MATTOLI, Mario
– Nacque a Tolentino, il 30 nov. 1898, da Aristide, medico chirurgo appartenente a una buona famiglia di Bevagna, e Pia Ajò. Laureatosi in giurisprudenza, cominciò a esercitare la professione legale a Milano come procuratore di una nota società teatrale, la Suvini-Zerboni, della quale nel 1924, abbandonata l’avvocatura, divenne segretario. Nell’ambiente dello spettacolo fece conoscenze e strinse legami che si rivelarono utili quando, nel 1927, insieme con L. Ramo, un giornalista anch’egli attivo come autore e organizzatore teatrale, decise di fondare una compagnia, la Za-Bum spettacoli, che includeva la Za-Bum drammatica e la Za-Bum rivista.
Mentre la Za-Bum drammatica metteva in scena il repertorio tradizionale (tra i vari allestimenti, negli anni 1928-30: Il processo di Mary Dugan, di B. Veiller, con R. Ricci e M. Benassi; K 41, di L. Chiarelli, con Irma Gramatica, Andreina Pagnani, Benassi; Il cerchio della morte, di E. Cavacchioli; Campo di maggio, di G. Forzano, anche classici come La porta chiusa di M. Praga e Come le foglie, di G. Giacosa), per la Za-Bum rivista il M. percorse strade meno abituali. Insieme con alcuni atti unici di O. Biancoli e D. Falconi (tutti nel 1928: Il sabato del villaggio, Soldati 1898, Vent’anni dopo, Visitare gli infermi), nella stagione 1928-30 produsse due spettacoli che venivano rispettivamente dagli Stati Uniti (Broadway, di P. Dunning - G. Abbot) e dall’Ungheria (Wunderbar, di G. Herczeg - K. Farkas) ambedue un misto di prosa, canzoni e balletti strutturati sulla base di un filo narrativo che faceva da trait d’union ai vari numeri (vi parteciparono, fra gli altri, le due sorelle Mignone, in arte Milly e Mity, la prima a lungo attrice per il M., la seconda sua moglie dal 1928). Su questa stessa lunghezza d’onda – e tenendo conto anche dell’esperienza della compagnia di D. Niccodemi che, nel 1930, aveva messo in scena con i suoi attori (Elsa Merlini, Ricci, R. Lupi) Triangoli, di Biancoli e Falconi, uno spettacolo a «numeri» sul tipo della rivista – il M., imbattibile nell’individuare nuovi interpreti, scritturò tre attori di prosa semisconosciuti, V. De Sica, Giuditta Rissone e U. Melnati, cui si aggiunsero F. Coop, C. Pilotto, Pina Renzi, Amalia Chellini (e più tardi, fra gli altri, E. Viarisio, C. Ninchi, Milly [Carla Mignone], M. Ruffini, C. Campanini), impiegandoli in un copione consimile – sempre di Biancoli e Falconi più il M. regista –, un ibrido di scenette comiche, parodie, numeri musicali e balletti legati da una leggerissima trama, Le lucciole della città (con una chiaro riferimento parodico a Luci della città, di C. Chaplin), andato in scena con grande successo a Milano (teatro Olimpia, 18 apr. 1931). Intenzionato a sfruttare il momento positivo, negli anni seguenti (le varie Za-Bum ebbero una numerazione successiva e fino al 1934, quando vennero sospese, se ne contano dieci) il M. organizzò vari spettacoli con la medesima formula e lo stesso vivaio di attori (Tredes corn; Le nuove lucciole; Lo so che non è così, di Biancoli - Falconi; L’amore fa fare questo ed altro, di A. Campanile; La dolce vita, ultimo spettacolo, sempre di Biancoli - Falconi). Abile nel captare l’evoluzione del gusto del pubblico, il M. aveva capito fra i primi che il varietà, per uscire definitivamente dal café chantant e conquistare il pubblico borghese e familiare che andava a teatro, doveva emendarsi dalle volgarità, dalla recitazione approssimativa dei guitti, dalle nudità delle ballerine e offrire, attraverso figure attoriali abitualmente inserite in una cornice più raffinata, spettacoli garbati, eleganti, che supplissero con una comicità gradevole, pur se qualunquista ed edulcorata, alla vera satira vietata dal regime fascista.
Oramai regista e unico titolare della Za-Bum, il M. si era fatalmente avvicinato al cinema che nel teatro aveva una delle sue fonti primarie di soggetti e di nuovi interpreti; nel 1934 fu sceneggiatore e produttore di La segretaria per tutti, di A. Palermi, e, nello stesso anno, proprio per seguire il lavoro dei suoi attori (Milly, De Sica, Viarisio), per cui aveva scritto soggetto e sceneggiatura di Tempo massimo, sostituì dietro la macchina da presa C.L. Bragaglia che aveva dato forfait tre giorni prima dell’inizio delle riprese. Del 1935 è Amo te sola, con Milly e De Sica, la sua prima vera regia cinematografica, film in cui l’ambientazione risorgimentale è risolta in chiave sentimental-musicale (De Sica è un compositore-patriota); seguirono, nel 1936, ben tre pellicole, primo sintomo di una produttività quasi compulsiva che lo avrebbe caratterizzato lungo tutta la carriera, espressione, comunque, di una grande e riconosciuta capacità di padroneggiare il complicato meccanismo necessario alla costruzione del film.
Secondo il M. lo spettacolo cinematografico doveva strutturarsi, in ordine decrescente di importanza, intorno all’«idea» – vale a dire il soggetto ben più che la sceneggiatura –, all’attore – in immediata e necessaria corrispondenza con il personaggio previsto dal plot –, infine, buon ultimo, veniva il regista e organizzatore. Una simile affermazione esclude evidentemente la concezione del regista come autore e pone il M. nella categoria dei registi di genere, dotato, tuttavia, di una tale versatilità da coprirne ben più di uno (e in effetti egli girò di tutto: telefoni bianchi, melodrammi, commedie, film comici e musicali). In ogni caso, la matrice teatrale della sua attività professionale influì senz’altro sul suo modo di affrontare il set nel rapporto con il testo e con l’attore.
Fra le tre pellicole del 1936, se merita appena un cenno Musica in piazza, tutta girata in esterni nella familiare Bevagna, molto significativa è invece La damigella di Bard – presentata al festival di Venezia, tratta da una commedia di S. Gotta e ambientata a Torino –, in cui il M. per esaltare la recitazione di un mostro sacro della scena come Emma Gramatica (nel ruolo di un’anziana signorina nobile, rovinata e costretta a vivere come un’ospite nella soffitta del palazzo di famiglia), costruisce un appropriato linguaggio cinematografico fatto di campi medi e ravvicinati che diano modo di seguirne bene le espressioni, di stop ritardati e di un montaggio discreto per non spezzare troppo il dialogo; viceversa, usa abilmente gli esterni e l’ambiente del palazzo magnatizio per movimentare la storia e nascondere la provenienza scenica del testo. Linguaggi e accorgimenti che avrebbe adoperato spesso, e particolarmente nelle due pellicole legate a un grande successo teatrale di Dina Galli: Felicita Colombo (1937) e il sequel, scritto per l’occasione, Nonna Felicita (1938). Nel 1939 questo bagaglio di esperienze tecniche, corredato di una serie di significative novità, si ritrova in Imputato alzatevi, regia del M. con E. Macario protagonista.
Imputato alzatevi è comunemente considerato il primo film comico in senso moderno della cinematografia italiana (cioè sostanzialmente diverso dalle farse e dalle «torte in faccia» alla Ridolini, nate con il muto, o dalle tradizionali commedie). La maschera già famosa di Macario viene posta al centro di una vicenda assurda e pretestuosa che permette l’inserimento di interi pezzi di rivista. Per vivacizzare ulteriormente il copione, il M., fondendo i codici teatrali, cinematografici e dell’avanspettacolo, introdusse giorno per giorno nella sceneggiatura una serie di gag commissionate a umoristi, soprattutto collaboratori del Marc’Aurelio (M. Marchesi, C. Manzoni, G. Guareschi, Steno [Stefano Vanzina], R. Maccari e il giovane F. Fellini, seppur non accreditato), inaugurando una pratica che sarebbe stata poi comunemente seguita. Agli accorgimenti già utilizzati con le star del teatro «alto», il M. aggiunse anche l’uso di varie macchine da presa che seguivano costantemente l’attore lasciandogli completa libertà di movimento. Il tutto sortì un «ritmo scatenato, scoppiettante ben sostenuto dall’astrattezza della vicenda» nell’ambito di una «mise en scène come montaggio di attrazioni, affastellamento di materiali» (Della Casa, p. 27) che, della comicità di Macario, sottolineava il carattere surreale piuttosto che il lato più domestico e borghese. Il successo al botteghino portò ad altri film con l’attore, sempre sulla stessa linea: Lo vedi come sei… Lo vedi come sei? del 1939, Non me lo dire! e Il pirata sono io! del 1940; l’ultimo, del dopoguerra, Adamo ed Eva, del 1949, fu invece un fiasco e segnò la fine del periodo d’oro di Macario al cinema.
In questi anni, assecondando la sua naturale prolificità, il M. aveva girato anche alcuni telefoni bianchi (in questo ambito lo affiancò spesso come sceneggiatore A. De Benedetti, mentre utilizzò Marchesi e V. Metz per i film comici) e nel 1941 uscì forse il suo migliore all’interno del genere, Ore nove lezione di chimica (con Alida Valli, Irasema Dilian, A. Checchi, Campanini).
È una pellicola di ambiente «collegiale» in cui il dispositivo del racconto è dotato di un così perfetto ritmo nell’alternanza e nel dosaggio delle varie componenti (la storia sentimentale, l’elemento comico, le agnizioni, la rivalità, l’amicizia), sia pure declinate nelle forme più banali e prevedibili, da risultare, infine, assai gradevole.
Precedendo di qualche anno i trionfi di R. Matarazzo, il M. raggiunse buoni standard e il gradimento del pubblico anche nel mélo con «i film che parlano al cuore», come reclamizzò il primo della serie Luce nelle tenebre (1941), con la diva Valli in coppia con F. Giachetti e spesso C. Ninchi e Checchi.
In questa pellicola, come nelle altre della serie – nel 1942: Catene invisibili (Valli, Checchi, C. Ninchi) e Stasera niente di nuovo (Valli, Ninchi); nel 1943: Labbra serrate (Vera Carmi, Giachetti, Checchi), La valle del diavolo (Marina Berti, Ninchi, Checchi), tutti e due in costume –, il M. si attiene ai dettati del genere senza però abbandonarvisi del tutto, usando come correttivi ambientazioni accuratamente definite ed elementi spuri che provengono da altri generi come la commedia sentimentale e il giallo.
Contemporaneamente il M. aveva inaugurato il rapporto con un altro filone tipico del cinema italiano, il film musicale legato all’opera e ai suoi protagonisti; in questo campo ebbe un rapporto preferenziale con il tenore F. Tagliavini che fu interprete di Voglio vivere così e La donna è mobile (entrambi 1942), Ho tanta voglia di cantare (1944). Nel 1942 aveva anche girato il suo unico film di guerra, ambientato nell’aeronautica militare, I tre aquilotti (con L. Cortese e un inedito A. Sordi in un ruolo serio), privo di trionfalismi, quasi documentaristico, il cui soggetto fu firmato da A. De Stefani e Tito Silvio Mursino (alias Vittorio Mussolini).
Nel corso degli anni di guerra il M. si rese conto, come tutti, dei profondi mutamenti in atto, avvertendo anche, da professionista, che il cambiamento avvenuto nella sensibilità del pubblico richiedeva di modificare il corrente linguaggio cinematografico; frutto di queste nuove circostanze fu L’ultima carrozzella.
Considerata da alcuni una delle pellicole che «anticiparono» il neorealismo, da contarsi fra le «opere facenti parte di un medesimo processo, anche se sorrette da una diversa cultura etica e poetica» (Brunetta, p. 119), è la storia di Totò, uno degli ultimi proprietari di carrozzelle nell’imminenza del trionfo del taxi, il quale, portando alla stazione una sciantosa che si dimentica sulla vettura una borsa contenente un diamante, incorre in una serie di guai e finisce addirittura in prigione; rientrato, infine, indenne a casa permetterà che la figlia si fidanzi con un tassista. Il soggetto del film è di A. Fabrizi, sceneggiato con Fellini; protagonisti lo stesso Fabrizi come vetturino e Anna Magnani come sciantosa, una sciantosa sul momento più vicina alla Loletta Prima di Teresa Venerdì, gradevole commedia del primo De Sica, che non alla sora Pina di Roma città aperta, manifesto del neorealismo firmato da R. Rossellini. E tuttavia, pur trattandosi ancora una volta di una classica commedia, l’atmosfera che si respira è diversa: all’aria aperta, in una Roma autentica, il M. domanda agli attori di liberarsi delle convenzioni della recitazione teatrale, fosse pure l’impostazione della rivista, di essere naturali; e se il copione è indubbiamente lontano nei contenuti dallo spirito profondo del neorealismo, il corredo tecnico-formale, il modo di girare sono già fuori dal cinema di anteguerra. Dopo una lunga pausa, negli anni Cinquanta,
il M. avrebbe ripreso la collaborazione con Fabrizi per alcuni film comici, quando oramai l’attore romano il più delle volte si limitava a riproporre abbastanza stancamente le macchiette del suo vecchio repertorio (1952, Cinque poveri in automobile; 1953, Siamo tutti inquilini; 1959, Prepotenti più di prima; 1960, Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi). Con la Magnani, nel 1948, realizzò una delle sue migliori regie, Assunta Spina, dove l’attrice fu all’altezza delle altre grandi interpreti di questo cavallo di battaglia del verismo napoletano, e l’ambientazione partenopea risulta così equilibrata ed efficace che qualcuno sospettò, malignamente, un intervento diretto di Eduardo De Filippo, coprotagonista insieme con la sorella Titina, dimenticando la specifica abilità del M. proprio nel trattare gli «esterni».
Dalla metà del 1943, essendo diventato difficile persino per lui allestire un set, il M. riprese anche l’attività in teatro con Ritorna Za-Bum, su testi suoi e di Marchesi, in compagnia Isa Pola, Lupi, Vera Carmi, L. Pavese.
Visto il successo, l’anno dopo trasferì la rivista in pellicola (Circo equestre Za-Bum, cinque quadri di rivista indipendenti fra loro) e replicò in teatro, al Quattro Fontane, con Sai che ti dico?, per il quale fu ingaggiato, insieme con Campanini e Olga Villi, il giovane Sordi che vi lanciò il personaggio di Mario Pio. Ma l’incontro più significativo di questa seconda fase teatrale fu sicuramente quello con P. Garinei e S. Giovannini cui il M. domandò un copione per la rinnovata Za-Bum, Soffia, so’ – con la Magnani e vari attori di prosa, fra cui A. Tieri, regia del M. –, rappresentato sempre al Quattro Fontane, il 13 genn. 1945. Fu un esordio trionfale per la nuova coppia del teatro leggero italiano che proseguì la collaborazione con il M. (Soffia so’ n. 2, Pirulì, Pirulà e, nel marzo 1946, Sono le dieci e tutto va bene, tutti secondo il vecchio schema della rivista ma insaporito da contenuti di satira politica divenuti inusuali al pubblico italiano) e gli manifestò sempre ammirazione e rispetto riconoscendo di aver appreso da lui i fondamenti del mestiere, soprattutto il senso del tempo comico.
La mediocre riuscita dell’ultimo spettacolo teatrale riportò il M. al cinema ed è del 1945 il suo unico serio tentativo di inserirsi in qualche modo, e soprattutto a suo modo, nel nuovo cinema italiano, con La vita ricomincia, del 1945, interpreti la Valli, Giachetti ed Eduardo.
Rientrato dal fronte, un medico apprende che la moglie è stata arrestata per omicidio, scopre che in effetti ha ucciso un uomo cui si era prostituita una sola volta come unico mezzo per ottenere i soldi necessari a curare il figlio gravemente malato; quando la donna esce assolta dal processo, il marito, superati dubbi e scrupoli, la riprende con sé per cominciare una nuova vita, secondo il consiglio di un anziano professore (Eduardo), testimone dell’intera vicenda. Il film è un vero mélo, condotto, però, sul piano stilistico all’insegna del rinnovamento, con un linguaggio pacato e realistico, privo di eccessi. Ma il messaggio del M., evidente nella frase conclusiva di Eduardo («La guerra non ha risparmiato nessuno e ora bisogna rifare tutto, rimboccarsi le maniche»), e cioè che anche il cinema italiano andava ricostruito ma senza ostracismi o preconcetti, semplicemente riprendendo il lavoro che ciascuno sapeva fare, non venne accettato in un ambiente in cui, a livello della critica soprattutto, si pensava che tutto dovesse ormai attenersi ai nuovi canoni e si potesse fare a meno di quel cinema «medio» di cui il M. era uno dei massimi esponenti.
Nonostante la pellicola ottenesse all’estero i riconoscimenti che non ebbe in Italia (fu presentata al festival di Locarno e acquistata da distributori non italiani, favorendo la chiamata della Valli a Hollywood), il M. – dotato di un carattere risentito e tutt’altro che facile – si limitò, da quel momento, all’ambito del cinema popolare e di genere, allora considerato quasi automaticamente di «serie B», soprattutto al comico sia pur declinato in diverse accezioni. A indirizzarlo e mantenerlo prevalentemente su questa linea contribuì sicuramente il fortunato sodalizio instaurato con A. De Curtis, in arte Totò, che avrebbe diretto in 16 film.
L’esordio della loro pluriennale collaborazione è indicativo dell’approccio del M. al cinema in generale: nel 1947, infatti, aveva appena finito di girare una coproduzione italo-francese di un classico feuilleton ottocentesco alla E. Sue, Il fiacre n. 12, strutturato in due episodi (Delitto e Castigo), un grosso impegno produttivo che invogliò il M. a utilizzare scene, costumi e, in qualche caso, anche gli attori del set appena concluso per una «maliziosa, onirica e scatenata parodia» (Il Morandini: dizionario dei film: 1999, s.v.) di un dramma francese di grande successo di A.P. d’Ennery e E. Cormon, già più volte portato sullo schermo, Le due orfanelle, che divenne appunto I due orfanelli: Totò e Campanini. Quello che si inaugurava fu un rapporto ottimale: la maschera di Totò, infatti, più di altre non sopportava limitazioni di ruolo; la sua forza e la sua grandezza erano nell’improvvisazione, nell’imprevedibilità del lessico e dei comportamenti che gli permetteva di smontare dall’interno il meccanismo del cosiddetto senso comune mirato a incatenare la vitalità dei semplici, il loro diritto a sopravvivere; la regia morbida del M., tutta orientata a seguire e a favorire il mattatore, ma anche a riempire i vuoti del copione determinati dall’improvvisazione, a sostenere la «spalla» del comico, a inserire a tempo debito comprimari e belle donnine, corrispondeva in pieno alle esigenze dell’attore e alla riuscita del film. Pur tenendo conto delle cadute di livello, fatali nell’ambito di una produzione così intensa, del «prolungarsi delle battute e della ripetitività delle situazioni», per cui furono a lungo maltrattati dalla critica, questi film «toccano da subito aspetti importanti del vissuto collettivo» (Brunetta, p. 198) tanto da creare una sorta di piccolo patrimonio di gag e situazioni divenute proverbiali. Tra i titoli più significativi si ricordano: Fifa e arena, Totò al giro d’Italia (entrambi 1948); Totò sceicco (1950); Totò terzo uomo (1951); Un turco napoletano (1953); Il medico dei pazzi, Miseria e nobiltà (entrambi 1954). L’ultimo fu, nel 1961, Sua eccellenza si fermò a mangiare.
Sempre con Totò come interprete, ma nell’ambito di un «sottogenere» che praticò spesso, figura nel 1949 I pompieri di Viggiù, in cui a pretesto di un «film corale, pieno di ospiti e partecipazioni, interamente girato a quadri staccati, vero e proprio manifesto del nuovo cinema italiano» (Della Casa, p. 62) viene presa una canzone di successo di quegli anni, di A. Fragna (su questa linea e da canzoni dello stesso autore seguirono I cadetti di Guascogna, 1950 e Arrivano i nostri, 1951). Nel dopoguerra e fino agli anni Sessanta davanti alla macchina da presa del M. sfilarono, comunque, i migliori nomi del teatro leggero italiano, sia i protagonisti sia i caratteri: U. Tognazzi (che il M. aveva fatto esordire in teatro nel 1945) e R. Vianello (Non perdiamo la testa, Tipi da spiaggia, Guardatele ma non toccatele, tutti del 1959; Sua eccellenza si fermò a mangiare, Cinque marines per cento ragazze, del 1961); W. Chiari (Totò al giro d’Italia, 1948; L’inafferrabile 12, I cadetti di Guascogna, 1950; Il padrone del vapore, Arrivano i nostri, 1951; Cinque poveri in automobile, 1952; Un mandarino per Teo, 1960) e ancora C. Croccolo, M. Riva e R. Billi, Isa Barzizza, Virna Lisi, Franca Marzi, per chiudere con F. Franchi e C. Ingrassia che il M. scoprì in contemporanea con D. Modugno e utilizzò in parecchie pellicole a cominciare da Appuntamento a Ischia nel 1960. Ultimo film degli 83 della sua filmografia fu Per qualche dollaro in meno, del 1966, con L. Buzzanca.
Il M., come altri registi di genere, fu in parte riabilitato dalla critica negli anni Settanta e nel 1978 la televisione gli dedicò Mattolineide, un lungo special per la regia di M. Ponzi.
Ritiratosi a Nepi negli ultimi anni, morì a Ronciglione il 23 febbr. 1980.
Fonti e Bibl.: Al M. ha dedicato un esaustivo saggio, con bibl. completa anche dei film, S. Della Casa, M., Roma 1990; cfr. ancora: G. Fofi, Totò, Roma 1972, ad ind.; F. Faldini - G. Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Milano 1979, ad indicem. Il M. è inoltre citato nelle principali storie del cinema italiano e per tutte si veda G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano 1905-2003, Torino 2007, ad indicem. Per la carriera teatrale cfr.: L. Ramo, Storia del varietà, Milano 1956, ad ind.; Follie del varietà, a cura di S. De Matteis - M. Lombardi - M. Somarè, Milano 1980, ad ind.; G. Pretini, Spettacolo leggero, Udine 1997, ad indicem.