SOZZI, Mario
– Nacque a Chiusi il 7 aprile 1608, quartogenito di Marcello, esponente della nobiltà locale e di Celantia Buratti.
Non si sa nulla della sua formazione, che dovette tuttavia compiersi verosimilmente nella scuola del capitolo della cattedrale, oppure presso il locale convento degli agostiniani. Com’era consueto a quel tempo per i figli cadetti delle famiglie nobili, fu avviato alla carriera ecclesiastica. A dodici anni ricevette la tonsura clericale e ottenne dalla S. Sede una cappellania nel vicino paese di Sarteano, mentre a venti ebbe in donazione dal fratello primogenito Claudio l’usufrutto di una vasta proprietà, che gli consentiva di acquisire i titoli patrimoniali allora richiesti per ascendere al sacerdozio.
Nel 1629 si trasferì a Napoli, dove aveva dei parenti, verosimilmente in cerca di opportunità di inserimento nelle istituzioni ecclesiastiche locali. Qui entrò in contatto con Pietro Casani, provinciale del neocostituito Ordine degli scolopi, e concepì il desiderio di esservi ammesso come novizio. La sua istanza fu accolta a condizione che prima ricevesse i sacri ordini, stante la carenza di sacerdoti che affliggeva le case scolopiche napoletane. Con una procedura un po’ inusuale, fu pertanto ordinato sacerdote il 12 maggio 1630, e il 19 successivo vestì l’abito da religioso.
Compiuto un anno di probazione, emise i voti solenni l’8 giugno 1631. Fino al 1637 risulta residente nei seguenti collegi dell’Ordine: Roma, Firenze, Napoli, Palermo, di nuovo Roma, Poli e Frascati. Singolarmente, in nessuna di queste sedi si dedicò all’insegnamento (in cui consisteva il carisma specifico degli scolopi), ma svolse solo mansioni di carattere pastorale e amministrativo. Nel 1637 tornò per la terza volta a Roma, dove fu incaricato di fungere da segretario nei capitoli provinciali che si celebrarono in preparazione del capitolo generale di quell’anno.
Nel 1639 si trasferì a Firenze, dove si impegnò, come di consueto, in ministeri quali le celebrazioni liturgiche e l’amministrazione dei sacramenti. Fu proprio la sua veste di confessore che gli procurò l’opportunità che avrebbe impresso una svolta alla sua vita. Attraverso una sua penitente venne infatti a conoscenza di uno scandalo a sfondo sessuale, complicato da infiltrazioni ereticali di orientamento quietista, in cui erano implicati una ricca vedova di nome Faustina Mainardi e un ecclesiastico di primo piano quale il canonico Pandolfo Ricasoli, dotto teologo e ricercato direttore spirituale. Senza esitazioni, Sozzi denunciò lo scandalo all’inquisitore di Firenze, Giovanni Muzzarelli, il quale a sua volta ne informò Francesco Albizzi, assessore del S. Uffizio a Roma. In seguito a ciò fu istruito a Firenze un processo inquisitoriale contro i due accusati.
La denuncia di Sozzi originò da una parte una solida amicizia fra il religioso e Muzzarelli, e dall’altra un progressivo deterioramento dei rapporti fra Sozzi e i suoi confratelli fiorentini. All’origine di tali contrasti non vi erano soltanto ragioni caratteriali o invidie, provocate dal nuovo ruolo di confidente e collaboratore di potenti prelati che Sozzi aveva assunto agli occhi della sua comunità di appartenenza, ma anche questioni più profonde. Nel collegio scolopico di Firenze vi era infatti un nutrito gruppo di religiosi (fra cui in particolare Francesco Michelini, Ambrogio Ambrogi, Clemente Settimi, Angelo Morelli e Carlo Conti) che erano ammiratori, amici e seguaci di Galileo Galilei. In particolare, Settimi svolse lungamente funzioni di segretario dello scienziato recluso nella villa di Arcetri, a ciò autorizzato dallo stesso generale dell’Ordine Giuseppe Calasanzio. Michelini, dal canto suo, nel 1638 fondò presso il collegio una scuola di matematica frequentata da numerosi esponenti del ceto dirigente cittadino. Sebbene manchino documenti sui programmi e l’organizzazione didattica della scuola, non ci sono dubbi sul fatto che essa seguisse un indirizzo scientifico improntato alle teorie di Galileo, da poco condannate ufficialmente in via definitiva. È chiaro che i legami che Sozzi aveva stretto con il S. Uffizio lo ponevano inevitabilmente in contrasto con questo gruppo di scolopi.
Nel settembre del 1640 le tensioni serpeggianti nel collegio fiorentino indussero il generale a ordinare il trasferimento a Narni di Sozzi, ma quest’ultimo, grazie agli ormai saldi rapporti con le massime autorità inquisitoriali fiorentine e romane, ottenne di restare a Firenze. Per conseguenza, la conflittualità si fece ancora più accesa, al punto che, il 7 febbraio 1641, Sozzi venne alle mani con il padre Settimi e riparò, ferito, a casa dell’inquisitore Muzzarelli. Questi istruì un processo per indisciplina contro gli avversari di Sozzi, e inviò l’incartamento al segretario del S. Uffizio Francesco Barberini, che convocò gli accusati a Roma. L’assoluzione degli imputati nel processo che ne seguì provocò una dura contromossa da parte di Sozzi. Nel maggio (o giugno) del 1641, egli presentò una denuncia all’Inquisizione fiorentina, in cui accusava i confratelli Ambrosi, Settimi, Conti e Morelli di professare teorie atomistiche ed eliocentriche, e di essere conclamati seguaci di Galilei. Successivamente, egli inoltrò una denuncia analoga direttamente all’Inquisizione romana, ma anche stavolta non vi furono sanzioni a carico degli accusati.
Intanto, nel novembre del 1641, si era concluso a Firenze il processo a carico di Faustina Mainardi, che fu condannata al carcere a vita assieme al suo complice Pandolfo Ricasoli. L’assessore Albizzi fece allora pressioni su Calasanzio affinché Sozzi fosse ricompensato per la denuncia che aveva originato il processo, chiedendo in particolare che il suo protetto fosse nominato provinciale di Toscana. Sebbene forse infastidito per l’irrituale ingerenza, Calasanzio obbedì, conferendo l’incarico a Sozzi il 4 dicembre 1641. Nonostante la patente di nomina gli attribuisse ampie facoltà nella scelta dei religiosi, che poteva all’occorrenza prelevare anche da altre province (prerogativa di cui Sozzi fece largo uso), il suo provincialato si presentò irto di problemi. Anzitutto, il collegio di Pisa, fondato nel 1641, in cui risiedeva fra l’altro il padre Michelini – uno dei religiosi che gli erano più avversi – si rifiutò di riconoscerlo come provinciale, e pretese di essere soggetto direttamente al generale. Nel giugno del 1642, inoltre, i rettori delle case di Fanano, Guglia e Pieve di Cento decisero di sottrarsi alla giurisdizione di Sozzi, proponendo la creazione della provincia lombarda, a cui facevano istanza di appartenere.
Fu in tale frangente che il cardinale Alessandro Cesarini, protettore degli scolopi, istruì un processo contro Sozzi, accusandolo di infrazioni ai voti religiosi e particolarmente a quello di povertà. Informato di ciò, Albizzi dispose allora l’immediato arresto di Giuseppe Calasanzio e dei suoi assistenti, reputandoli erroneamente ispiratori dell’iniziativa di Cesarini. Dopo che l’equivoco fu chiarito, e Calasanzio prosciolto, il S. Uffizio emise un decreto (datato 14 agosto 1642) che accordava ancora una volta pieno sostegno all’operato di Sozzi. Esso dichiarava infatti che il religioso si trovava sotto la protezione del S. Uffizio e pertanto né il cardinale protettore, né il generale dell’Ordine avevano su di lui alcuna giurisdizione. Esso obbligava inoltre il generale a imporre il rispetto dell’autorità di Sozzi in tutta la provincia toscana. Chi non si conformò stavolta alle direttive del S. Uffizio fu il granduca di Toscana, che nel novembre del 1642 ingiunse a Sozzi, nel frattempo stabilitosi a Firenze, l’immediata espulsione dallo Stato.
È chiaro a questo punto che lo scontro in atto trascendeva le individualità dei religiosi che vi erano più direttamente coinvolti, e assumeva i contorni di un conflitto di ben maggiore ampiezza e significato. Da una parte vi era il S. Uffizio, che considerava la querelle come un vero e proprio banco di prova della propria autorevolezza e potere. Dall’altra vi erano i Medici, orgogliosamente decisi a difendere il prestigio delle proprie istituzioni educative, il proprio indirizzo di politica culturale favorevole al galileismo e, in definitiva, la stessa autonomia giurisdizionale dello Stato. Lo scontro era peraltro acuito dalla delicata congiuntura politica internazionale, che vedeva Roma contrapposta a Firenze, alla Serenissima e al Ducato di Modena nella prima guerra di Castro (1641-44).
Il forzato ritorno di Sozzi a Roma fu considerato uno smacco intollerabile per il S. Uffizio. L’assessore Albizzi riuscì pertanto a ottenere da papa Urbano VIII un breve, datato 30 dicembre 1642, con cui Sozzi fu nominato vicario generale dell’Ordine. Questa decisione destò non poche perplessità fra gli scolopi, poiché, a norma delle costituzioni dell’Ordine, non poteva designarsi un vicario senza destituzione o dimissioni del generale in carica. L’autentica ratio del provvedimento fu perciò chiarita da un nuovo e più duro decreto del 15 gennaio 1643, con cui si sospendeva Calasanzio dalle sue funzioni di generale, si stabiliva la nomina di un visitatore apostolico per l’Ordine, e se ne assegnava il governo a Sozzi in qualità di primo assistente, ad altri tre da nominare e al visitatore. Il tutto era coronato da una misura di sapore chiaramente punitivo, quale il divieto per gli scolopi di fondare nuove case e di ammettere novizi.
Il 7 marzo successivo fu designato come visitatore apostolico il somasco Agostino Ubaldini, che tuttavia, dopo aver visitato la casa generalizia di S. Pantaleo, e aver emanato due decreti con disposizioni molto generiche, rassegnò le sue dimissioni. Il 9 maggio fu nominato nuovo visitatore il gesuita Silvestro Pietrasanta. Tutto lascia pensare che dietro questo avvicendamento vi fosse la mano di Sozzi, poco entusiasta della conduzione della visita da parte di Ubaldini, troppo incline a dare ascolto agli avversari del religioso toscano. La condotta di Pietrasanta fu in effetti favorevole integralmente e senza riserve a Sozzi. Dopo appena due mesi di governo, sorsero infatti dissapori fra quest’ultimo e gli altri tre assistenti, che protestarono per la nomina del rettore di S. Pantaleo e del provinciale di Roma, compiuta da Sozzi senza consultarli. Pietrasanta li escluse allora d’autorità dal governo delle Scuole pie, che restò esclusivamente nelle mani sue e di Sozzi.
Poco dopo aver finalmente coronato il suo desiderio di ricoprire gli incarichi di maggior potere e prestigio all’interno dell’ordine, nel settembre 1643, Sozzi cominciò ad accusare i primi sintomi della malattia che lo avrebbe ucciso. È difficile individuare la natura del morbo, che non fu comunque né lebbra né sifilide, come affermano, con intenti larvatamente denigratori, molti storici dell’Ordine. Si trattò di un’infermità particolarmente penosa e dal decorso molto rapido, che condusse il religioso alla morte in Roma, il 10 novembre 1643.
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