Vedi MARMO dell'anno: 1961 - 1973 - 1995
MARMO (μάρμαρος, marmor)
Roccia calcarea (calcite) a struttura cristallina e grana piuttosto uniforme più o meno grossa (granuli da mm 0,2 a 0,5), talora definita come saccaroide per la somiglianza con lo zucchero in pani, che è stata preferita nella scultura classica (Grecia e Roma) per le sue qualità di compattezza e media durezza che consentono una lavorazione nitida e delicata, per la sua trasparenza e luminosità e la facilità con la quale può assorbire una policromia o essere levigata e lucidata.
Nella terminologia corrente si usano chiamare (impropriamente) m. anche rocce di diversa struttura e durezza quali i graniti, i porfidi e, talora, anche rocce calcaree a struttura conglomerata assai meno compatta, quali i travertini e i tufi. Mentre i primi sono stati elencati nella presente voce, per i secondi v. muraria, arte (Materiali da costruzione). Qui viene dato un elenco dei principali marmi antichi (cioè usati dagli antichi): segue poi una indicazione sul commercio dei marmi in Roma.
Il m. preferito nella scultura classica è quello bianco a cristalli piuttosto grossi, che col tempo assume una patina giallo-dorata. Quali componenti accessori il m. può contenere quarzo, grafite, rutilo, granati, anfiboli, sostanze carboniose, ecc., e in dipendenza della diversa natura e distribuzione di tali componenti o per la presenza di sostanze in miscela isomorfa col carbonato di calcio possono assumere le più svariate tinte (m. monocromi e policromi): v. Tavole a colori.
1. Marmi antichi. - La distinzione tra marmi antichi, o m. usati dagli antichi, e marmi moderni, non ha soltanto un significato storico ed archeologico. È un fatto che varî, talvolta splendidi m., usati dai Greci e dai Romani, da gran tempo non sono più escavati, e che di alcuni di essi è persino incerta o addirittura ignota la località di provenienza, cosicché la loro conoscenza ed il loro studio sono possibili solo attraverso i monumenti antichi di cui sono elemento costitutivo.
Ma è d'altra parte evidente che se molti materiali marmorei, anche largamente in uso nelle passate civiltà, sono stati sostituiti da altri, con caratteri ornamentali spesso assai diversi, ciò può essere in rapporto con l'evoluzione degli orientamenti artistici, con motivi d'ordine tecnico (esaurimento dei giacimenti; scoperta di nuovi depositi di materiali pregiati, di notevole consistenza e facilmente coltivabili), e con fattori di natura economica (costi di produzione; posizione geografica delle cave; possibilità di trasporto e di commercio dei marmi).
Dal punto di vista scientifico-tecnico, valgono per i m. antichi le stesse precisazioni terminologiche, necessarie per i m. moderni. Giova, a questo punto, ricordare che per m., in senso strettamente petrografico, si intendono i calcari con struttura macroscopicamente cristallina, di solito per effetto di una ricristallizzazione secondaria, nel quadro dei processi metamorfici, esercitatisi su qualunque tipo di calcare. Questa definizione scientifica dei m. è, in senso pratico, eccessivamente restrittiva. È invalso, pertanto, l'uso ormai universale da un punto di vista tecnico e commerciale, di assimilare ai materiali marmorei, le varietà dei calcari bianchi o variamente colorati, a struttura semicristallina o compatta, suscettibili di polimento.
In senso artistico è, poi, possibile dare dei m. una definizione ancora più estensiva, comprendente tutti i materiali lapidei, da costruzione e da ornamentazione, di cui è possibile il polimento. In questo senso, si considerano come m., oltre ai calcari, varie rocce ignee e metamorfiche come i graniti, le sieniti, le dioriti, i porfidi, gli gneiss, le serpentine, ecc. Tale definizione, con le limitazioni necessarie a comprendere in essa solo i materiali lapidei di maggior pregio decorativo, ci sembra la più conforme al carattere eminentemente pratico della presente trattazione. Ad essa ci siamo, pertanto, attenuti per l'esame dei più importanti materiali marmorei usati dagli antichi. Semplificando al massimo la classificazione dei materiali marmorei, questi sono stati riuniti in pochi, grandi gruppi naturali.
Nella descrizione dei m. antichi è stato fatto quasi sempre riferimento agli esemplari delle due grandi collezioni, Pescetto e De Santis, tra le più ricche e suggestive esistenti, conservate nel Museo del Servizio Geologico d'Italia, in Roma. Un'altra celebre collezione di m. antichi è quella raccolta dal Corsi, conservata nel Museo Geologico di Londra.
Marmi calcarei bianchi e colorati anche venati e brecciati. - 1. Marmo pario (marmor Parium). - Detto anche lychnite, lychneum o lygdinium, questo m. è certamente il più noto e pregiato degli statuari antichi.
Dalla Geografia (Γεωγραϕικά) di Strabone e soprattutto dall'opera Delle città e dei popoli (᾿Εϑνικά) di Stefano Bizantino, sappiamo che esso veniva estratto nella zona nord-orientale dell'isola di Paro (arcipelago egeo delle Cicladi), e precisamente dal Monte Marpessa. Il suo giacimento è legato ad una formazione di calcari metamorfici attribuita al Presiluriano, diffusa in tale zona. Le cave, di cui si hanno tuttora tracce, come ha potuto dimostrare il Dodwell, erano a cielo aperto, contrariamente a quanto affermato dagli antichi autori (Plin., Nat. hist., xxxvi, 14; Varrone ecc.) i quali ritenevano che la loro escavazione avvenisse in sotterraneo.
Petrograficamente, il m. pario è un calcare cristallino che, come tutti i cosiddetti "marmi insulari" (dell'arcipelago egeo), presenta un notevole sviluppo degli individui calcitici, - di dimensioni piuttosto uniformi, - dalla cui aggregazione risulta costituito, e quindi una grana grossa.
Assolutamente bianco, per l'assenza di minerali accessori colorati, ma non privo di geodi silicei, e molto tenace (tanto da essere denominato dai vecchi marmorari "m. greco duro",) esso vede accresciuti i suoi pregi da una notevole translucidità e da una buona scolpibilità.
I Romani lo usarono in tutto il periodo imperiale, sia nella scultura che in architettura, sostituendolo, naturalmente per gli usi comuni, con il m. di Carrara, più a portata di mano e quindi di prezzo più conveniente.
2. Marmo Imetto (marmor Hymettium). - Il suo nome deriva dal Monte Imetto (la cui moderna denominazione è quella di Monte Tramò), situato circa km 8 a S-E di Atene, già ai tempi di Strabone sede di importanti cave, che, in epoca non precisata, passarono in possesso dei Romani (v. Tav. a colori).
È un calcare cristallino a grana fine, associato ai terreni metamorfici dell'imbasamento geologico della regione. Benché presenti varietà bianche, mal distinguibili dal pentelico, è di solito caratterizzato da una tenue colorazione grigio-bluastra, simile a quella dei bardigli apuani. Esso mostra, poi, una sottile zonatura a strie parallele, d'un grigio di varia intensità, che ricorda quella di alcuni cipollini. Della possibile natura bituminosa delle impregnazioni cui sono dovute la colorazione e le venature di questo m., è un serio indizio la sua proprietà di essere fetido alla percossa, tanto da meritare l'appellativo di "cipolla" da parte degli scalpellini e dei marmisti che lo lavoravano.
L'uso principale del m. Imetto fu in architettura per colonne, architravi, ecc. Fu introdotto a Roma da L. Licinio Crasso, che volle di m. Imetto le colonne dell'atrio della sua casa al Palatino (Plin., Nat. hist., xxxvi, 7).
3. Marmo pentelico (marmor Pentelicum). - È un calcare cristallino pure d'età presiluriana. Per la sua tessitura minuta, non è facile distinguerlo, almeno macroscopicamente, dagli statuari apuani e dalle varietà non bardigliacee dell'Imetto. La sua colorazione, bianca nel materiale fresco, passa, con la prolungata esposizione agli agenti atmosferici, ad un caratteristico, tenue giallo-oro che conferisce alla roccia una particolare nobiltà.
Molto usato in architettura, per la sua facile lavorabilità, ha pure avuto un largo impiego come marmo statuario, anche da parte di insigni scultori greci, quali Fidia e Prassitele. Con esso furono costruiti alcuni dei più importanti monumenti di Atene, come il Partenone ed i Propilei. Di fronte alle ingenti quantità di questo m., prodotte dagli antichi (dell'ordine di 400.000 m3), l'impiego che ne fecero i Romani (ad esempio nel Tempio Rotondo presso il Tevere) può definirsi senz'altro modesto. Probabilmente ciò è da attribuire al fatto che le cave, situate sui versante orientale del Monte Pentelico, circa 15 km a N-E di Atene, e lavorate a partire dal V sec. a. C., non divennero di proprietà imperiale.
4. Marmo di Carrara (marmor Lunense). - Lunensi erano chiamati, dai Romani, i notissimi m. dell'Alpe Apuana. Tale denominazione ricorda il centro di Luni (v.) prossimo al fiume Magra, il più importante della regione in quell'epoca.
I m. apuani, di controversa età geologica (alcuni autori li riportano al Trias, altri al Giura), derivano dalle azioni del metamorfismo regionale su di una potente formazione di calcari organogeni. Essi presentano tipi con grana diversa: più minuta nel cosiddetto bianco porcellana o bianco P.; media nel m. ordinario, e leggermente più vistosa nelle varietà di maggior pregio fra cui lo statuario.
Derivando dalla metamorfosi di calcari, in massima parte praticamente puri, i m. apuani sono solitamente bianchi. La colorazione diffusa o a plaghe (macchie) che ne caratterizza alcuni notissimi tipi, rispecchia, in parte, singolari condizioni originarie della roccia calcarea (da un calcare carbonioso, forse da impregnazioni di idrocarburi, ad esempio, sono derivati i cosiddetti bardigli; di colore grigio-azzurrognolo caratteristico, più o meno pronunciato), ed in parte corrisponde ad un processo di impregnazione secondaria di ossidi di ferro, di sali di manganese ecc., ad opera di acque mineralizzate, circolanti attraverso le sue più minute fratture (peli). Così nel fior di pesco, a fondo tenuemente rosa e con venature rosse e violacee, nel pavonazzo e nel pavonazzetto, bellissimi m. brecciati con fondo di statuario bianco o giallo avorio, e con inifitrazioni più o meno spesse ed intrecciate di ossido di ferro (oligisto), così nel calacata, a fondo bianco e con sottili vene ramificate, d'un grigio tenue, probabilmente colorate dalla stessa sostanza carboniosa che pigmenta i bardigli.
Legate, invece, a più pronunciate manifestazioni degli accennati processi metamorfici, sono le zonature di scisto sericitico o cloritico, grigio-verdastre e verdastre, dei cipollini, a fondo marmoreo bianco, assai sviluppati e frequenti in tutti i livelli della formazione marmifera apuana.
Di origine in parte tettonica e in parte sedimentaria sono, infine, le brecce, di stupendo effetto decorativo, per l'intensa colorazione rosea, rossa o violetta delle vene di cementazione e dei frammenti marmorei che le costituiscono. Esse sono particolarmente diffuse nella Versilia, dove vengono denominate mischi le varietà con frammenti più piccoli, i quali, per la loro colorazione, si confondono con i materiali cementanti.
Sembra che già gli Etruschi ed i Liguri estraessero ed impiegassero il marmor Lunense. Larghissimo uso ne fecero certamente i Romani, i quali svolsero la loro attività estrattiva essenzialmente nella zona del Carrarese, ignorando o trascurando quasi completamente i m. del Massese e della Versilia. È, comunque, assai probabile che le cave della Versilia siano state lavorate sin dall'epoca romana, per ricavarne, dalla zona del Fornetto, la breccia Seravezza antica, corrispondente, secondo il Pilla, alle brecce di Stazzema. Oltre ai m. ordinarî, i Romani produssero largamente i bardigli e gli statuarî. Un bellissimo statuario, assai pregiato per la sua tinta calda e per la sua resistenza agli agenti esterni, era - per esempio - escavato nella valle di Ravaccione (Cava del Polvaccio), dove, almeno fino al secolo scorso, ancora si osservavano i tagli praticati per ricavare i rocchi della Colonna Traiana.
Con le tagliate (tracce degli scavi a mano, per il distacco dei blocchi), testimoniano l'intensa attività estrattiva dei Romani nell'Alpe Apuana, iscrizioni, cippi e bassorilievi, come quello celebre delle cave di Fantiscritti, riproducente Giove, Ercole e Bacco, che, staccato dalla viva roccia nella quale era scolpito, si conserva a Carrara, nella locale Accademia di Belle Arti.
Il trasporto dei m. a Roma avveniva normalmente via mare, sino ad Ostia, mediante appositi velieri detti naves lapidariae, e quindi su barconi che risalivano il Tevere.
La lavorazione dei m. portò ben presto, presso i Romani, ad una forte specializzazione degli operai e degli artisti ad essa addetti, che si distinguevano in caesores, quadratarii, marmorarii (v. marmorarius), characterarii, musivarii, (v.) politores e sculptores.
5. Marmo grechetto duro (marmor porinum). - Fu chiamato porinum per rimarcare (a quanto sembra) con un richiamo alla leggerezza dei tufi (in greco pòros) il suo peso specifico lievemente inferiore a quello degli altri m. greci.
È un calcare cristallino che, come colorazione e durezza, molto si accosta al pario. La sua grana è però più fine di quella di quest'ultimo. A questo carattere tessiturale vuole fondamentalmente riferirsi il termine "grechetto" con cui anche veniva indicato dai marmisti.
Si dice che le cave di questo marmo fossero situate presso Olimpia nel Peloponneso, ma sta di fatto che nella zona non si hanno formazioni metamorfiche, le più vicine delle quali si ritrovano invece a 120 km a S-E, verso il Capo Tenaron.
Anche se meno pregiato del pario, fu largamente usato dagli antichi in architettura e come statuario.
6. Marmo greco livido (marmor Thasium). - È un calcare cristallino bianco, assai simile al marmo di Carrara (dal quale si differenzia solo per avere una grana lievemente più grossetta), e quindi anche al pentelico, com'è noto così difficilmente distinguibile dai m. lunensi. Questa scarsezza di caratteri peculiari ha creato e tuttora determina seri problemi per il suo sicuro riconoscimento, attuabile forse soltanto per mezzo di particolari e delicate ricerche petrografiche. Così, assai controversa è stata l'attribuzione al suo tipo, del m. con cui è rivestita la piramide di Gaio Cestio in Roma, e di quello delle 12 colonne da Veio, esistenti, sempre a Roma, in Piazza Colonna.
Proveniva forse dall'isola di Thasos nel Mar di Tracia (Egeo settentrionale).
7. Marmo palombino (marmor Coralliticum). - Questo m. antico, proveniente forse dall'Asia Minore (precisamente dalla valle del Coralio in Frigia, da cui avrebbe tratto il suo nome) è noto solo per un cenno che ne fa Plinio. Si tratta di un calcare compatto di color bianco avorio, che Plinio stesso afferma di aver visto in pezzi di piccole dimensioni (al massimo di poco meno d'un metro). Secondo il Corsi, il marmor Coralliticum si identificherebbe con un m. moderno nostrano, e cioè con il cosiddetto "palombino", un calcare compatto chiaro "tendente al bigio o al giallo chiarissimo, in qualche modo somigliante alle penne dei colombi bianchi". Lo stesso autore, però, non fornisce alcuna notizia sicura circa la provenienza del palombino.
Un campione di questo m., che fa parte della collezione di m. antichi del Servizio Geologico, ha grande analogia con la pietra di Subiaco (o pietra affilana), un bel calcare semi-cristallino del Cretaceo superiore, di colore bianco tendente al giallino chiaro.
8. Pavonazzetto antico (marmor Phrygium o Synnadicum). - M. brecciato con elementi di calcare cristallino bianco, di dimensioni variabilissime, dispersi in una matrice pure calcarea, di color rosso-violaceo, rosso-bruno o bruno, per impregnazioni di ossidi di ferro, forse accompagnati da sali di manganese (v. Tav. a colori).
Il suo cemento è, in complesso, molto più chiaro e vivo di quello dell'omonimo m. moderno. Un altro carattere distintivo è determinato dal fatto che, di solito, il pavonazzetto apuano è assai meno intensamente brecciato.
Degne di menzione sono, tra le varietà del pavonazzetto antico, quella con gli elementi marmorei allungati ed isorientati, e quella, davvero singolare, d'un delicato viola o rosa-persichino, grossolanamente o fittamente brecciata e con vene di cementazione di calcite bianca, rosea ed - eccezionalmente - brunastra.
Il pavonazzetto antico, fu detto dai Romani marmor Phrygium o Synnadicum, con riferimento all'antica Synnada in Frigia (Asia Minore), nei pressi dell'attuale Afyonkarahisar, dove esistevano le sue cave. Queste, avviate da Agrippa, dopo la sua morte, divennero di proprietà imperiale.
Secondo le testimonianze di Strabone, di Tibullo e di Plinio, fu largamente usato per ricavarne colonne monolitiche. Trovò largo impiego anche come materiale di rivestimento, e - assieme al giallo antico, al Portasanta e all' "Africano" - nella pavimentazione.
9. Cipollino antico (marmor Carystium). - I cipollini antichi hanno i medesimi caratteri petrografici di quelli moderni. Sono, cioè, dei calcari cristallini, cui il metamorfismo ha conferito accenni ad una tessitura parallela (scistosa), messa in evidenza da minerali di neoformazione (miche, cloriti, ecc.) di solito addensati in zone e strie alternanti con bande di comune calcare marmoreo.
Il cipollino antico, detto marmor Carystium, dalla località Karystos, al piede del monte Oché, nell'estremità S-E dell'Eubea, dove, secondo Strabone, veniva estratto, è un m. appartenente al complesso metamorfico basale antico della regione. Esso è tipicamente zonato, con grosse bande marmoree bianche, bianco-verdoline e biancogrigiastre, e con bande d'un color verde di varia gradazione, essenzialmente cloritiche. In qualche varietà, la colorazione delle bande passa al grigio-verdolino, al grigio od al giallognolo. Tali zonature colorate possono essere sottili o ripetute a distanza; più spesso, però, appaiono raggruppate in bande più grossette, di spessore variabile tra uno e due centimetri. È quest'ultimo, un rilevante carattere distintivo rispetto ai cipollini apuani i quali si presentano con fondo marmoreo chiaro a pasta di statuario, e con venature più sottili, più chiare e più eleganti, che li rendono idonei anche per lavori delicati d'architettura.
Le zonature del cipollino antico possono, naturalmente, presentarsi rettilinee o quasi, con lievi ondulazioni o con pieghettature più o meno accentuate, dipendenti dal vario gioco dei processi dinamici intervenuti nella sua formazione.
Poco usato dai Greci, fu intensamente escavato ed usato dai Romani, nei periodo imperiale, soprattutto per la grande architettura (colonne dei Fori; v. Tav. a colori).
Qualche geologo ha avanzato l'ipotesi che il cipollino dei Fori imperiali possa essere stato rinvenuto ed escavato all'Isola d'Elba. Sebbene il cipollino di Procchio (Elba) si presenti alquanto diverso da quello greco, solo approfonditi studi petrografici potrebbero confermare o meno la validità di quest'idea.
10. Giallo antico (marmor Numidicam). - È uno dei più classici m. dell'antichità, le cui cave, aperte dai Fenici, ricorrevano in Tunisia, nella zona di Henshir Shemtu (Simittu) presso il confine della Numidia (v. Tav. a colori).
Si tratta di un calcare marmoreo a grana molto minuta, d'età forse liassica, suscettibile di perfetto polimento e con splendida, colorazione, variabile dal giallo tenue (eburneo) al giallo-dorato ed al giallo-rossastro. Le varietà giallo-chiare e giallo-dorate presentano quasi sempre venature di calcite torbidiccia o pigmentata di limonite gialloscura, e più spesso - di ematite rosso-sanguigna. Dall'intreccio di tali venature derivano screziature e macchie rosse di bellissimo effetto. Per una più intensa fratturazione, in zone di varia estensione, il marmo è ridotto ad una vera e propria breccia, con elementi bianco-giallastri, gialli, rossastri o rosati, legati da cemento calcareo di colorazione rossa più o meno intensa.
I Romani, che cominciarono ad impiegarlo nel II sec. a. C., lo usarono largamente per colonne di porticati, per rivestimenti decorativi, per pavimenti e per tessere da mosaico. Tra i monumenti romani in cui esso ha trovato più largo impiego, si citano il portico adiacente al Tempio di Apollo Palatino, quello degli Orti Lamiani, il Tempio della Concordia, la Basilica Emilia, la Basilica Giulia, il Pantheon, ecc.
11. Marmo rosso antico. - È un calcare minutamente cristallino. Il suo colore di fondo varia dal rosso vivo al rosso cupo. Può presentare grosse vene di calcite spatica (2-3 cm di spessore) bianca o torbidiccia, che talvolta si ripetono parallelamente. Spesso minutamente brecciato e ricementato da calcite impregnata di ossidi di ferro, probabilmente con tracce manganesifere (pirolusite ?), il rosso antico ha verosimilmente tratto la sua colorazione dalla circolazione di acque ferruginose in tale intreccio di sottili fratture (v. Tav. a colori).
Una varietà di rosso antico presenta anche macchie e sottili vene grigio-verdognole, la cui natura chimico-mineralogica non è stata ancora indagata.
Contrariamente a quanto supposto dal Corsi, il quale tende ad identificano con il m. alabandico (estratto, appunto, ad Alabanda in Asia Minore), ricordato da Plinio, sembra che esso provenisse dalla Grecia (zona del Pentelico), a giudicare dalle notizie attinte ad Atene, dove questo m. è adoperato oggi per piccole basi di sculture antiche (museo di quella città).
È stato specialmente usato per cornici ed altri ornati d'architettura, ma anche per sculture di non grandi dimensioni (Fauno Capitolino). A Roma è stato introdotto nei tempi imperiali post-augustei.
12. Marmo Portasanta (marmor Iassense o Carium). - Questo celebre marmo antico è un calcare cristallino, a grana piuttosto minuta, d'un colore di fondo non ben definito (grigiastro chiaro, tendente al rosa, al lilla ed al carnicino), minutamente brecciato e con venature di cementazione spesso tortuose e confuse, impregnate di ossidi di ferro di tinta variabile dal roseo al sanguigno.
La sua denominazione moderna deriva dall'uso che di questo m. si è fatto per ornarne le porte Sante delle quattro Basiliche (S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni, S. Maria Maggiore).
La localizzazione delle sue cave ha presentato, per lungo tempo, non poche incertezze. In base a presunte analogie, fu identificato con un m. proveniente dall'isola di Iaso, presso la costa della Caria (Asia Minore). Di qui le denominazioni di marmor Iassense o di marmor Carium, con cui è stato ed è indicato. E solo nel 1887 che si è pervenuti al rinvenimento delle cave nell'isola di Chio, un tempo ritenuta il luogo di produzione del marmo africano. In base a tale localizzazione delle cave, il giacimento, da un punto di vista geologico, sarebbe da riferire ai terreni calcareo-dolomitici del Trias che hanno largo sviluppo nell'isola.
Il bellissimo effetto decorativo e la facile lavorabilità resero assai frequente l'uso del Portasanta, sia da parte dei Greci, che dei Romani. Questi ultimi lo usarono, per la prima volta, per la pavimentazione della basilica degli Horti di Cesare. Tra gli altri numerosi monumenti romani in cui il Portasanta ha trovato impiego, si citano il Teatro di Pompei e, in Roma, la Basilica Emilia, la Basilica Giulia, il Tempio della Concordia, ecc.
Un calcare brecciato, con fondo sfumato, tra il roseo ed il rossastro e con vene e piaghe di ricementazione di calcite bianca e grigiastra, è conosciuto anche in Italia, nei terreni liassici del Grossetano, a contatto con il granito della zona (Caldana, presso Gavorrano). Per la sua somiglianza con il classico marmo greco, ora descritto, viene anch'esso distinto con il nome di Portasanta.
È poco probabile che gli antichi abbiano conosciuto ed utilizzato il giacimento di Caldana.
13. Marmo africano (marmor Chium). - La denominazione moderna di questo splendido m., non vuoi alludere alla sua provenienza, bensì alla sua colorazione scura o nerastra che, a piaghe, caratterizza tutte le sue varietà (v. Tav. a colori).
Petrograficamente può definirsi una breccia calcarea poligenica ad elementi di dimensioni assai diverse e di varia colorazione e natura (fra cui quelli di rosso antico) legati da un cemento pure calcareo ricco di crinoidi, scuro per impregnazione carboniosa, probabilmente da idrocarburi, molto simile a quello della, breccia monogenica triassica di Biliemi (Palermo).
Il m. africano assume un perfetto polimento. A causa dell'impregnazione carboniosa di taluni suoi elementi e dei cemento, è però facilmente ed intensamente soggetto all'azione ossidante degli agenti atmosferici, e quindi all'alterazione, fino allo sbiancamento, della sua colorazione.
Moderni studi avrebbero portato a dimostrare l'erroneità della attribuzione al m. africano del nome Chium (per indicare la sua provenienza da Chio, nell'arcipelago egeo) ed a riaprire il problema del suo antico nome e della localizzazione delle sue cave.
Introdotto nel mondo romano da Agrippa, nel 36 a. C., è stato largamente usato per colonne, rivestimenti e pavimentazioni, ad esempio nel Foro di Augusto, nel Tempio di Marte Ultore, nella Basilica Giulia, ecc.
14. Marmo fior di pesco (marmor Molossium). - È un calcare finemente cristallino più o meno intensamente fratturato (sino a dar luogo a zone fittamente brecciate) e con vene di cementazione di materiale calcareo impregnato di ossido di ferro, e quindi colorato in rosso o rosso-violaceo.
La macchia di questo bel m., conosciuto dai Romani con il nome di marmor Molossium, è sempre di forma varia e complessa. Prodotto, a quanto sembra, nell'Epiro, trovò impiego soprattutto per ricavarne colonne e lastre per pavimenti.
15. Marmo bianco e giallo (marmor Phengite). - Questo rarissimo m. è un calcare compatto a fondo bianco e con venature giallo-chiare, entro le quali si insinuano venuzze secondarie d'un giallo più carico. Per lo splendido polimento ch'esso può assumere, fu talvolta confuso con gli alabastri.
Plinio, che ne dà la descrizione, afferma che questo m. sarebbe provenuto da un giacimento della Cappadocia scoperto ed utilizzato a partire dai tempi di Nerone.
16. Marmo di Cottanello. - È un calcare compatto d'un bel rosso pallido, tendente al roseo-violaceo, con frequenti e spesse vene di calcite bianca, che assume un buon polimento e presenta un sobrio, ma elegante effetto decorativo.
Proviene dalla Sabina, e precisamente dai dintorni dell'omonimo paese.
Considerato un tempo come una semplice varietà brecciata della "scaglia rosata" del Cretaceo superiore, in base a recenti studi è, invece, da riferire al Giura.
Molto usato nei tempi moderni (l'utilizzazione sua più importante è quella per le colonne della Basilica di S. Pietro), questo m., secondo il Corsi, è stato conosciuto ed impiegato anche nell'antica Roma.
17. Marmo nero antico (marmor Taenarium) ed altri bianchi e neri. - Il m. nero antico, detto dai Romani Taenarium, è un calcare bituminoso nero intero o percorso da grosse venature calcitiche ramificate.
I giacimenti di questo m. sono stati ritrovati al capo Taenarium in Laconia (Peloponneso sud-orientale). Essi mostrano evidenti tracce delle antiche lavorazioni. Attualmente si scava ancora una sua varietà (calcare nero a struttura minutamente cristallina).
Da una non precisata località dell'Egitto proveniva, pare, nell'antichità anche un m. bianca e nero. Si tratta di un calcare cristallino, impregnato di sostanza bituminosa, con diffuse plaghe bianche (perché risparmiate dall' imbibizione del bitume) che conferiscono al m. un aspetto brecciato.
Tra i m. neri dell'antichità va, infine, ricordato il cosiddetto marmor Celticum o "bianco e nero di Francia". Questo calcare scuro, bituminoso, con plaghe fossilifere e con venule irregolari (a chiazze) calcitiche, potrebbe provenire da Theux (Spa) in Francia, dove esistono tracce di antiche cave romane.
È da notare che il lapis niger, nel Foro Romano, ha struttura alquanto diversa da quella dei neri conosciuti finora, antichi e moderni.
Alabastri e travertini. - 18. Alabastro antico (marmor alabastrum). - Corrisponde, litologicamente, ai calcari a tessitura concrezionale, di origine chimica, noti come alabastri calcarei (o alabastri orientali o alabastri ionici) per distinguerli da quelli gessosi, varietà di discreto pregio ornamentale dei gessi a struttura saccaroide.
Assimilabili ai m. in senso stretto, per la loro marcata cristallinità, si depositano, di solito, sotto forma di crostoni, allo sbocco delle sorgenti calcarifere, o nelle cavità ipogee di origine carsica, sotto forma di stalattiti, stalagmiti, ecc. Nei calcari alabastrini, contraddistinti da una translucidità assai più marcata di quella dei tipici m., che li rende trasparenti se tagliati in lastre di piccolo spessore, è, però, molto spesso riconoscibile una tipica tessitura fibroso-raggiata o concrezionale, che ne rivela facilmente l'origine estranea ai processi metamorfici.
Tra gli alabastri antichi, noti sotto la denominazione di onyx o alabastrites (da Alabastra, città dell'Egitto, già centro di produzione di questi materiali) si distinguono varietà bianche, gialline o verdoline con tessitura poco pronunciata, varietà con concrezioni a elementi lineari (rettilinei o lievemente ondulati) fini e fittissimi; varietà con concrezioni a bande più o meno fitte (rettilinee, ondulate ed anche fortemente increspate) delle più varie colorazioni: dal bianco, al giallo-miele, al giallo, al giallo bruno (caratteristico del cosiddetto "alabastro tartaruga"), al rosso, al rosato ed al paonazzo; varietà con inclusioni concrezionali tondeggianti (occhi; rose, se con bordo increspato), ecc.
In Egitto, oltre che nella citata località di Alabastra, le più pregiate varietà del marmor alabastrum venivano scavate al Mons Berinicides, in depositi di origine stalattitica. Le stesse condizioni genetiche presentavano quelle, pure celebrate, della Siria (Damasco). Un'origine connessa con il manifestarsi di acque termali calcarifere presentano, invece, gli alabastri chiari e particolarmente translucidi, della regione algero-marocchina.
Non è da escludere che qualche alabastro usato dai Romani possa essere venuto da qualcuno dei giacimenti italiani, e soprattutto (per la sua vicinanza) da quello del Circeo, tuttora oggetto d'escavazione.
Oltre che per la preparazione di vari piccoli oggetti (scatole, vasetti portaprofumi, ecc.) l'alabastro trovò largo uso presso gli antichi, soprattutto per ricavarne colonne, lastre per rivestimenti e pavimentazioni, ecc.
A Roma, a quanto riferisce Cornelio Nepote, cominciò ad essere usato come materiale da costruzione ed ornamentale, nel I sec. a. C. (v. Tav. a colori).
19. Travertino (lapis Tiburtinus). - Calcare di deposito chimico e d'età geologica quaternaria. È largamente diffuso nella Campagna Romana, soprattutto nella zona pianeggiante compresa tra i monti Tiburtini ed i monti Cornicolani, dove si hanno i più noti giacimenti di questa caratteristica roccia. La sua formazione, probabilmente connessa con fenomeni secondari del vulcanismo pleistocenico laziale, tuttora perdura (ad esempio nel notissimo laghetto delle Acque Albule). Altri depositi di travertino, probabilmente non sfruttati dagli antichi, si hanno ancora nel Lazio (Fiano Romano), nell'Umbria (Orte, Terni, Perugia), nelle Marche (Ascoli Piceno), in Toscana (Rapolano nel Senese), ecc.
Di colore bianco o giallino chiaro, con una caratteristica vacuolarità spesso molto pronunciata, specialmente secondo il senso della stratificazione, il travertino per la sua facile coltivabilità, per l'indurimento cui va soggetto dopo la sua messa in opera, per la sua durevolezza, per l'elevata resistenza meccanica, e per il peso specifico, inferiore a quello degli altri calcari, è un eccellente materiale da costruzione. Negli ultimi tempi alcuni suoi tipi più scuri e variegati (ad esempio il cosiddetto oniciato) sono usati in lastre, previo polimento, come materiale ornamentale (soprattutto per rivestimenti). Gli antichi, però, non conoscevano questo uso, ed impiegavano per lo più il travertino come pietra da conci e da taglio.
Tracce delle lavorazioni di cava, di età romana, del lapis Tiburtinus erano, almeno nel secolo scorso, visibili in località Il Barco, tra la Tenuta Martellone ed i Monti di Tivoli. Da tali cave sarebbero stati estratti vari milioni di metri cubi di travertino. Nel loro insieme, le antiche cave di questa zona avrebbero avuto uno sviluppo frontale di circa km 2,5. Per il trasporto in città del travertino, esisteva un'apposita strada, di carreggiata doppia di quella della Via Appia.
Uno dei primissimi impieghi del travertino nei monumenti romani, se non addirittura il primo, fu quello per la costruzione delle arcate del Ponte Milvio in Roma, ultimato nel 109 a. C. Altri ponti romani in cui il travertino ebbe analogo uso, sono quello Fabrizio, quello d'Agrippa, quello di Caracalla (là dove oggi sorge il Ponte Sisto), il Ponte Emilio ed il Sublicio. Molto usato anche in altre costruzioni ad arco, il travertino trovò impiego nella costruzione di porticati, di basiliche, di templi (di Castore, di Giunone Sospita, della Speranza nel Forum Holitorium, ecc.), di teatri (di Pompei, di Marcello in Roma), di facciate di tombe, oltre che come materiale di pavimentazione, ed in numerose altre applicazioni dell'edilizia privata.
Dai tempi di Augusto in poi, l'introduzione in architettura dei m. fece alquanto scadere quel ruolo di pietra anche ornamentale che, sino allora, il travertino aveva avuto. Esso continuò, comunque, ad essere largamente usato per le grandi opere monumentali (esempio l'Anfiteatro Flavio) la cui mole rendeva troppo costoso l'uso dei m., e come pietra particolarmente idonea per le parti esterne delle costruzioni, in virtù della sua resistenza agli agenti degradatori.
Brecce e puddinghe (sovente impropriamente dette ("serpentine"). - 20. Breccia corallina. - Di grande pregio, soprattutto per la delicatezza del suo effetto decorativo, questa breccia si compone di elementi calcarei bianchi, rosei o giallo chiari, legati da un cemento di color rosa corallo. Non è nota la provenienza di questo m. che, presso i Romani, trovò costante, anche se limitato, impiego in architettura (v. Tav. a colori).
21. Breccia di Settebassi. - Questa breccia calcarea, costituita da elementi di solito oblunghi, bianchi o colorati in giallo o in rosso, legati da un cemento grigio-violaceo o rosso-sangue, proveniva, a quanto pare, dall'Isola di Skyros. Il suo nome deriva dalla villa di Settimio Basso, sulla via Tuscolana, largamente decorata con questo marmo.
22. Breccia verde d'Egitto. - È, in realtà, un conglomerato puddingoide poligenico, ad elementi di dimensioni diversissime, di granito, di porfido, di quarzo e di ofioliti più o meno intensamente serpentinizzate. Di qui il nome di breccia universale con cui è anche conosciuta.
Il colore predominante di questa roccia policroma è quello verde del suo cemento arenaceo (v. Tav. a colori).
Le sue antiche cave erano nell'Alto Egitto (valle del Quessery), nel basamento cristallino dell'Africa.
Graniti. - 23. Granito degli obelischi (lapis pyrhopoecilus o syenites). - È una granitite, più o meno anfibolica, passante a granito porfirico, d'un bel colore rosso o roseo. Forma ingenti masse nell'Alto Egitto, presso Assuan (Syene degli antichi): di qui uno dei suoi nomi latini.
È stato molto usato nell'antichità. Tra gli esempi di sua applicazione, il più noto è quello degli obelischi egiziani, di cui un buon numero fu portato a Roma nel periodo imperiale (v. Tav. a colori).
24. Granito del Foro (lapis psaronius). - È una granitite biotitica a grana grossa, con individui feldspatici bianchi. Anche le sue cave erano situate in Egitto, nei dintorni di Syene.
I Romani lo chiamavano lapis psaronius, per una certa somiglianza della sua colorazione d'insieme, con quella delle penne dello storno (in greco psaròs).
La denominazione moderna di questo granito sottolinea il largo impiego fattone dai Romani, specialmente nella costruzione dei Fori imperiali (ad esempio quello di Traiano, che ha tutte le sue colonne di lapis psaronius).
25. Graniti italiani. - Mentre è problematico se i Romani abbiano conosciuto ed usato i notissimi graniti prealpini (di Baveno, Alzo, S. Fedelino ecc.), è accertato ch'essi escavarono ed utilizzarono, per la costruzione di colonne, i graniti paleozoici della Sardegna (ad esempio di S. Teresa di Gallura, nei cui dintorni tuttora esistono evidenti tracce di cave romane), e quelli, di età terziaria, dell'arcipelago toscano (Elba e Giglio).
Porfidi. - 26. Porfido rosso antico (lapis porphirites). - Petrograficamente è una porfirite anfibolica. La sua massa fondamentale, color rosso fegato, è picchiettata di minuti fenocristalli di plagioclasi bianchi o rosei per pigmentazione d'una varietà rossa dell'epidoto.
Molto usata, nell'antichità, come materiale ornamentale, specialmente per la sua grande resistenza agli agenti esterni, questa roccia, che i Romani conoscevano con il nome di lapis porphirites, proveniva dalle cave del Gebel Dukhan nell'Alto Egitto (v. Tav. a colori).
27. Porfido verde antico. - È il lapis Lacedaemonius dei Romani, che ne fecero largo uso. Da un punto di vista petrografico, è una porfirite labradorica, nella quale, in una massa fondamentale compatta, di color verde intenso, sono immersi grossi fenocristalli listiformi di labradorite, colorati in verdolino chiaro (v. Tav. a colori).
Le cave di questo bellissimo materiale ornamentale, chiamato dagli antichi marmorarî anche porfido serpentino, erano situate nel Peloponneso, e precisamente a Krokeai, tra Marathonisi e Levetsova. La scoperta di tali antiche lavorazioni è stata compiuta nel 1829, dal Boblaye. Sembra che il giacimento di Krokea offra tuttora possibilità per la coltivazione della porfirite.
Oficalci. - 28. Verde antico (lapis Atracius). - Breccia fiolitica, con elementi scuri (di peridotite in via di serpentinizzazione) e - in minor copia - bianchi (di calcare cristallino, con caratteristico alone di serpentino fibroso).
È il lapis Atracius (da Atrace, in Tessaglia) dei Romani, che lo tenevano in grande pregio per il suo splendido effetto decorativo. Tracce di antiche cave di questa roccia sono state rinvenute, sempre in Tessaglia, anche poco a N-E di Larissa, dove affiora una rilevante massa di rocce ofiolitiche, associate ai micascisti antichi, molto diffusi nella regione (v. Tav. a colori).
Delle numerose rocce ofiolitiche italiane, spesso brecciate e ricementate da calcite (oficalci), quali il Verde Polcevera, il Verde di Susa, il Verde di Varallo ecc., ricordano il m. atracio soprattutto il Verde di St. Denis (Aosta), il Verde Susa ed Verde di Varallo.
Bibl.: F. Corsi, Delle Pietre Antiche, Roma 1845; A. Leger, Les Travaux publics, les mines et la métallurgie aux temps des Romains, Parigi 1875; G. R. Lepsius, Griechische Marmorstudien, Berlino 1890; H. W. Pullen, Handbook of Ancient Roman Marbles, Londra 1894; C. Dubois, Étude sur l'administration et l'exploitation des carrières de marbre, porphire, granit, etc., dans le monde romain, Parigi 1908; Ch. Beaugé, Les carrières antiques en Haute-Egypte, Alençon 1926; G. De Angelis d'Ossat, I marmi di Roma antica, in Atti I Congresso Naz. di Studi Romani, Roma 1928; id., Roma e Lazio, Materiali naturali da costruzione e da ornamento, in Atti II Congresso Naz. di Studi Romani, Roma 1931; E. Marchetti, Roma Marmoraria, in Marmi, Pietre e Graniti, a. XIII, n. 4, Carrara 1935; Confederazione nazionale Esercenti Industrie Estrattive, I Marmi Italiani, Roma 1939; M. E. Blake, Ancient Roman Construction in Italy from Prehistoric Period to Augustus, Richmond 1947; F. Rodolico, Le pietre delle città d'Italia, Firenze 1953.
(A. Moretti)
2. - Uso e commercio di roma. - Ad eccezione di alcune opere di scultura importate, il m. non era usato nell' Italia centrale, né in architettura, né in scultura, prima della seconda metà del II sec. a. C. La spesso citata notizia di Plinio (Nat. hist., xvii, 6), secondo la quale il marmo non è apparso in alcun edificio pubblico di Roma prima del tempo di L. Licinio Grasso, che morì nel 91 a. C., non può essere accettata letteralmente. Con la conquista della Grecia, una grande quantità di statue prese la via dell'Italia, e la Porticus Metelli, eretta subito dopo il 146 a. C. per ospitare tale collezione, era certamente costruita in parte di m. (Vell., i, ii, 3 ss.; cfr. M. I. Boyd, in Papers of the British School at Rome, xxi, 1953, p. 152 ss.). Durante la prima metà del I sec. a. C. il suo impiego in edifici pubblici divenne più comune, ed un ben noto esempio è l'uso che fece Silla delle colonne dell'Olympieion di Atene per il tempio di Giove Capitolino (Plin., Nat. hist., xxxvi, 45), Nel 58 a. C. M. Emilio Scauro importò non meno di 360 colonne per il suo teatro provvisorio (Plin., Nat. hist., xxxvi, 5); e Cesare prima della sua morte ebbe l'intenzione di ricostruire i Saepta in m. (Cic., Ad Att., iv, 16, 14). Un edificio in m. risalente all'età repubblicana è il Tempio Rotondo nel Forum Boarium, costruito interamente in pentelico, con un podio di travertino.
L'apertura delle cave di Luni (Carrara), poco dopo la metà del I sec., offrì una più accessibile e meno costosa fonte di rifornimento. Il m. di Luni è menzionato per la prima volta intorno al 48 a. C. per la casa di Mamurra (Plin., Nat. hist., xxxvi, 48) e cominciò ad apparire negli edifici romani durante il decennio 40-30 a. C. (per esempio nella Regia, nel 36 a. C.). Fu innanzi tutto l'utilizzazione di questo nuovo giacimento che permise ad Augusto di vantarsi di aver trovato Roma di mattoni e di averla lasciata di marmo. Si continuò ad importare materiale greco per le statue, mentre per un secolo il m. bianco usato nelle comuni opere di architettura, in Italia e nelle province occidentali, fu quasi esclusivamente quello di Luni. Già durante la tarda Repubblica vi era stata anche un'importazione di m. colorati per colonne, pavimenti e rivestimento di pareti. Anche in questo caso, tuttavia, un grande incremento si ebbe sotto Augusto ed i suoi immediati successori. Quasi tutti i m. comunemente usati durante l'Impero si trovavano già a Pompei prima del 79 d. C.
Il forte aumento delle richieste condusse ad una riorganizzazione di vasta portata delle fonti di rifornimento. Molte cave locali, indubbiamente, continuarono a funzionare per uso privato o municipale. Numerose città dell'Asia Minore, per esempio, avevano i loro propri giacimenti (Efeso, Afrodisiade, Mylasa), e le stesse circostanze si verificavano per alcune parti dell'Italia (Brescia). È anche probabile che alcune o tutte le cave di pentelico fossero in possesso di Erode Attico, che impiegò grande quantità di questo m. per i suoi edifici in Grecia e altrove. Gran parte delle cave più importanti, tuttavia, sembra siano passate molto presto nelle mani dell'imperatore (cfr. Suet., Tib., xlix) e, come conseguenza di una radicale riorganizzazione dell'anministrazione dei giacimenti e delle altre sezioni della distribuzione, si ebbe questo relativamente limitato numero di cave, situate principalmente in Grecia, in Asia Minore e in Egitto, che fornivano la maggior parte del m. necessario per soddisfare le esigenze di tutto l'Impero romano.
L'aumento di produzione si era già sentito a Roma sotto Claudio e Nerone, e rese attuabili i vasti progammi edilizi di Domiziano e di Traiano, sotto i quali gli splendidi m. dell'Attica e di Proconneso avevano già cominciato a prendere il posto di quello di Luni nella costruzione degli importanti edifici pubblici. L'Arco di Tito fu eretto interamente in pentelico, quello di Domiziano sul clivus Palatinus in parte nello stesso marmo. Il m. bianco usato nel Foro Traiano era ancora italico, ma l'arco di Ancona e il monumento posto alla fine della via Appia, a Brindisi, sono ambedue in proconnesio. Sotto Adriano il m. bianco del Pantheon è in gran parte pentelico, quello del tempio di Venere e Roma proconnesio.
Nel II sec. una crescente quantità di m. era disponibile per soddisfare anche le esigenze delle province che non avevano proprie possibilità di rifornimento. In Tripolitania, ad esempio, esso veniva appena usato in architettura durante il I sec. d. C., mentre, dopo aver compiuto la prima monumentale apparizione nelle terme adrianee di Leptis Magna, esso era già in uso comune intorno alla metà del II sec. - fatto che è confermato dalle iscrizioni, - dato che in Tripolitania esse furono incise sul m. per la prima volta al tempo di Traiano. Simili esempî si ripetono altrove nell'Africa settentrionale. Evidentemente come conseguenza della riorganizzazione del sistema di produzione si ebbe una notevole disponibilità di materiale, a prezzi che erano alla portata di città provinciali di limitate possibilità.
I m. colorati avevano già fatto una limitata apparizione ai tempi della Grecia classica, come per esempio il m. scuro di Chio (il marmor Luculleum dei Romani), che fu usato per l'altare degli abitanti di Chio a Delfi (J. Broadman, in Antiquaries Journal, xxxix, 1959, p. 187), mentre la decorazione dipinta di tipo strutturale del mondo ellenistico suggerisce un considerevole uso anche di vere incrostazioni marmoree. Il "rosso antico" era già esportato a Cirene nel 109-8 a. C. (iscrizione di Tolomeo Sotere II; P. M. Fraser, in Berytus, xii, 1956-58, p. 113 ss.), ed i m. colorati cominciarono ad apparire subito dopo a Roma (il m. numidico nel 78 a. C., Plin., Nat. hist., xxxvi, 6; il marmor Luculleum nel 74 a. C., Plin., op. cit., xxxvi, 48). Al tempo di Augusto essi erano già ampiamente diffusi. La conquista dell'Egitto aprì nuove possibilità di rifornimento, particolarmente di porfido imperiale, di granito rosso di Syene e del prezioso granito grigio del Mons Claudianus, nel deserto occidentale. Con poche eccezioni degne di considerazione, come il m. verde della Tessaglia ("verde antico"), questi m., comunemente impiegati durante l'Impero, si trovavano già a Pompei prima del 79 d. C.
Durante il tardo Impero sorsero alcune nuove cave nei Pirenei, che continuarono a rifornire la Gallia fino agli inizî del Medioevo; in Oriente si cominciarono a sfruttare altri giacimenti, che erano in posizione favorevole per rifornire Costantinopoli. Un elenco dei m. di uso comune (sfortunatamente incompleto) è contenuto in un frammento dell'editto di Diocleziano (M. Guarducci, in Boll. del Museo dell'Impero Rom., xi, 1940, p. 41 ss.). Delle 20 qualità elencate, sono conservati i nomi di 11, dei quali 9 possono essere identificati: tutti sono della Grecia, dell'Asia Minore o dell'Egitto.
I sistemi in uso per l'estrazione rimasero per la maggior parte tali quali erano stati nei tempi della Grecia classica. Di nuovo si ebbe invece la trasformazione dell'impresa di utilizzazione in lavoro su vasta scala e l'abbandono dell'uso greco di cavare blocchi singoli, ciascuno per un impiego particolare, ad eccezione dei casi di blocchi di misura o qualità fliori dell'ordinario, quali le colonne di granito del Pantheon o i sarcofagi di porfido imperiale, che devono essere stati ordinati appositamente. Grandi depositi di m. già cavato furono allora organizzati nelle cave stesse oppure nei porti navali: essi includevano numerosi gruppi, come colonne, capitelli, basi, che erano già abbozzati e in attesa di completamento solo nei dettagli. Varî di questi depositi sono venuti alla luce: di essi il più noto è quello della Marmorata cioè il campo del m. sulla sponda del Tevere sotto l'Aventino. Altri materiali sono stati trovati tra i resti di navi naufragate durante il tragitto. Le iscrizioni incise sui blocchi non terminati sono la nostra principale fonte di informazione riguardo all'organizzazione ed amministrazione di tutto il complesso sistema di produzione e di distribuzione. Gran parte delle cave erano chiaramente in mano a schiavi e liberti imperiali; le iscrizioni recano i numeri, in ordine progressivo, dei blocchi singoli e, in molti casi, l'indicazione del consolato. Il fatto che alcuni blocchi abbiano due date è la prova che grandi provviste venivano talvolta accumulate presso le cave o nei campi di marmo.
Le conseguenze di questi nuovi sistemi furono di vasta portata. Innanzi tutto avvenne che, in luogo di materiali meno costosi e più abbondanti, gli architetti romani dovevano generalmente accontentarsi di usare quello che era disponibile, parte del quale già parzialmente lavorato. Le colonne della Basilica Severiana di Leptis Magna (e di conseguenza anche i capitelli), ad esempio, differiscono in altezza di circa 25 cm. In tali condizioni l'accurata ricerca delle proporzioni dei Greci non era più possibile, e la minuziosa esecuzione degli artigiani doveva cedere il posto ad effetti ampi e scenografici. In scultura i metodi tradizionali rimasero nella maggior parte dei casi gli stessi: ma anche in questo campo vi era la tendenza ad abbozzare alcuni elementi, particolarmente nella produzione dei sarcofagi. Fuori d'Italia i due più importanti centri di produzione di essi erano l'Attica e il Proconneso. Ambedue questi centri esportavano sarcofagi non solo già formati (con un ovvio risparmio di materiale), ma anche in alcuni casi parzialmente scolpiti, tali da essere rifiniti all'arrivo, in officine poste in tutti i centri di importazione o anche da artigiani che accompagnavano l'imbarcazione. Questo era un importante fattore nella determinazione della distribuzione dei vari tipi di sarcofagi. Così ad Alessandria, che prendeva il suo m. bianco quasi esclusivamente dal Proconneso, il modello tipico di sarcofago era quello a ghirlanda basato su modelli proconnesii; mentre a Cirene, che aveva durevoli rapporti culturali e commerciali con l'Attica, i sarcofagi importati erano, con rare eccezioni, di m. e di tipo attico.
Questa assai stretta relazione tra gli operai che rifinivano le opere e le fonti di rifornimento del materiale non era limitata al commercio dei sarcofagi. Essa si estendeva a molti altri rami della scultura, particolarmente alla scultura architettonica, e in questo campo essa fu uno dei più importanti fattori che determinarono la tendenza a formare un uniforme stile "imperiale", superando i limiti delle tradizioni regionali di lontana formazione. Inoltre, il fatto che la maggior parte dei m. per la scultura venissero dalla Grecia e dall'Asia Minore significa che le tradizioni che stanno alla base di questo stile "imperiale" erano greche di origine e conservatrici come tendenza.
Un'ulteriore conseguenza del commercio romano dei m. merita di essere considerata. La sottomissione degli architetti nella capitale ad un materiale importato e costoso significa che, solo eccezionalmente, per esempio nel caso del tempio augusteo di Apollo sul Palatino, essi lo usavano in blocchi massicci alla maniera greca. Di solito essi seguivano una pratica già diffusa nei tempi ellenistici (il primo esempio ricordato è il palazzo di Mausolo; Vitr., 11, 8, 1o) e tagliavano il m. in sottili lastre che applicavano, come una superficie, a pareti di altro materiale. Questa tendenza a scindere la sottostante struttura dagli schemi decorativi (frequentemente di carattere "architettonico") delle superfici visibili era favorita dalla sempre crescente fiducia nell'opera cementizia come mezzo strutturale; e l'abbondanza di m. disponibili rese possibile un molto maggior uso del colore a spese della forma. Nella tarda antichità questa portò ad una completa frattura con i tradizionali canoni della decorazione architettonica, tendenza, questa, che ebbe la sua estrema e massima espressione nella S. Sofia a Costantinopoli.
Il seguente è un elenco dei m. più comunemente estratti per esportazione in età romana con il nome usato nei testi antichi. Occorre tener presente che una gran quantità di altri tipi era ampiamente usata localmente (per esempio in Asia Minore, Dalmazia, Italia settentrionale, Gallia), ma non sembra abbia avuto un mercato più vasto.
I. - Marmi bianchi. Marmor Lunense, l'odierno m. di Carrara. Le cave sembra siano state aperte da Cesare (Plin., Nat. hist., xxxvi, 48) intorno al 48 a. C. ed erano in pieno funzionamento poco dopo la sua morte. Eccetto che per uso locale, esse erano in completo declino nella tarda antichità. Le qualità colorate erano usate localmente, ma non furono molto esportate.
Marmor Pentelicum, marmor Hymettium. Due tipi completamente diversi erano estratti in Attica; ma da quando furono trovati ambedue sia sul Monte Pentelico che sul Monte Imetto, vi è stata una grande confusione nel descriverli, forse già nell'antichità, ma sicuramente tra gli scrittori moderni. Durante l'età romana di gran lunga il più importante fu il famoso m. statuario del Monte Pentelico, del quale le qualità più scadenti furono anch'esse ampiamente esportate per uso architettonico (per esempio l'Arco di Tito, il Pantheon). Il m. che forma il grosso dei depositi del Monte Imetto è una pietra più grossolana, grigio blu, che raggiunge Roma nel I sec. a. C. (Plin., Nat. hist., xxxvi, 7), ma che sembra sia stato poco esportato in seguito. L'effettiva produzione di ambedue cessò nel 267 d. C.
Marmor Parium. È il m. a grandi grani, translucido, usato in tutto il periodo romano per la statuaria.
Marmor Proconnesium. Così detto dall'isola di Marmara nella Propontide. Sebbene continuamente usato sin dai tempi della Grecia classica, difficilmente si può pensare che abbia raggiunto Roma prima del II secolo. In seguito e fino all'epoca bizantina, esso fu il più largamente usato di tutti i m. bianchi in architettura, e molto diffuso anche per sarcofagi.
Di tutti gli altri numerosi m. cavati in Grecia e in Asia Minore, solo alcuni (per esempio il marmor Thasium) furono esportati, ma in quantità limitata. M. bianchi dei Pirenei furono usati in Gallia nella tarda antichità.
II. - Porfidi e graniti preziosi. Porphyrites, porfido imperiale, dal monte Porphyrites nel Gebel Dukhan, nell'Egitto orientale. Fu un monopolio strettamente imperiale, per la prima volta utilizzato nei tempi tolemaici tardi o in età augustea. La produzione cessò nel 450 d. C. circa.
Marmor Lacedaemonium. Porfido verde da Krokeai nella Laconia occidentale. La cava fu aperta sotto Augusto (Strab., viii, 367; cfr. Paus., iii, 21, 4).
Marmor Claudianum. "Granito del Foro", dal Mons Claudianus, a 50 km a S delle cave di porfido imperiale.
Syenites. È il granito egiziano rosso, cavato sin dall'epoca faraonica.
Vi erano infine altre due fonti di granito grigio ampiamente utilizzate: in occidente, Elba e Corsica; in oriente alcune cave finora non identificate nella Propontide (marmor Troadense ?). Numerose altre varietà di granito prezioso furono cavate in Egitto, compreso il Granito della Sedia, soprattutto per l'esportazione nella capitale.
III. - Altri marmi colorati. Marmor Numidicum. "Giallo Antico", da Simittu (Henshir Shemtu in Tunisia). Uno dei primi m. che raggiunsero Roma.
Marmor Synnadicum (Phrygium). "Pavonazzetto", da Dokimeion, presso Synnada. Era usato principalmente per colonne, ma occasionalmente anche per statue policrome.
Marmor Carystium. "Cipollino", da Karystos in Eubea. Veniva esportato in grande quantità durante l'Impero, soprattutto per colonne.
Marmor Teum. Da Teos in Lidia. Un bel m. grigio e bianco, translucido, usato nel I-II sec. d. C., soprattutto per colonne.
Marmor Chium. "Portasanta" dell'isola di Chio. Molto variato nell'aspetto, fu ampiamente esportato durante gli inizi e la metà dell'Impero.
Marmor Luculleum. M. grigio scuro-nero, variante del precedente, anche da Chio. Il testo corrotto di Plinio (Nat. hist., xxxvi, 48) ha causato grandi discussioni in passato, riguardo al sito delle cave; ma gli argomenti di M. Guarducci (in Boll. Museo dell'Impero Rom., xii, 1940, p. 44 ss.) sono conclusivi (cfr. anche Isid., Etym., xvi, 5, 17). Già in uso locale alla fine del VII sec. a. C.
Marmor Taenarium. M. laconico nero (Plin., Nat. hist., xxxvi, 158), più scuro del marmor Luculleum. Una altra fonte di m. nero era l'isola di Lesbo, forse anche Gebeli Filfila in Algeria.
Marmor Scyricum. "Breccia di Settebassi", dall'isola di Syros. Fu ampiamente usato durante il primo Impero per colonne e decorazioni parietali.
Marmor Thessalicum. "Verde Antico", fu uno degli ultimi m. ad essere impiegati su vasta scala e fu largamente esportato nella tarda antichità.
Africano. Una breccia di tonalità più scura, di ignota origine. Uno dei più antichi m. che raggiunsero Roma in grande quantità, esso sembra abbia cessato di essere prodotto durante il II secolo. Gli ultimi esempî sicuri sono adrianei (soglie delle porte del Pantheon).
Altre cave che esportavano notevoli quantità di m. colorati si trovavano a Hierapolis, a Iaso in Caria (simile al "rosso antico", ma più fortemente variegato, fu molto usato nella tarda antichità), e, dopo la fondazione di Costantinopoli, in Bitinia.
Le qualità di m. riferite dall'editto di Diocleziano, come Anakastenos e Potomogallenos (Breccia Corallina dalla Bitinia?) non sono state identificate con sicurezza; né si conosce meglio l'origine del m. bianco Celticum, che è usato in una serie di edifici della prima età bizantina.
Bibl.: Opere generali: F. Corsi, Delle Pietre Antiche, Roma 1845; Fiehn, in Pauly-Wissowa, III, 2, 1929, col. 2241 ss., s. v. Steinbruch; M. E. Blake, Ancient Roman Construction in Italy from the Prehistoric Period to Augustus, Richmond 1947. Organizzazione: L. Bruzza, in Ann. Ist., 1870, p. 106 ss.; J. B. Ward Perkins, in Journ. Rom. Stud., XLI, 1951, p. 89 ss. Di tutti gli studî su singole province o zone particolarmente utili sono: G. R. Lepsius, Griechische Marmorstudien, Berlino 1890; L. Banti, in St. Etr., V, 1931, p. 475 ss. (Luni); D. Meredith, in Journal of Egyptian Archaeology, XXXVIII, 1952, p. 95 ss.; XXXIX, 1953, p. 95 ss. (Egitto). Per il commercio dei sarcofagi parzialmente lavorati: J. B. Ward Perkins, in Journ. Rom. Stud., XLVI, 1956, p. 10 ss. (Attica); id., in Archaeology, XI, 1958, p. 98 ss. (Proconneso).
(J. B. Ward Perkins)