PAGGI, Mario
PAGGI, Mario. – Nacque a Murlo, in provincia di Siena, il 10 febbraio 1902, figlio di Edoardo, medico condotto di origini ebraiche, e da Ines Sadun.
Compì gli studi di giurisprudenza sotto la guida di Piero Calamandrei, che ne influenzò la maturazione politica nel clima della fascistizzazione dell’ateneo senese.
Il 29 maggio 1923, nel cortile del rettorato, celebrò i caduti di Curtatone e Montanara rivolgendo ai suoi compagni un discorso appassionato, nel quale la forte sottolineatura del nesso tra nazione e libertà lasciò intendere il suo antifascismo. Nel 1924, ormai convinto nemico di Mussolini, collaborò con articoli sul teatro e la letteratura italiana al quotidiano Il Mondo di Giovanni Amendola.
Una volta laureatosi si trasferì a Milano, insieme all’amico Emiliano Zazo, nella speranza che lì fosse più facile far pratica in uno studio legale. Nei primi anni cercò di farsi strada nel mondo dell’avvocatura milanese fino a quando, la notte tra il 12 e il 13 aprile 1928, rimase coinvolto, assieme a Zazo, ai fratelli Antonio e Lelio Basso, a Mario Boneschi e Antonio Zanotti, in una retata della polizia seguita all’esplosione della bomba di piazzale Giulio Cesare. Paggi era estraneo ai fatti, ma scontò l’essere noto come antifascista in collegamento con il gruppo della rivista Pietre, diretta da Lelio Basso. Dopo quattro mesi nel carcere di S. Vittore, il 23 luglio la Commissione provinciale per l’assegnazione al confino di polizia gli inflisse una pena di tre anni. Fece due volte ricorso, riuscendo alla fine a ottenere la riduzione a un anno. L’11 aprile 1929 lasciò Ponza, dove era stato confinato con Basso, e fece ritorno a Milano.
Per Paggi fu il momento di consolidare la professione e aprì uno studio in via Brera. Dal punto di vista dell’azione politica visse invece anni di ripiegamento, nel corso dei quali era solito scoraggiare i più giovani (almeno stando ai ricordi di Renato Mieli e di Eugenio Curiel), desiderosi di intraprendere azioni clandestine. In realtà, la passione politica non tramontò del tutto. Lo studio di Paggi divenne nel corso del decennio un luogo di frequenti incontri a cui partecipavano Boneschi, i fratelli Basso, Zanotti e Arrigo Cajumi. Nello stesso periodo Paggi stabilì rapporti con giovani economisti tra i quali spiccava la figura di Libero Lenti, e avviò relazioni con il gruppo dell’ISPI (l’Istituto di studi di politica internazionale fondato nel 1933 da Alberto Pirelli), Bruno Pagani, Giovanni Lovisetti, Enrico Bonomi ed Enrico Serra.
Nel 1938, colpito dalle leggi razziali, si vide preclusa l’attività forense e cadde in miseria. L’11 giugno 1940 fu arrestato e internato a Istonio (Chieti) e a Urbisaglia, nei pressi di Macerata. Trasferito in agosto a Castignano, in provincia di Ascoli Piceno, il 24 settembre ottenne un permesso di otto giorni, successivamente rinnovato per cinque volte fino al 10 novembre. Pochi giorni dopo, il ministero dell’Interno accolse il ricorso inoltrato dalla madre e Paggi poté tornare a Milano, dove fu sottoposto a stretta sorveglianza. Sbarcò il lunario grazie al lavoro di traduttore: a lui si deve una versione italiana de Il rosso e il nero di Stendhal uscita nella collana «I Falchi» presso l’editore Corticelli (poi Milano 1965, 1967, 1969).
Nel 1942 fece parte del gruppo che elaborò il primo programma del Partito d’Azione (Pd’A) e nel suo studio di via Brera fu ideato il nuovo numero de L’Italia libera, che assunse una posizione contraria al governo Badoglio formatosi dopo l’armistizio (8 settembre 1943). Il 27 luglio 1943 la polizia irruppe nello studio, arrestando Paggi insieme ad altri. Il gruppo fu rilasciato grazie all’intervento di Luigi Gasparrotto e Giovan Battista Boeri. Paggi ebbe così la possibilità di partecipare al primo congresso azionista tenuto a Firenze nella casa di Enzo Enriques Agnoletti nella prima settimana di settembre.
Nelle file azioniste fu il critico più severo del radicalismo della sinistra del partito. Lo Stato moderno, il foglio che fondò nel luglio 1944 assieme, tra gli altri, a Gaetano Baldacci, Mario Boneschi, Giuliano Pischel, Vittorio Albasini Scrosati, si schierò a favore di una politica non ideologica. Negli editoriali firmati «Vittor», Paggi sostenne la svolta di Salerno di Palmiro Togliatti, espressosi nell’aprile 1944 a favore di un compromesso tra partiti antifascisti, la monarchia e Badoglio. Lo Stato moderno intraprese dunque una battaglia interna all’azionismo per realizzare un grande partito democratico in alternativa alla prospettiva della ‘piccola eresia socialista’ della sinistra, affermando che la rivoluzione poteva farsi soltanto a partire da possibilità concrete: il rifiuto azionista e socialista di partecipare al secondo governo Bonomi fu criticato aspramente da Vittor e compagni.
All’inizio di aprile 1945, Paggi fu catturato a Milano dai fascisti. Essendo «Maggi» il cognome indicato nella carta di identità, riuscì a non essere identificato; restò in carcere per diversi giorni e ne uscì forse grazie all’intervento del giornalista Carlo Silvestri. Dopo la Liberazione fu nominato membro della Consulta Nazionale Italiana, collaborò al L’Italia libera e al Corriere della sera. Si dimostrò contrario al blocco totale dei licenziamenti, all’estensione indiscriminata dell’epurazione dei fascisti (reputava semmai necessaria un’epurazione delle leggi e dei codici), alla trasformazione dei Comitati di liberazione nazionale in strutture di potere permanente.
Al congresso di Roma del febbraio 1946, Paggi abbandonò il Pd’A assieme a Ferruccio Parri e Ugo La Malfa. Contribuì con il gruppo de Lo Stato moderno a portare i due capi ex azionisti alla Costituente, ma decise di non seguirli nelle file del Partito repubblicano italiano (PRI). Nel periodo costituente Paggi e il suo gruppo si riservarono infatti una funzione di carattere culturale, dando vita nel novembre 1946 alla casa editrice Stato moderno che prese la gestione della rivista, aggiungendosi così alla collana «Biblioteca di Stato moderno», presso l’editore Gentile. Tra il 1947 e il 1949, questo piccolo arcipelago si dotò infine di un’associazione, Studi di cultura politica per l’unità democratica, a cui fu affidato il compito di stimolare il dibattito pubblico sul rinnovamento delle istituzioni.
Paggi aveva in mente non una democrazia partecipata di derivazione resistenziale, ma un moderno regime rappresentativo in grado, diversamente dal vecchio parlamentarismo, di respingere le tentazioni libertarie e populistiche che, a suo modo di vedere, rappresentavano il viatico per il ritorno all’autoritaritarismo. Era convinto che la democrazia fosse non soltanto un problema di partecipazione, ma soprattutto un problema di governo. Le sue idee ricorrenti furono l’autonomia dell’esecutivo, la regolamentazione giuridica dei partiti e dei sindacati, la caratterizzazione del Parlamento come controllo dell’esecutivo senza che ciò significasse la sottomissione del governo al ricatto permanente della fiducia parlamentare. Immaginò in definitiva una democrazia stabile, dotata di meccanismi istituzionali in grado di arrestare il processo di frammentazione delle decisioni pubbliche causato dall’assalto degli interessi organizzati.
Questo disegno avrebbe dovuto innervare un nuovo soggetto politico, risultato della convergenza dei partiti laici. I due convegni sulla terza forza, svoltisi a Milano e a Firenze tra l’aprile e il giugno 1947, riflettevano questo spirito. L’associazione Stato moderno dette un contributo essenziale dal punto di vista sia concettuale sia organizzativo. Alla fine del 1947, con l’intensificazione della guerra fredda in Italia, la prospettiva della terza forza lasciò però il posto all’aggregazione pragmatica dei laici intorno ad Alcide De Gasperi. Lo Stato moderno si trascinò fino al 1949, quando il suo posto fu preso da Il Mondo di Mario Pannunzio, rivista alla quale Paggi e altri del suo gruppo parteciparono assiduamente negli anni successivi. Paggi vi scrisse soprattutto su temi di carattere costituzionale.
Nella prima metà degli anni Cinquanta Paggi partecipò al tormentoso viaggio della sinistra liberale fuori e dentro il Partito liberale italiano (PLI) ed ebbe un ruolo importante al congresso di riunificazione di Torino (1951). Fino al 1955 Paggi rappresentò in seno alla direzione nazionale del partito la corrente di sinistra, insieme alla quale fu in polemica con il segretario Giovanni Malagodi. Partecipò così alla fondazione del Partito radicale, decisione che pare sia maturata nel maggio 1955 nel corso di una riunione a casa di Arrigo Benedetti a Marina di Pietrasanta. Con Paggi erano presenti Mario Pannunzio, Eugenio Scalfari e Franco Libonati. Partecipò negli anni successivi ai convegni degli amici de Il Mondo, ma i conflitti interni al radicalismo dei primi anni Sessanta lo delusero profondamente, mentre i crescenti problemi di salute lo spinsero a diminuire i suoi interventi nella politica attiva. L’ultimo atto pubblico fu un appello a favore del PRI in vista delle elezioni del 1963.
Morì a Milano il 26 ottobre 1964, per un infarto causato da un edema polmonare.
Opere: Ieri come oggi, prefazione di E. Zazo, «Quaderni dell’Osservatore», Milano 1974
Fonti e Bibl.: G. Cabibbe, M. P. nella cultura e nella vita politica italiana, in Il Ponte, XXI (1965), 2, pp.182-192; E. Zazo, Ritratto di M. P., in L’osservatore politico letterario, XI (1965), 1, pp. 24-28; R. Chiarini, “Lo Stato moderno”, ovvero dell’inattualità del liberalismo in Italia, in Storia contemporanea, XXVII (1966), 6, pp. 1013-1034; M. Boneschi, Lo Stato moderno. Antologia di una rivista, Milano 1967, ad ind.; A. Benedetti, Lo stile di M. P., in Corriere della Sera, 6 aprile 1968; M. P. dieci anni dopo, in L’osservatore politico e letterario, XX (1974), 10, pp. 3-36; “Lo Stato moderno”, una rivista anticipatrice, a cura di F. Corleano - P. Ignazi, Firenze 1989, ad ind.; E. Savino, “Lo Stato moderno”. Mario Boneschi e gli azionisti milanesi, Milano 2005, ad ind.