MISSIROLI, Mario
– Nacque a Bologna, il 25 nov. 1886, da Giuseppe e da Amalia Baravelli, in una famiglia di piccola borghesia romagnola.
All’età di tre anni perse il padre: fu quindi cresciuto, insieme con la sorella Dina, dai parenti della madre, riuscendo a percorrere un regolare curriculum scolastico fino al conseguimento del diploma presso il liceo classico Rinaldo Corso di Correggio, nel 1905. Nell’anno accademico 1905-06 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Bologna, seguendo solo irregolarmente gli studi, finché, nel febbraio del 1917, chiese di passare al quarto anno di lettere. Si sarebbe laureato il 27 luglio 1921 con una tesi su «La filosofia politica della Destra», quando era già uno dei più celebri giornalisti italiani, avendo esordito a soli quindici anni, nel 1901, con collaborazioni a testate locali, come Rinascenza e il settimanale satirico Il Nuovo Don Chisciotte.
Il mondo della cultura bolognese era all’epoca ancora dominato dalla figura di G. Carducci – che il giovane M. incontrò nel 1904, nello studio dell’editore C. Zanichelli (Gente di conoscenza, Milano-Napoli 1972, pp. 9-14) –, ma il suo vero maestro di storia e di politica fu A. Oriani che egli assistette nelle ultime fatiche editoriali. Dopo la sua morte (1909), fu tra i principali curatori dell’edizione delle opere di Oriani presso l’editore Laterza (1913-21), anche grazie alla mediazione di B. Croce. Oriani ebbe un ruolo fondamentale nel riannodare il M. alla tradizione hegeliana della seconda metà dell’Ottocento, che aveva avuto in Bologna uno dei suoi centri, ed «hegeliano», sia pure in un modo del tutto personale, il M. sarebbe rimasto per tutta la vita. Partecipò, quindi, alla reazione antipositivistica che stava permeando la giovane cultura italiana.
Il M. guardò, quasi naturalmente, alle riviste fiorentine che erano le avanguardie di tale reazione, iniziando, nel 1906, un rapporto epistolare con G. Papini e G. Prezzolini: fece così in tempo a collaborare a Il Regno (La coltura italiana, 23 giugno 1906) e al Leonardo del 1907 con una serie di interventi contro alcuni esponenti della cultura positivistica, mentre un solo articolo avrebbe poi pubblicato su La Voce (Il ritorno di Enrico Ferri, 3 genn. 1909), dal cui ambiente si sarebbe presto allontanato. Ne condivise, tuttavia, l’interesse per il modernismo (di cui fu sempre critico dal punto di vista dell’ortodossia cattolica), per il sindacalismo rivoluzionario (il M. fu collaboratore anche di Pagine libere, la rivista di A.O. Olivetti) e il pensiero di G. Sorel. Per un giovane della sua generazione era inevitabile un confronto critico con l’opera di B. Croce, conosciuto personalmente al Congresso internazionale di filosofia che si tenne a Bologna nell’aprile del 1911.
Insomma la formazione da autodidatta del M. sboccò in una cultura eterogenea, incentrata su una serie di temi che – in guise diverse – rimasero costanti nei decenni successivi e che egli diversamente modulò a seconda delle circostanze. Si è già accennato al suo «hegelismo»: per lui significò soprattutto un gusto per la nuda dialettica delle idee, che sempre cercò di rinvenire negli avvenimenti storici anche più complessi; una tendenza al giustificazionismo storico e all’accettazione del fatto compiuto; una concezione del mondo moderno come processo nato dalla Riforma protestante e percorso da uno spirito di continuo mutamento, che trova nel «liberalismo» la sua espressione più compiuta. Così il «liberalismo» non è tanto una teoria politica, ma un atteggiamento mentale che porta a storicizzare il presente, sforzandosi di comprendere valore e funzione di tutti i movimenti politici e sociali che emergono nella società, di considerarli dall’alto e, se «progressivi», non ostacolarli, anche quando si rivolgono contro lo stesso liberalismo «ufficiale». A tale liberalismo «faustiano» si oppone il nemico di sempre, il cattolicesimo romano, che occupa l’altra metà della mente del Missiroli. Il suo cattolicesimo è quello della Controriforma, del Sillabo e della lotta antimodernistica di Pio X: un atteggiamento teocratico, che nega in radice il mondo moderno e ostenta uno spirito di totale scissione verso le istituzioni degli Stati contemporanei nati da un lungo processo di secolarizzazione. Per questo il pensiero cattolico deve contrapporsi alla politica contemporanea e ai suoi totem (nazione, razza, imperialismo, bellicismo), rifiutandoli integralmente (M. M., Critica negativa, Bologna 1914).
Intanto il M. continuava l’attività giornalistica: nel 1906 era diventato redattore della Gazzetta dell’Emilia, il vecchio organo degli ambienti costituzional-moderati emiliani, collaborando anche alla terza pagina de Il Giornale d’Italia. Ma la vera svolta della sua carriera ebbe luogo il 1° ag. 1909, quando entrò nel maggiore quotidiano bolognese, Il Resto del carlino, nei mesi precedenti acquistato dalla Federazione interprovinciale agraria e quindi divenuto organo degli agrari emiliani: al Carlino, il M. istituì una terza pagina in cui accolse alcuni fra i più significativi esponenti della nuova cultura italiana.
Vi chiamò a collaborare idealisti, «sindacalisti», «vociani», nazionalisti, modernisti: la mediazione del M. fu fondamentale per l’assunzione nel 1912 di G. Amendola come corrispondente da Roma, nel 1917 di G. Gentile come editorialista e di E. Buonaiuti come corrispondente vaticano (maggio 1918).
Dal 15 maggio al 15 luglio 1913 pubblicò sulla rivista bolognese San Giorgio, giornale dei nuovi romantici, diretta dall’amico E. Giovanetti, quattro articoli raccolti l’anno successivo in La monarchia socialista: estrema destra (Bari 1914), il primo dei libri del M., che gli diede subito vasta e discussa notorietà.
Egli ricostruiva la storia italiana dopo il 1848 come un capitolo di storia religiosa: lo Stato moderno (individuato dal M. nello Stato che trae da se stesso la propria legittimità, senza aver bisogno di una sanzione religiosa «esterna») è nato con la creazione delle chiese nazionali seguita alla Riforma protestante e quindi si è sviluppato nell’Europa riformata. Ma in Italia tale processo non si è verificato nel Cinquecento e tanto meno durante il Risorgimento: in alcuni dei suoi protagonisti (come G. Mazzini e i filosofi hegeliani che poi si sarebbero riconosciuti nella Destra storica) era viva la coscienza che quello fosse il problema vero della rinascita nazionale e, quindi, l’esigenza di contrapporre alla Chiesa cattolica un’altra concezione complessiva del mondo, che giustificasse e sorreggesse il nuovo Stato. Ma tutti costoro avevano fallito: avevano vinto l’empirismo cavouriano e la soluzione monarchica, da cui era nato uno Stato senz’anima, tutto ordinaria amministrazione e assolutamente impari di fronte alla sfida del cattolicesimo romano. Per tenere in piedi quella precaria realizzazione, la monarchia si era affidata al trasformismo di A. Depretis e poi si era imbarcata, con F. Crispi, nella grande politica internazionale e nell’avventura coloniale. Il culmine di questa rinunzia si era avuto nell’età giolittiana, con il pratico coinvolgimento del socialismo negli equilibri di potere (donde la «monarchia socialista»): il paese profondo aveva avvertito tutto il disagio di questa umiliante situazione e aveva imposto la guerra di Libia per riscattarsene. La risposta monarchica era stata geniale: il patto Gentiloni e il nuovo collaborazionismo con i cattolici aveva restaurato i tradizionali equilibri di potere. A uno Stato che quindi non riusciva a elaborare una chiara e autonoma coscienza di sé, ma si doveva appoggiare trasformisticamente sui suoi avversari, il M. contrapponeva nell’ultimo capitolo (C’è un maestro infallibile) la teocrazia cattolica espressa da Pio X, lui sì capace di dar vita a una visione integrale della storia e della vita, senza imprestiti dalle concezioni opposte.
Nonostante questa analisi, il M. non intendeva, comunque, confondersi con l’antigiolittismo endemico degli intellettuali «vociani»: nella crisi del 1914-15, si batté per la neutralità italiana, da lui sostenuta, fra l’altro, in una lunga lettera del 28 ag. 1914 di intonazione nettamente filotriplicista e antifrancese ospitata sull’ultimo numero della rivista teorica di B. Mussolini, Utopia (L’Italia e la Triplice, II [1914], pp. 343-348) e, il successivo 13 dic. 1914, nell’articolo Il senso del mondo su Italia nostra, il periodico neutralista di C. De Lollis e G. Bellonci. Una riflessione sulla guerra in corso fu anche il successivo Il papa in guerra (prefaz. di G. Sorel, Bologna 1915).
In esso tornava a giostrare coi suoi consueti concetti: la politica imperialistica è lo sbocco inevitabile dello Stato moderno e, dato che questo è il frutto della Riforma, ne deriva che sia la Chiesa cattolica la più totale antagonista di ogni imperialismo, razzismo, nazionalismo. Soprattutto se porta avanti un discorso nettamente impolitico, evangelico, di massimalismo teocratico. Per questo, la vera lotta contro la Germania è la politica del Sillabo e, al di là delle sue stesse intenzioni, la Chiesa è oggettivamente dalla parte dell’Intesa.
Il M. aveva, comunque, ormai accettato l’intervento italiano e, anzi, nell’estate del 1918, si fece sostenitore della politica del ministro degli Esteri S. Sonnino contro la politica slavofila del Corriere della sera, come – durante il 1919 – avrebbe sostenuto il G. D’Annunzio fiumano. Nei primi mesi di quell’anno, il M. si trasferì a Roma, avendo accettato la direzione de Il Tempo, un nuovo quotidiano di orientamento liberal-progressista e wilsoniano, ma tornò presto a Bologna, dove, il 27 apr. 1919, assunse quella del Carlino. Negli anni del dopoguerra, il M. fu uno dei più attivi sostenitori di F.S. Nitti.
Cercò di giustificare il «collaborazionismo» a cui guardava Nitti operando una distinzione, destinata a grande fortuna, fra «partito liberale» e «funzione liberale»: in Italia, essa «da almeno quindici anni, è passata […] ai socialisti. Il capo del liberalismo italiano, da quindici anni, è Filippo Turati». Tale «funzione» poteva tornare nelle mani del partito liberale, solo se esso si fosse mostrato capace di far propri e risolvere i programmi politici altrui e di usare anche le forze apparentemente ostili per un’opera di rinnovamento: così doveva esercitare una certa tolleranza nei confronti della violenza proletaria e ricercare una collaborazione con il socialismo «riformista» (Polemica liberale, Bologna 1919, e Una battaglia perduta, Milano 1924). Inoltre, mostrava di avere abbandonato anche la vecchia simpatia per l’intransigentismo cattolico e, ristampando la Monarchia socialista (Bologna 1922), ne espungeva l’elogio di Pio X, dichiarando che la soluzione del problema italiano poteva trovarsi solo nell’ambito della vita e della coscienza moderna.
Il M. fu uno degli uomini che maggiormente caratterizzò la cultura italiana del primo dopoguerra, volgendo risolutamente le spalle a ogni storicismo consolatorio e guardando con curiosità ai pensatori e agli intellettuali che più acutamente mostravano di avvertire la crisi dell’epoca (Prefazione ad A. Tilgher, Relativisti contemporanei: Vaihinger, Einstein, Rougier, Spengler, l’idealismo attuale, Roma 1921). Dal gennaio 1920 cominciò ad apparire nella seconda pagina del Carlino una serie di sue note quotidiane, che prendevano lo spunto da altri scritti, per sviscerarne il significato o più spesso per disintegrarne l’argomentazione: furono le Opinioni, poi raccolte in volume su consiglio di G. Prezzolini (Firenze 1921). Fu questo il M., «opinionista» e analista politico, che interessò i giovani che si affacciavano alla vita culturale del dopoguerra: da A. Gramsci e il gruppo dell’Ordine nuovo a P. Gobetti e l’ambiente della Rivoluzione liberale.
Nei due anni in cui diresse il quotidiano bolognese, il M. si venne a trovare in una posizione nevralgica per osservare da vicino l’esplosione del fenomeno fascista. Con Mussolini, romagnolo anche lui, era in contatto almeno dal 1913 (B. Mussolini, Opera omnia, XVIII, Roma 1978, pp. 45 s.) e con attenzione ne aveva seguito la successiva parabola politica. Fin dall’anteguerra, poi, aveva mostrato piena consapevolezza di quale polveriera politica fossero le campagne emiliane, di cui aveva descritto con realismo la fortissima capacità di pressione sociale da parte delle leghe socialiste e previsto l’immancabile reazione agraria (Satrapia, Bologna 1914). Così il M. fu uno dei più lucidi analisti del primo fascismo nel saggio Il fascismo e la crisi italiana (ibid. 1921).
Il fascismo era essenzialmente un movimento di ceti medi in ascesa dal periodo precedente la guerra, usciti dal conflitto con una fortissima ansia di cambiamento, che il Partito socialista non aveva saputo attirare per il suo neutralismo e per la sua estraneità a ogni passione nazionale. Questa nuova borghesia, invece, aveva fatto della «rivendicazione della vittoria» il punto centrale della sua confusa prospettiva politica: da qui l’accentuarsi della sua passione nazionalistica e antisocialista e il suo inserimento nel clima arroventato creato in certe province (Bologna, Ferrara, Mantova) dalle lotte agrarie del 1920. Il M. riconosceva il ruolo fondamentale che nel movimento giocava la personalità di Mussolini, ma prevedeva le sue difficoltà quando avrebbe dovuto «ordinare le sue fila per un’opera positiva». Tuttavia in questa prima analisi, il M. riteneva possibili uno sviluppo «democratico» del fascismo e una pacificazione con i socialisti riformisti: da questa simbiosi sarebbe nata la nuova democrazia italiana.
Il libro ebbe una recensione favorevole da parte dello stesso Mussolini su Il Popolo d’Italia del 18 sett. 1921 ma, nonostante i suoi amichevoli rapporti con D. Grandi (si veda l’importante scambio epistolare della prima metà del 1921), già dopo i fatti di palazzo d’Accursio (21 nov. 1920) al M. fu intimato dal Fascio bolognese di non far ritorno nel capoluogo emiliano; il 5 apr. 1921, quindi, perse la direzione del Carlino. Il M. si trasferì allora a Milano, dove assunse quella de Il Secolo, il quotidiano della democrazia lombarda: nei due anni milanesi, egli fece la conoscenza di F. Turati e Anna Rosentein (Anna Kuliscioff) e strinse amicizia con il direttore dell’Avanti!, il romagnolo P. Nenni. Fu da Milano che assisté alla marcia su Roma: il 30 ott. 1922, una squadra di fascisti invadeva la redazione del suo giornale, ma Il Secolo - a differenza del Corriere della sera - poté uscire regolarmente. Nei mesi successivi la pressione fascista si fece sentire di nuovo: ebbe luogo un cambio di proprietà e il 14 luglio 1923, il M. dovette lasciare il giornale ormai fascistizzato.
Proprio nell’estate del 1923, a Castiglioncello, il M. incontrò Regina Avanzini (poi per lui e per tutti «Madame»), che divenne sua moglie e da cui ebbe la figlia Giuseppina. Ancora a Castiglioncello, scrisse Il colpo di Stato (Torino 1924).
Nel volume, egli interpretava la marcia su Roma come un colpo di Stato compiuto dalla Monarchia, la quale, però, aveva occultato le proprie responsabilità, facendo apparire il suo come un intervento moderatore.
Dopo un breve periodo di disoccupazione, accettò l’offerta di A. Frassati di assumere la corrispondenza romana de La Stampa: seguirono i mesi della crisi Matteotti, in cui il M. assunse un atteggiamento di durissima opposizione.
I due articoli scritti al momento della diffusione del memoriale di C. Rossi (Atto di accusa, in La Stampa, 28 dic. 1924 e Chiamata di correo, in Il Mondo, 30 dic. 1924), in cui attaccò senza mezze misure Mussolini, definendolo responsabile dell’assassinio, non gli sarebbero mai stati perdonati dal duce e dalla maggior parte dei suoi seguaci per tutto il ventennio successivo.
Dopo il 3 genn. 1925, il M. lasciava La Stampa, affrontando un nuovo periodo di disoccupazione: il successivo 9 ottobre, sul quotidiano L’Epoca, pubblicò una lettera aperta a Gobetti (Monarchia e fascismo), in cui sostanzialmente accettava il fascismo, dichiarando che esso aveva conservato «i suoi caratteri di movimento popolare e non si era esaurito in un semplice movimento di reazione» (la risposta di Gobetti è nei suoi Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino 1960, pp. 899 s.).
Nonostante questa «conversione», non fu facile al M. inserirsi nel nuovo regime: Mussolini (con cui aveva avuto un duello a Milano il 13 maggio 1922) se ne servì, ma gli impedì sempre di rivestire ruoli direttivi nei giornali italiani. Nei primi anni trovò da lavorare in alcune testate minori, su cui scriveva articoli quasi sempre anonimi, mentre, fra il 1928 e il 1929, collaborò intensamente a Il Popolo di Roma. Riprese, intanto, la sua attività pubblicistica, con volumi sulla politica economica del regime (La giustizia sociale nella politica monetaria di Mussolini, Bologna 1928), quella demografica (Amore e fame, Roma 1928), quella religiosa (Date a Cesare: la politica religiosa di Mussolini con documenti inediti, ibid. 1929): quest’ultimo volume fu messo all’Indice il 25 genn. 1930. Sin dal 1924 il M. era diventato intimo amico di L. Arpinati, il ras fascista che ne aveva decretato l’allontanamento dal Carlino: questi in almeno due occasioni, nel 1928 e nel 1930, si era adoperato inutilmente per farlo tornare alla direzione di quel giornale, incorrendo sempre non solo nel veto del duce, ma anche nell’opposizione dei dirigenti bolognesi del Partito nazionale fascista (PNF). Nel 1933 ebbe luogo l’ultimo tentativo, che fu fatale allo stesso Arpinati.
Nell’ottobre del 1932, Arpinati aveva spinto il M. a chiedere la tessera del PNF, garantendo della sua fede fascista: la domanda venne sulle prime accolta. Allora il ras bolognese mostrò l’intenzione di acquistare in proprio il quotidiano, allo scopo di affidarne la direzione al Missiroli. Questa volta una violenta opposizione venne dal nuovo segretario del partito, A. Starace, che, fra l’aprile e il maggio 1933, intervenne con successo su Mussolini per mandare all’aria l’operazione: al M. fu ritirata la tessera del PNF e contro Arpinati fu iniziato il procedimento che avrebbe portato alla sua fine politica (N.S. Onofri, I giornali bolognesi nel ventennio fascista, Bologna 1972, pp. 109-119; R. De Felice, Mussolini il duce, I, Gli anni del consenso 1929-1936, Torino 1974, pp. 292-300).
Negli anni successivi il M. continuò le sue (spesso anonime) collaborazioni giornalistiche su varie testate e iniziò anche un’intensa attività per la propaganda fascista all’estero, come scrittore di opuscoli tradotti in varie lingue: dal 1935 al 1943 li firmò quasi sempre con lo pseudonimo di Giulio Cesare Baravelli, utilizzando il cognome della madre. Ma intensa era pure la sua attività ufficiale di autore di testi dal tono apparentemente «obiettivo», in realtà funzionale all’esaltazione del regime.
L’Italia d’oggi, Bologna 1932; Studi sul fascismo, ibid. 1934; Cosa deve l’Italia a Mussolini, Roma 1936-37; Da Tunisi a Versailles, ibid. 1937-38; La politica estera di Mussolini dalla marcia su Roma al convegno di Monaco 1922-1938, Milano 1939: testi che ebbero numerose edizioni e furono tradotti in varie lingue.
Il M., che intanto aveva stabilizzato la sua situazione divenendo redattore de Il Messaggero, appoggiò anche la politica razziale del regime, sostenendo le leggi antisemite del 1938, anche se raccomandò «estrema moderazione» su tali questioni e propugnò un antisemitismo di tipo culturale e spirituale, più che strettamente razziale. Dopo lo scoppio della guerra, sostenne le ragioni dell’alleanza con la Germania, esaltando acriticamente l’esperienza nazionalsocialista (G.C. Baravelli, Dieci anni di nazionalsocialismo, Roma 1943).
Dopo la caduta di Mussolini e l’armistizio, rimase a Roma dove i giornalisti della capitale gli affidarono l’incarico di vegliare sulla sorte dei loro colleghi arrestati dai Tedeschi.
Il M. riuscì spesso a dirottarli in quella specie di «prigione-albergo a pagamento» organizzata dalla polizia fascista nella scuola annessa al monastero di S. Gregorio al Celio, dove, in quei mesi, furono «prigionieri» molti eminenti personaggi: all’indomani dello sbarco alleato ad Anzio (21-22 genn. 1944), quando si temette un loro spostamento verso l’Italia settentrionale, il M. fu fra gli organizzatori di una sorta di evasione, che ne mise in salvo alcuni (E. Forcella, La Resistenza in convento, Torino 1999, pp. 90-95). Lo stesso M. visse quei mesi fuori di casa sua, ospite nell’appartamento di V.E. Orlando.
Queste «benemerenze» gli valsero un encomio solenne del Comando civile e militare di Roma all’indomani della liberazione della città e gli permisero di inaugurare una nuova fase della sua carriera nell’Italia postfascista. Fu così che, nel settembre 1946, – sembra per le insistenze dell’amico P. Nenni – fu nominato direttore del Messaggero, divenuto ben presto, sotto la sua guida, uno dei più autorevoli quotidiani italiani.
A stretto contatto con la nuova classe dirigente, egli ebbe come punti di riferimento L. Einaudi, E. Vanoni, G. Campilli e soprattutto A. De Gasperi, che sostenne tenacemente nella sua opera di governo e con cui instaurò anche un profondo legame personale, testimoniato da una serie di importanti lettere che il presidente del Consiglio gli indirizzò in quegli anni (M. Missiroli, Lettere inedite di De Gasperi, in Id., Il Concordato visto da un liberale, Roma 1967, pp. 101-120).
Fu anche per sostenere l’azione di De Gasperi in vista delle difficilissime elezioni del 1953 che il M. fu nominato direttore del Corriere della sera (15 sett. 1952). Negli anni successivi, egli cercò di frenare l’apertura a sinistra e restò favorevole alla tradizione del centrismo: percepì con nettezza le trasformazioni che stavano avvenendo nel costume e nella cultura degli anni del boom economico, ma non riuscì ad adeguarvisi. Perciò non fu giudicato idoneo a guidare il Corriere nella nuova stagione politica: a metà settembre del 1961 fu licenziato dalla proprietà. Il M. continuò la sua opera di pubblicista: riprese a collaborare al Messaggero, divenne opinionista del settimanale Epoca, curò la ristampa di molti dei suoi vecchi libri, facendoli spesso precedere da illuminanti introduzioni, ritornò a Sorel, che era stato il maestro della sua giovinezza (G. Sorel, Lettere a un amico d’Italia, Bologna 1963); dal 1962 al 1970, fu presidente della Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI), il sindacato dei giornalisti italiani.
Scrisse anche opuscoli sulle trasformazioni di quegli anni, che dimostrano la sua acutezza di vecchio conservatore (Giustizia e carità nell’enciclica di Paolo VI, Roma 1967; Come si distrugge una borghesia: salviamo le classi medie, ibid. 1968); raccolse, inoltre, in un libretto voluto da R. Mattioli, una serie di profili di Gente di conoscenza (Milano-Napoli 1972).
Il M. morì a Roma il 29 nov. 1974.
L’opera del M. è disseminata in migliaia di articoli, anonimi e firmati; in decine di prefazioni a opere altrui; in saggi per riviste di cultura; in non pochi libri, usciti a suo nome, ma anche con pseudonimi. Un importante punto di partenza per la bibliografia è in M. Missiroli - G. Prezzolini, Carteggio 1906-1974, a cura di A. Botti, Roma 1992, pp. 459 s.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 76 (28 dic. 1924 - 3 maggio 1933); Ministero degli Interni, Div. Polizia politica, Fascicoli personali, Serie B (1927-44), b. 7B; Ibid., Direz. Gen. pubblica sicurezza, A1, 1927, b. 18; Ministero della Cultura popolare, b. 102, f. 294 (1939); ibid., Direz. gen. Servizi della propaganda, Nuclei di propaganda in Italia e all’estero, 1932-43, bb. 22.63, 29.7; Ibid., 2° versamento, Fascicoli intestati a personalità e testate giornalistiche, b. 8.33; Bologna, Università degli studi, Archivio storico, Facoltà di giurisprudenza, fasc. studenti, 2924; Facoltà di lettere, Fasc. studenti, 1313; Milano, Archivio storico del Corriere della sera, Carteggio, bb. 728-732. L’archivio Missiroli, che doveva essere ricchissimo di lettere e documenti, fu disperso dopo la sua morte. Sono superstiti le lettere a lui dirette da G. Sorel, ora in G. Sorel, «Da Proudhon a Lenin» e «L'Europa sotto la tormenta», premessa di G. De Rosa, Roma 1973, pp. 437-734 e stralci di alcune di De Gasperi (M. Missiroli, Lettere inedite di De Gasperi, cit.). Numerose le lettere del M. pubblicate: E. Amendola Kühn, Vita con Giovanni Amendola, Firenze 1960, ad nomen; G. Salvemini, Carteggio 1921-1926, Roma-Bari 1985, ad nomen; D. Grandi, Il mio paese, Bologna 1985, pp. 125-133; M. Missiroli - G. Prezzolini, Carteggio 1906-1974, cit; De Gasperi scrive, II, a cura di M.R. De Gasperi, Brescia 1974, p. 295. Quasi del tutto inedite quelle a G. Gentile (Roma, Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici, Carteggio G. Gentile, 61 lettere, 1911-20), a P. Gobetti (Torino, Centro studi P. Gobetti, Carteggio P. Gobetti, 21 lettere, 1924-25), a B. Croce (Napoli, Fondazione «Biblioteca Benedetto Croce», Archivio, Carteggio di Benedetto Croce, 180 lettere, 1911-52); a S. Aleramo (Roma, Fondazione Istituto Gramsci, Fondo Sibilla Aleramo, Corrispondenza, 6 lettere, 1921-24); a G. Papini (Fiesole, Fondazione e museo Primo Conti, Carteggio G. Papini, 314 lettere, 1906-56), a L. Einaudi (Torino, Fondazione Luigi Einaudi, Carteggio di L. Einaudi), a T. Gallarati Scotti (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Carteggio T. Gallarati Scotti, 44 lettere, 1914-64), a F.S. Nitti (Torino, Fondazione Luigi Einaudi, Archivio F.S. Nitti, 33 lettere, 1920-24). Altre 3 lettere a Nitti si trovano in Roma, Archivio centrale dello Stato, Carte Nitti, 1921-22. Fra gli altri corrispondenti: Ibid., Carteggio Albertini, 6 lettere, 1921-25; Carte L. Capello, 2 lettere, 1921; Carteggio Pietro Nenni 1944-1979, 33 lettere, 1946-64; Carte V. E. Orlando, 6 lettere, 1922-52. Il profilo del M. più aggiornato è quello di A. Botti, Introduzione a M. Missiroli - G. Prezzolini, Carteggio 1906-1974, cit., a cui si rinvia anche per la bibliografia precedente, in cui spicca G. Afeltra, M. e i suoi tempi. Splendori e debolezze di un uomo di ingegno, Milano 1985, di natura prevalentemente aneddotica, ma ricco di notizie. Successivamente cfr. L. Simonelli, M. M. Il più rivoluzionario dei conservatori, in Id., Dieci giornalisti e un editore, Milano 1997, pp. 221-269.