G., che si sarebbe esposto nella guida dei tumulti, e che, nuovamente incriminato fra il 1564 e il 1565 forse - come riteneva Giulia Gonzaga - anche per le pressioni dell'autorità vicereale, fu condotto a Roma dove si svolse il processo (anche se alcune fasi dell'iter ebbero luogo a Napoli) sino alla sentenza del 1567. Le accuse furono formulate in tredici punti, sui quali furono raccolte, di fronte all'arcivescovo Carafa, commissario dell'Inquisizione romana, le testimonianze napoletane fra l'11 e il 26 luglio. In sostanza si imputò al G. di avere perseverato nelle opinioni eterodosse, di averle fatte circolare attraverso la traduzione in italiano e la riproduzione degli scritti di Valdés e di avere svolto egli stesso un ruolo attivo di interpretazione del testo biblico. Nell'escussione dei testi non mancarono affermazioni fuori misura, ma indicative della funzione del G. nell'entourage valdesiano, come quando fu riportata la valutazione di Giovan Tommaso Minadois, secondo il quale lo spirito di s. Paolo da nessuno era stato inteso, dopo Agostino, meglio che dal Galeota. A giudizi più anodini di alcuni testimoni se ne affiancarono altri che ribadivano la pericolosità della funzione e delle idee dell'accusato, qualificato come "docto, soctile et destro nel ragionare, senza scoprir il veleno". I riferimenti ai libri posseduti, letti o fatti copiare (soprattutto i commentari biblici e le altre opere di Valdés, oltre al Beneficio di Cristo e a Una semplice dichiarazione sopra gli XII articoli della fede christiana del Vermigli, edito a Basilea nel 1544) dal G. confermano l'accentuazione valdesiana della sua fede religiosa a distanza di oltre vent'anni dalla morte dello spagnolo: del resto un testimone ricordò che, alla notizia della proibizione degli scritti di Valdés, il G. aveva replicato: "Io non me ne curo niente, perché l'ho in mente et non me le po levare nesciuno da mente, et se me ponno prohibire il legere non mel ponno levare dal'animo". Ciò non escludeva il consenso alle opinioni di Lutero in tema di eucaristia, sulla quale anzi il G. avrebbe compilato un testo favorevole alla tesi della consustanziazione. Il 12 giugno 1567 fu emessa la sentenza che lo condannò alla carcerazione per un quinquennio in un luogo da stabilirsi ma comunque lontano da Napoli, e alle consuete penitenze spirituali; dieci giorni più tardi, insieme con altre nove persone, il G. (il solo nobile fra quei dieci "luterani") recitò alla Minerva la sua abiura, alla quale, come riportò l'ambasciatore del duca di Mantova, fu presente una grande folla. Nell'aprile dell'anno dopo il suo nome veniva ricordato, durante un processo inquisitoriale a Mantova, come quello di un noto esponente del dissenso ereticale nel Regno di Napoli.
Nel maggio del 1571, dunque prima della scadenza dei termini della pena detentiva, il G. era già a Napoli, dove assunse incarichi amministrativi per sistemazioni stradali a Chiaia e per riparazioni in seguito a inondazioni a Nola, poi in parte trasmessi al figlio primogenito Giovan Berardino. Il G. si spense, in tarda età, nel 1585.
Nel 1583 gli era premorto il primogenito Giovan Berardino, che si era unito con Porzia, figlia del marchese Giovan Francesco d'Arena. Tuttavia già nel 1573 il G. aveva rinunciato al feudo di Monasterace - altre proprietà erano state in precedenza acquisite nel territorio di Squillace, ove era vescovo lo zio paterno Vincenzo - a favore del nipote Mario, figlio di Giovan Berardino e di Eleonora Toraldo dei signori di Badolato in Calabria. Le cinque figlie avevano contratto tutte matrimonio con esponenti della nobiltà del Regno, mentre i tre maschi si erano distinti nella carriera delle armi: il primogenito e Giovan Francesco (che risulta già defunto nel 1566) come ufficiali di cavalleria attivi contro le incursioni dei Turchi, Alfonso come regio capitano nella terra di Sala.
Fonti e Bibl.: P. Lopez, Il movimento valdesiano a Napoli. M. G. e le sue vicende col Sant'Uffizio, Napoli 1976 (fonte principale per la biografia religiosa del G.: pubblica in appendice gli atti giudiziari delle inchieste aperte contro di lui, sparsi tra l'Archivo general de Simancas, l'Archivio diocesano di Napoli e il Trinity College di Dublino). Altri materiali in: Estratto del processo di Pietro Carnesecchi, a cura di G. Manzoni, in Miscellanea di storia italiana, X (1870), pp. 187-573, e in Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, a cura di M. Firpo - D. Marcatto, I-V, Roma 1981-89, ad ind.; S. Ammirato, Il Rota overo dell'imprese, Napoli 1562, pp. 122 s.; Id., Delle famiglie nobili napoletane, II, Firenze 1651, p. 189; S. Volpicella, M. G. letterato napoletano del secolo XVI, in Atti della R. Acc. di archeol., lett. e belle arti, 1876-77, pt. II, pp. 136-178, 185-187, 191; K. Benrath, Don M. Galeotto (Galeota) napoletano, 1567, in Allgemeine Zeitung, 1877, n. 102; Id., M. G. letterato napoletano del secolo XVI, in Rivista cristiana, 1878, n. 6, pp. 41-50; A. Gaspary, In qual tempo fu composta l'egloga del Tansillo?, in Giornale stor. della letteratura ital., IX (1887), pp. 461 s.; L. Amabile, Il Santo Officio della inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892, pp. 147-149; B. Croce, L'Accademia dei Sereni [1919], in Aneddoti di varia letteratura, I, Bari, 1953, pp. 302-309; L. v. Pastor, Storia dei papi, VIII, Roma 1924, p. 207; R. De Maio, Alfonso Carafa cardinale di Napoli (1540-1565), Città del Vaticano 1961, pp. 169 s.; N. Badaloni, Frammenti di vita intellettuale a Napoli dal 1500 alla metà del '600, in Storia di Napoli, V, 1, Napoli 1972, pp. 654-657; P. Lopez, Inquisizione, stampa e censura nel Regno di Napoli tra '500 e '600, Napoli 1974, pp. 77 s.; Id., Il movimento valdesiano, cit.; A. Pastore, Marcantonio Flaminio. Fortune e sfortune di un chierico nell'Italia del Cinquecento, Milano 1981, pp. 108 s.; M. Rosa, La Chiesa e gli Stati regionali nell'età dell'assolutismo, in Letteratura italiana, I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 273 s.; M. Firpo, Tra alumbrados e "spirituali". Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del '500 italiano, Firenze 1990, pp. 20-23, 27, 37, 87 s.; S. Pagano, Il processo di Endimio Calandra e l'Inquisizione a Mantova nel 1567-1568, Città del Vaticano 1991, pp. 125, 146, 312, 328; S. Caponetto, La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Torino 1992, pp. 88 s.; G. Romeo, Aspettando il boia. Condannati a morte, confortatori e inquisitori nella Napoli della Controriforma, Firenze 1993, pp. 108, 315 s., 321, 329; M. Rinaldi, Una scienza per il principe. Architettura e buon governo nel "Trattato delle fortificazioni" di M. G., in Annali dell'Ist. ital. per gli studi storici, XIV (1997), pp. 279-308.