PUCCINI, Mario
PUCCINI, Mario. – Primo di sette fratelli, nacque il 29 luglio 1887 a Senigallia, da Giovanni, libraio e tipografo, e da Volumnia Antonietti.
Dopo aver studiato nel locale seminario, s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Urbino, dove peraltro non portò a termine gli studi; qui conobbe il noto professore di letteratura italiana e scrittore Giuseppe Lipparini e, per pubblicare il suo libro di versi I canti di Melitta, sollecitò il padre a trasformare in casa editrice la tipografia Puccini & Massa di Senigallia.
Cominciò così nel 1909 l’attività della Giovanni Puccini & figli con sede ad Ancona, dove più tardi si trasferì la famiglia. L’entusiasmo letterario e lo spirito d’iniziativa fecero avviare un’attività editoriale intensissima che in pochi anni portò a stampare libri di autori importanti o che tali sarebbero diventati, come Massimo Bontempelli, Federigo Tozzi, Luigi Capuana, Enrico Pea e Giovanni Papini; Puccini stesso pubblicò la raccolta di novelle La viottola (1912), che seguiva gli esordi, sensibili alle influenze della scapigliatura, delle Novelle semplici (1907). Nel 1913 si trasferì a Milano, dove fondò lo Studio editoriale lombardo, da lui diretto con Gaetano Facchi e Carlo Linati e rimasto ancora attivo nei primi anni del conflitto (tanto da pubblicare nel 1916 Prologhi, libro d’esordio di Vincenzo Cardarelli), ma che nel 1919 cessò la sua attività.
Il 10 agosto 1913 sposò Alessandra (Sandra) Simoncini, originaria di Ischia di Castro, paese della Maremma laziale – poi scenario di numerosi racconti raccolti in parte in L’odore della Maremma (per cura di A. Palermo, Napoli 1985) –, e trasferitasi a Senigallia dove era stata assegnata come insegnante elementare. A lei dedicò il suo primo romanzo, Foville (Milano 1914) uscito presso lo Studio editoriale lombardo, in seguito riscritto e pubblicato con il titolo Ritratto d’adolescente (Milano-Roma 1932), che attirò l’interesse (non sempre benevolo) di critici attenti, fra cui Giovanni Boine. Dal matrimonio nacquero i figli Giovanni, detto Gianni (1914-1968), Massimo (1917-1992), che in seguito come regista cinematografico si firmò Massimo Mida, e Dario (1921-1997).
Nel novembre del 1915, dopo essersi trasferito per lo scoppio della guerra da Milano alla più tranquilla Falconara Marittima, già ventottenne Puccini fu richiamato alle armi e, dopo un periodo di addestramento come soldato semplice a Cava Manara (presso Pavia), fu trasferito nelle retrovie nei reparti territoriali, dove erano inquadrati i soldati meno giovani e, come lui, già sposati e padri; nella primavera del 1916 fu mandato, come complemento dell’89° reggimento, dapprima sul Carso e quindi sull’altopiano di Asiago nel corso dell’offensiva austriaca protrattasi dal 14 maggio al 2 giugno; dopo aver partecipato a un corso di addestramento presso la scuola di guerra di Parma, fu promosso sottotenente e, in settembre, tornò sul Carso con il II battaglione del 47° reggimento, venendo ferito in combattimento a Oppacchiasella il 2 novembre successivo. Dopo una breve convalescenza all’ospedale di Ancona, tornò sul Carso e fu inquadrato nella brigata Veneto del XXIII corpo d’Armata, che nell’autunno del 1917 venne travolta nella ritirata della 3ª armata arrestatasi sul Piave; nell’ultimo anno di guerra, per un normale avvicendamento con forze più fresche, lasciò la zona delle operazioni e, dopo un periodo di servizio negli uffici del Comando supremo ad Abano all’inizio del 1918, fu infine trasferito a Roma, dove nel dicembre venne congedato.
La partecipazione alla guerra suggerì a Puccini, già collaboratore di prestigiose riviste letterarie – come Poesia, La Voce e La Riviera ligure – centinaia di articoli usciti durante il conflitto in periodici come Nuova Antologia e Il Mondo, o in giornali come la torinese Gazzetta del popolo, nelle cui pagine già nel marzo del 1918 pubblicò una serie di articoli sulla ritirata di Caporetto, pochi mesi dopo riveduti e riuniti nel volume Dal Carso al Piave, la ritirata della 3ª armata nelle note di un combattente (Firenze 1918). Pubblicò quindi altri due libri che raccoglievano scritti sulla guerra: Come ho visto il Friuli (Roma 1919) e Davanti a Trieste: esperienze di un fante sul Carso (Milano 1919); e iniziò una nuova stesura di Dal Carso al Piave (postuma, a cura di F. De Nicola, Gorizia 1987), priva delle reticenze imposte dalla censura e apertamente critica nei confronti delle gerarchie militari con la denuncia della sconsiderata strategia di Luigi Cadorna e della sua indifferenza davanti alla sorte dei suoi soldati.
Nell’immediato dopoguerra Puccini si stabilì con la famiglia a Roma e avviò subito un’intensissima attività narrativa che lo portò a pubblicare da allora e fino all’inizio della seconda guerra mondiale oltre venti volumi, tra romanzi (spesso usciti prima a puntate su giornali) e raccolte di racconti, segnati tutti da un’evidente adesione al naturalismo, in tempi nei quali il modello prevalente era quello dannunziano, al quale Puccini era invece dichiaratamente avverso come risultava dalla sua raccolta di saggi De D’Annunzio a Pirandello: figuras y corrientes de la literatura italiana de hoy (Valencia 1927) che, rifiutata da editori italiani, dovette pubblicare in spagnolo (versione italiana, postuma, a cura di G. Ricciotti, Senigallia 2007, dal titolo Saggi letterari: da D’Annunzio a Pirandello).
I temi affrontati nei suoi romanzi erano legati ora all’attualità, come Viva l’anarchia (1920, ripubblicata nel 1928 con il titolo Quando non c’era il Duce), un viaggio nell’Italia delusa del dopoguerra compiuto da un rappresentante di libri, ora, come in Dove è il peccato è Dio (1922, dedicato a Giovanni Verga), ai problemi delle inquietudini interiori che le prime manifestazioni trionfalistiche del fascismo non potevano certo superare con la ricetta di un’ideologia propositiva, ora tornando ai giorni della Grande Guerra come in Cola (1927, poi con il titolo Il soldato Cola pubblicato nel 1935).
In quest’opera, che rimane uno dei più importanti tra i pochi romanzi italiani sulla prima guerra mondiale, Puccini aveva evitato la retorica celebrativa ormai richiesta dal fascismo nel richiamare quegli eventi costruendo un protagonista credibile, subito generoso e convinto della necessità della guerra, ma ben presto divenuto consapevole dell’inutilità del sacrificio richiesto a lui e a milioni di altri giovani italiani, tanto da rallegrarsi infine per aver perso un braccio, occasione utile e paradossalmente benvenuta per tornare a casa vivo e in più con una pensione da invalido. Cola rappresentava l’opposto del soldato italiano raffigurato dal fascismo, tanto che al romanzo Puccini dovette anteporre una dedica adulatoria a Benito Mussolini per evitare che la censura lo bloccasse.
Non meno impegnativo sul piano ideologico-politico fu il densissimo (quasi settecento pagine) romanzo successivo, Ebrei (1931), che nel racconto della vita della comunità israelitica di Ancona al tempo della Grande Guerra dava spazio alla condizione problematica del protagonista e alle minacce che gravavano su di lui, riprendendo così la formula narrativa più congeniale a Puccini che, sullo sfondo di precisi scenari storici, collocava complesse vicende individuali, evitando però concessioni all’intimismo lirico.
Di minore ricchezza di situazioni, ma forse dagli esiti più incisivi per l’essenzialità che li caratterizzava, risultavano i suoi numerosissimi racconti, nei quali se tornavano i temi da lui prediletti (alla Grande Guerra si riferisce Il forte X del 1922 nel quale alcuni spunti narrativi e ambientali prefigurano il Deserto dei tartari di Dino Buzzati del 1940), era pure frequente la creazione di un credibile scenario nella vita monotona e perbenista della provincia italiana (Provincia era stato il titolo di un suo romanzo del 1932) e dei suoi personaggi, che parevano anticipare le frustrazioni e le speranze dei Vitelloni (1953) di Federico Fellini.
Al prolifico lavoro di narratore, negli anni tra le due guerre Puccini affiancò quello di traduttore e divulgatore della letteratura di lingua spagnola (al Paese iberico dedicò Amore di Spagna: taccuino di viaggio, Milano 1938, oltre a decine di articoli giornalistici), scrivendo monografie su Miguel de Unamuno (1924) e su Vincenzo Blasco Ibañez (1926) e curando la pubblicazione in Italia di opere, tra gli altri, di José Mariano de Larra, Juan Valera e Fernán Caballero. Divenuto uno tra gli scrittori più conosciuti e più attivi d’Italia, tanto che la sua casa in via Lima era centro d’incontro di personalità di spicco del mondo letterario internazionale, anche per i suoi rapporti con la letteratura ispano-americana nel settembre del 1936 fu invitato a partecipare al Congresso mondiale del Pen Club a Buenos Aires e compì il viaggio con Giuseppe Ungaretti, che aveva conosciuto come editore e con il quale era diventato amico in guerra e corrispondente destinatario di decine di lettere (cfr. G. Ungaretti, Lettere dal fronte a M. P., a cura di F. De Nicola, Milano 2015).
Nel 1942 la casa romana di Puccini, rimasto vedovo due anni prima, fu il centro di un’attiva cellula comunista di cui, fra gli altri, facevano parte Pietro Ingrao, Mario Alicata, Gianfranco Pajetta, Renato Guttuso e Carlo Lizzani; il 2 dicembre 1942 i figli Gianni e Dario vennero arrestati per antifascismo, incarcerati a Regina Coeli e liberati nell’agosto del 1943. Nell’aprile del 1944 anch’egli fu arrestato e detenuto nel carcere di San Gregorio, dopo che il figlio Gianni era stato nuovamente catturato nei giorni successivi all’attentato di via Rasella (23 marzo 1944); Puccini fu allora trattenuto in carcere come ostaggio per arrivare a catturare anche il figlio Dario, che in clandestinità operava nei comitati direttivi della Resistenza romana nella zona di Ponte Milvio; la detenzione dello scrittore si concluse con l’entrata a Roma degli Alleati (4 giugno 1944).
Dopo la guerra riprese a scrivere, ma soprattutto a riscrivere sue precedenti opere (come Il soldato Cola, del quale allestì nel 1952 una nuova stesura, uscita postuma nel 1978 per cura di Ruggero Jacobbi), e a raccogliere in volume alcuni dei più importanti romanzi brevi, come Autunno (incluso nella Scoperta del tempo uscito postumo nel 1959, ma preparato all’inizio del 1957 come sintesi della sua attività narrativa), che ripresentava emblematicamente la provincia italiana come luogo di crisi individuali di personaggi testimoni del divenire del nostro Paese.
Nel dopoguerra Puccini, accudito dalla governante Nella Nulli, si era trasferito dapprima a Senigallia, poi nel 1949 a Formia e infine nel 1956, ormai in cattive condizioni di salute sebbene ancora attivo come giornalista – il suo ultimo articolo uscì nel Giornale di Sicilia il 1° dicembre 1957 –, tornò a Roma, dove morì il 5 dicembre 1957.
Opere. Novelle semplici (Napoli 1907); La viottola (Ancona 1912); Foville (Milano 1914); Dal Carso al Piave (Firenze 1918); Come ho visto il Friuli (Firenze 1919); Davanti a Trieste (Milano 1919); La vergine e la mondana (Milano 1920); Viva l’anarchia (Firenze 1920); Essere o non essere (Milano 1921); Dove è il peccato è Dio (Foligno 1922); La vera colpevole (L’Aquila 1926); Cola (L’Aquila 1927); Ebrei (Milano 1931); La prigione (Milano 1932); Provincia (Palermo 1932); Gli ultimi sensuali (Roma 1934); Comici (Milano 1935); Ritratti e interni (Roma 1935); Ritratto d’adolescente (Milano 1936); Una donna sul Cengio (Milano 1940); Prima domenica di primavera (Milano 1952); Scoperta del tempo (Milano 1958).
Fonti e Bibl.: Omaggio a M. P., a cura di S. Anselmi, Urbino 1967; F. De Nicola, L’alibi dell’ambiguità. P. uno scrittore tra le due guerre, Foggia 1980; G. Petronilli, M. P., in Id., Cinque ritratti, Sarzana 1981, pp. 55-75; M. P., due giornate di studio e di testimonianze. Atti di un convegno… 1985, a cura di A. Antonietti, Senigallia 1987; R. Pirani, Bibliografia di M. P., Senigallia 2002.