RAPISARDI, Mario
RAPISARDI, Mario. – Nacque a Catania il 25 febbraio 1844 da Salvatore e da Maria Patti. Il padre, agiato procuratore legale, fu vicino ai liberali che si opposero al regno borbonico. La madre, casalinga con un carattere autoritario e oppressivo, influenzò fortemente il figlio con le sue stravaganze religiose, costringendolo a collezionare «santini di carta», a portarli in processione e a diffonderne la devozione tra i «ragazzi della sua età» (Perticone, 1913, p. 8). La sua formazione culturale avvenne però nel collegio dei gesuiti e fu improntata a una rigida educazione religiosa. I primi precettori furono il frate Antonio Maugeri e i canonici Mario Torrisi e Salvatore Bruno, che gli impartirono le prime lezioni di filosofia e gli infusero la passione per i classici greci e latini. Fin dagli anni giovanili Rapisardi fu attratto dalla letteratura italiana (Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi e Vincenzo Monti), ma coltivò anche la musica e la pittura: apprese a suonare il violino e lasciò una dozzina di dipinti tra caricature, paesaggi e figure. Terminati gli studi liceali, frequentò la facoltà di giurisprudenza, ma non riuscì a laurearsi.
Nel 1859 esordì con un’Ode a Sant’Agata, che fu diffusa il 4 febbraio durante le feste dedicate alla patrona catanese, di cui riprese il cenno al suo martirio per la «libertà della patria». Seguirono il poemetto incompiuto Dione (1858-61) e quello su Fausta e Crispo (1861), l’uno volto a esaltare le battaglie del Risorgimento (Solferino, Palestro, Magenta), l’altro ispirato dall’amore per una fanciulla, ammirata dal balcone della sua abitazione. Nel 1863-1864 pubblicò due raccolte di poesie intitolate Canti e Odi civili dove, a una triste visione della vita, unì simpatie politiche per il moto nazionale. Nel 1865, in occasione del sesto centenario della nascita di Dante, si recò a Firenze, dove conobbe Francesco Dall’Ongaro, che lo introdusse nell’ambiente culturale frequentato da Aleardo Aleardi, Pietro Fanfani, Arnaldo Fusinato, Andrea Maffei e Giovanni Prati. Grazie all’influsso eterogeneo di questi letterati, Rapisardi ampliò la sua visione culturale con la lettura di Byron, Goethe, Lamartine, Hugo, Milton e Shelley, ma i suoi scrittori prediletti rimasero Darwin, Haeckel, Lubbock, Moleschott e Spencer.
Sulla scia del modello letterario di questi scrittori, Rapisardi cercò di coniugare la tensione morale dell’Illuminismo con la visione scientifica del Positivismo. Nel poema in dieci canti La Palingenesi (Firenze 1868) scienza e fede furono ancora inquadrate in un ambito religioso, dove il ritorno del cristianesimo alla purezza originaria doveva essere preparato da una condanna della corruzione del clero.
Il messaggio di palingenesi sociale, unito alla diffusione degli ideali di pace e di fratellanza, fu esposto secondo un canone interpretativo ligio a una scrittura cristiana tramite alcuni episodi storici, che andavano dalla tradizione biblica all’impero romano, dal Medioevo alle Crociate, dalla Riforma alla Rivoluzione francese e italiana. Il notevole successo spinse il municipio di Catania a premiare l’opera con una medaglia d’oro, procurando all’autore l’ingresso nell’ateneo cittadino: «il 15 dicembre 1870 ottenne l’incarico di dare un corso di letteratura italiana nell’università di Catania» (M. Rapisardi, Epistolario, a cura di A. Tomaselli, 1922, p. XIV).
Nel decennio successivo all’edizione di La Palingenesi, il suo atteggiamento verso la religione cristiana mutò e Rapisardi spostò l’asse del suo interesse verso l’esaltazione della natura, che raffigurò come «diva» per il suo «soffio vital». Proprio l’inno Alla Natura (1869), recitato a Catania durante un banchetto della Società italiana di scienze naturali, segnò una svolta nel suo percorso poetico, arricchito da dialoghi meno elegiaci e più aderenti alla realtà: all’oscurantismo religioso contrappose la scienza rappresentata dal treno, dalla stampa, dall’elettricità e dalla nave a vapore.
Il 12 febbraio del 1872 Rapisardi sposò Giselda Fojanesi, una maestra elementare toscana da cui si separò undici anni dopo per la relazione che ella aveva intrecciato con Giovanni Verga. Il difficile rapporto con la moglie, determinato anche dai suoi sentimenti verso la poetessa Evelina Cattermole (nota come contessa Lara), non gli impedì di svolgere un’intensa attività letteraria: nel 1872 pubblicò a Pisa Ricordanze, una raccolta di liriche composte dal 1863 all’autunno del 1871; tre anni dopo lo studio critico su Catullo e Lesbia, che gli valse la nomina a professore straordinario di letteratura italiana e l’incarico di letteratura latina nell’Università di Catania. L’anno successivo fece parte della commissione per il trasporto delle spoglie di Vincenzo Bellini, a cui aveva dedicato nel 1869 un’ode. Nel 1877 pubblicò uno studio su La Beatrice di Dante che, apparso il 16 agosto dello stesso anno sulla Rivista Europea, mise in rilievo la sua realtà terrena, identificando la musa ispiratrice del poeta fiorentino nella figlia di Folco Portinari e ricostruendo la sua vita secondo il racconto della Vita Nova.
Con Lucifero (Milano 1877), poema di quindici canti, Rapisardi esaltò la vittoria della ragione sulla superstizione, trovando nel personaggio il campione della ribellione e il simbolo del progresso, che inaugurava il successo della scienza e annullava ogni entità metafisica.
Dopo secoli di lotta della Luce contro il Male, storicamente incarnato dalla Chiesa, era iniziata la rivoluzione della scienza che si materializzava nel traforo del Cenisio, assunto a simbolo del progresso.
L’opera, se gli valse l’elogio di Giuseppe Garibaldi per la critica allo Stato pontificio, aprì un’aspra polemica con Giosue Carducci, che si irritò per un’allusione critica alla sua poesia contenuta nell’XI canto del poema: il poeta venne definito «idrofobo cantor, vate da lupi, che di fiele briaco e di lièo, tien ch’al mio lato il miglior posto occupi» (vv. 519-524). La discussione, svoltasi sul piano letterario, degenerò in una questione personale, provocando in Carducci pregiudizi etnici, là dove affermò che i «Siciliani sono ritenuti come sopravvivenze di razze inferiori, soprattutto quando sono rapisardiani» (Lettere, I, 181, cit. in Tomaselli, 1932, p. 73). Rapisardi reagì con un sonetto pieno di livore contro l’autore dell’ode alla regina: «Mevio da un soldo, Orazio da un quattrino che ad arte di mosaico o versi accozza, or Cerbero che i re squarta ed ingozza, or di gonne regali umil lecchino» (Poemi, liriche e traduzioni, 1911 o 1912, p. 293). Proprio su quella polemica il giovane Federico De Roberto esordì sul piano letterario, pubblicando un volumetto Giosue Carducci e Mario Rapisardi (Bologna 1881).
La prolusione, pronunciata il 16 novembre 1879, per il discorso inaugurale dell’anno accademico, venne rivolta al «Nuovo concetto scientifico», la cui applicazione fu estesa dalla sfera religiosa a quella della Natura, dalla teologia alla dottrina dell’evoluzione, assunta come guida di tutte le scienze. L’assunto primario della scienza e della religione, proiettate a spiegare la «verità astratta» del Mistero, venne rovesciato con la celebrazione della Natura, a cui l’uomo doveva sottoporsi per le sue «leggi universali e costanti». Così l’arte divenne la «rappresentazione estetica della vita», mentre l’analisi scientifica colse l’essenza evolutiva nella struttura sociale a causa dell’iniqua distribuzione delle ricchezze e del dissidio permanente fra capitale e lavoro.
Con la raccolta di poesie intitolata Giustizia (Catania 1883) Rapisardi approdò in modo definitivo al socialismo e alla denuncia dello sfruttamento della classe lavoratrice, esaltando il lento cammino della giustizia nei secoli, compiuto con dure lotte contro l’assolutismo della monarchia e l’ingordigia della borghesia. Il suo carattere inquieto si espresse nel poema Giobbe (Catania 1884) in cui l’eroe biblico fu assunto a simbolo dell’umanità nel suo difficile cammino gravato dall’angoscioso mistero della natura. L’apertura ai temi sociali, tuttavia, si ebbe con la cosiddetta raccolta Poesie politiche e sociali (in Giustizia e altre poesie politiche e sociali, Catania 1883) che furono ispirate dalla dicotomia tra ricchezza e povertà, l’una prerogativa dei ceti abbienti intenti al godimento dei loro privilegi e l’altra di un «terzo stato» composto da contadini oppressi ed emarginati sociali. Alcuni testi (In vigilia Nativitatis Domini, Discendenza patrizia, Espiazione) misero in rilievo i vizi della borghesia, mentre altri (Tramonto, Il canto dei mietitori, Contravvenzione, Charitas) denunciarono la fatica, lo sfruttamento e la rabbia della classe lavoratrice. L’unica via di redenzione per le plebi affamate fu colta nella protesta sociale, mentre contestò apertamente le scelte governative: prima nell’ode Per l’eccidio di Dogali (1887) e poi nell’Africa Orrenda (1896), Rapisardi condannò il colonialismo, manifestando una ferma avversione verso le guerre, che si tradusse in una piena solidarietà al popolo abissino e in una condanna della Triplice Alleanza («il tricorporeo mostro»).
Dal giugno del 1885 il sodalizio amoroso con la polacca Amelia Poniatowski Sabèrnich, ispiratrice e compagna per tutta la vita, acquietò lo scrittore catanese, che nelle Poesie religiose (Catania 1887) e negli Epigrammi (Catania 1888) esaltò la fede nella scienza e definì la natura nella sacralità delle sue leggi. Persino le traduzioni sono rivolte a questo scopo in una vasta opera di rivisitazione dei suoi autori prediletti: Catullo, Lucrezio, Shelley del quale tradusse e pubblicò nel 1892 il Prometeo liberato.
Durante il movimento dei Fasci siciliani (1893-94), Rapisardi assunse una posizione moderata, intervenendo nelle varie località della provincia etnea per inaugurare circoli e sezioni socialiste. Come poeta appoggiò il moto di ribellione e condannò la repressione delle autorità governative, esortando i contadini a una lotta pacifica contro i latifondisti. Il Canto dei Mietitori, pubblicato sull’Unione di Giuseppe De Felice Giuffrida, ebbe una larga diffusione tra i contadini siciliani e si tradusse in una denuncia delle «menzogne convenzionali» di una borghesia agraria arroccata nella difesa dei propri privilegi. Assillato da continue richieste di commemorazioni e articoli per numeri unici, egli scrisse alcune poesie sul 1° maggio, pubblicate con periodicità sulla stampa socialista e anarchica. L’apostrofe «O della Libertà splendido Maggio», contenuta nel poema Atlantide (Catania 1894), fu indirizzata alla denuncia della corruzione e del decadimento della vita politica. Nel testo Emigranti, Rapisardi sollevò il triste fenomeno migratorio e la costrizione a cui erano sottoposti i contadini nell’abbandonare «il natìo paradiso», mentre nell’altro Le Macchine pose il problema degli strumenti produttivi nell’industria («ardui congegni»), precisando che essi dovevano essere utilizzati nell’interesse dell’operaio. Nel 1898 criticò l’operato del governo durante i moti contro il carovita, quando esplosero le cannonate di Fiorenzo Bava Beccaris.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento Rapisardi collaborò con assiduità alla Nuova Antologia con saggi e articoli poi ripresi nelle sue ultime opere. Nel 1902 pubblicò il poema L’Asceta ed altri poemetti, che fu l’ultima sua raccolta poetica, edita anche dieci anni dopo (Milano-Palermo-Roma s.a. [ma 1912]).
Nell’ode Per la venuta dei Gesuiti al Collegio Cutelli di Catania (1905) Rapisardi accentuò la sua polemica antireligiosa, condannando le trame della «lojolesca biscia» e denunciando la diffusione insidiosa dello spiritismo e delle scienze esoteriche come inganno del clericalismo. Nel 1909 l’adesione al futurismo, propostagli da Filippo Tommaso Marinetti, fu respinta da Rapisardi, che considerò il suo programma velleitario per l’appello alla violenza e la critica alle istituzioni culturali. In quell’occasione egli definì il ruolo del poeta nella società contemporanea.
Morì a Catania il 4 gennaio 1912.
Opere. I suoi scritti, pubblicati in Opere ordinate e corrette da esso, I-VI, Catania 1894-1897, furono così raccolti dall’autore: I, La Palingenesi, La Francesca da Rimini, Le Ricordanze, 1894; II, Il Lucifero, Le Epistole; III, Il Lucrezio, L’ode al Re, La Giustizia; IV, Il Giobbe, Le poesie religiose; V, Le Odi di Orazio, L’Empedocle, Il Prometeo di Shelley; VI, Le poesie di Catullo, L’Atlantide, Il Leone ed altri versi. Negli ultimi anni Rapisardi lavorò a una raccolta delle sue opere, pubblicate con il titolo Poemi, liriche e traduzioni (Milano-Palermo-Napoli s.a. ma 1911 o 1912) e con un Avvertimento dell’editore Sandron, che premise un elenco delle varie edizioni. Il carteggio è pubblicato in M. Rapisardi, Epistolario, a cura di A. Tomaselli, Catania 1922.
Fonti e Bibl.: Catania, Archivio comunale, Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero, Fondo Biblioteca - Museo Mario Rapisardi.
G. Perticone, L’opera di M. R. Saggio critico, con introduzione di V. Picardi, Milano-Palermo-Napoli 1913; A. Tomaselli, Commentario rapisardiano, Catania 1932; R. Guerricchio, R. M., Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, IV, Roma 1978, pp. 284-287; M. R., a cura di S. Zappulla Muscarà, Catania 1991; M. R. dall’ombra alla luce, a cura di V. Zanolla, Pavia 2011.