MAROZIA
– Nacque presumibilmente a Roma intorno all’892 da Teofilatto e da Teodora.
Il padre, vestararius del sacro palazzo lateranense, magister militum e senator Romanorum, appartenente a una famiglia della via Lata, fu il capostipite della linea che, dal suo nome, la storiografia ha battezzato dei Teofilatti e che, proprio attraverso M. e il figlio di lei Alberico, dominò la politica romana dalla fine del secolo IX alla metà del successivo, per continuare nella dinastia dei conti di Tuscolo. La madre, Teodora vestararissa, apparteneva verosimilmente a una famiglia dell’aristocrazia romana, anche se è stata avanzata l’ipotesi, non suffragata da fonti, che fosse figlia di Adalberto (I) marchese di Toscana (Liverani, p. 65). M. ebbe almeno quattro fratelli: Teodora (II), morta prima del 945, dalla quale originarono i Crescenzi; un fratello forse di nome Teofilatto, ricordato nel 915 e premorto al padre o comunque morto giovane; infine Sergia e Bonifacio, morti infanti e sepolti in S. Maria Maggiore.
M., il cui nome è un diminutivo di Maria, di uso frequente nella Roma dei secoli X-XI, compare sulla scena pubblica in giovane età, allorché, secondo quanto afferma Liutprando di Cremona nell’Antapodosis (p. 58), avrebbe avuto una relazione («nefarium adulterium») con papa Sergio III. Da lui avrebbe avuto un figlio di nome Giovanni, successivamente assurto al soglio pontificio con il nome di Giovanni XI.
La questione della relazione tra M. e Sergio III, che si daterebbe intorno al 907, è controversa: la gran parte degli autori ha accettato pedissequamente la condanna di Liutprando; altri, tra cui Fedele e Brezzi, la considerano invece una maldicenza senza fondamento. Sebbene la penna di Liutprando sia caustica e il tema dell’adulterio e della lussuria come strumento di potere delle donne sia molto caro a questo autore, vi sono due fonti, apparentemente indipendenti dall’Antapodosis, che confermano parte della storia. Nei cataloghi di pontefici del secolo X, infatti, Giovanni XI è detto «ex patre Sergio papa» (Le liber pontificalis), mentre Flodoardo di Reims lo dice «filium Marie, que et Marocia dicitur» (Annales, p. 381). L’una e l’altra testimonianza, dunque, avvalorano, ciascuna per una parte, la proposizione di Liutprando. Anche se la situazione è incerta, si deve dunque registrare almeno il fatto che, per diversi autori del secolo X, i genitori di papa Giovanni XI furono proprio Sergio III e Marozia. Per arrivare a formulare una dichiarazione più netta, l’indagine dovrà rivolgersi a individuare la presenza o l’assenza di collegamenti tra tutte queste testimonianze (anche Gregorio da Catino, nel Chronicon Farfense, alla fine del sec. XI scrive che M. ebbe Giovanni da papa Sergio, ma l’autore segue direttamente Liutprando; mentre altre testimonianze, altrettanto tarde, dicono Giovanni figlio di Alberico, marito di M., dunque legittimo: vedi Liverani, p. 45 n.). Sembrano dunque da accogliere per il momento le conclusioni di Piazzoni, secondo il quale «date, ambiente e circostanze tendono […] a rendere verosimile piuttosto che a escludere la nascita di G[iovanni] da una relazione tra la giovanissima Marozia e il maturo Sergio III» (Giovanni XI, pp. 70 s.).
Quanto al significato politico e sociale da attribuire a tale relazione, il tema è del tutto sfuggente. Si può invocare la stretta contiguità di interessi politici, e forse l’appartenenza al medesimo gruppo parentale, tra i Teofilatti e Sergio III. Inoltre, gli indizi cui portano gli studi invitano a riflettere sulla struttura peculiare del clero palatino e della società aristocratica del IX-X secolo, presso cui il rapporto concubinario – e lo stesso matrimonio dei chierici – era avvertito in modo tutt’altro che negativo. Completamente diverso, come si sa, il giudizio di alcuni autori ecclesiastici non romani, tra cui Liutprando di Cremona, e degli autori provenienti dal mondo monastico.
Verso il 915 M. si unì con Alberico, marchese di Spoleto e di Camerino. Anche in questo caso un autore, il monaco Benedetto di S. Andrea del Soratte, accusa M., pur non facendone direttamente il nome, affermando che Alberico aveva preso una figlia di Teofilatto, intrattenendo con lei una relazione concubinaria («non quasi uxor sed in consuetudinem malignam», p. 153), dalla quale sarebbe nato Alberico di Roma, mentre Liutprando ricorda l’unione, senza pronunciarsi sulla sua liceità o meno («ex Alberico autem marchione, Albericum», p. 58). Appare più difficile considerare questa seconda unione come concubinaria, dal momento che essa portò alla coppia, evidentemente stabile, quattro o cinque figli: Alberico (nato in un palazzo sull’Aventino), Costantino, Sergio, che sarebbe diventato vescovo di Nepi, una figlia di nome Berta e forse un’altra figlia. Questo matrimonio sancì tramite l’unione di sangue l’alleanza che già da diversi anni si era conclusa tra Alberico di Spoleto e i Teofilatti, in una chiave di consolidamento del predominio nell’Italia centrale: il matrimonio fu contratto nel periodo di maggiore potere di Teofilatto, forse, come suggerisce Benedetto di S. Andrea del Soratte (seguito da Gregorovius), immediatamente dopo la battaglia del Garigliano, che lo aveva visto trionfare sui Saraceni nel 915. Il suo significato politico palese fu la sanzione del nuovo equilibrio cittadino e la spinta verso un buon rapporto con il Ducato di Spoleto, un desiderio esistente presso il gruppo dirigente romano già da alcuni decenni (Arnaldi, Alberico di Spoleto). In questa prima fase della sua vita, dunque, M. non sembra aver giocato un ruolo da protagonista, ma essendo comunque parte, nel suo ruolo femminile, della costruzione degli assetti politici.
In un breve volgere di anni (primi anni Venti del secolo X) morirono uno dietro l’altro Teofilatto, Teodora e Alberico di Spoleto. Il vuoto di potere che ne derivò permise al pontefice Giovanni X, salito al soglio pontificio nel 914 e che fino ad allora era stato fedele sostenitore della politica dei Teofilatti (tanto che Liutprando lo considera amante di Teodora), di intraprendere una politica autonoma e senza dubbio avversa a M. e alla parte dell’oligarchia urbana che M. si trovava ormai a rappresentare. Il pontefice intavolò una trattativa diretta con Ugo di Provenza, divenuto re d’Italia, concludendo a Mantova, verso la metà del 926, un accordo che portò, per quest’ultimo, alla promessa dell’incoronazione imperiale e per il primo un rafforzamento del potere personale, la restituzione della Sabina (nella quale i Teofilatti avevano cospicui interessi patrimoniali) alla Chiesa e infine la cessione del Ducato di Spoleto e della Marca di Camerino a suo fratello Pietro. M., e con lei il gruppo di optimates che la sostenevano, si trovava doppiamente danneggiata da questa mossa, che divideva l’ordo senatorius e che, di fatto, aveva escluso suo figlio Alberico dalla successione nella Marca e nel Ducato, già retti da Alberico di Spoleto. La soluzione adottata fu quella di contrarre, verso il 926-927, nozze con Guido, marchese di Toscana, il quale era intenzionato a ostacolare le mire egemoniche di Ugo, suo fratellastro, ed era senza dubbio interessato ad aprirsi la prospettiva del dominio su Roma. Ne scaturì una guerra tra fazioni, dovuta anche al fatto, riportato da Benedetto di S. Andrea del Soratte (Chronicon, p. 157), che il marchese Pietro, dopo avere edificato una solidissima rocca a Orte, avrebbe assoldato gli Ungari per razziare la regione romana e la Toscana. In un primo tempo, durante la primavera del 927, M. e Guido riuscirono a chiudere Pietro fuori Roma, spingendolo a difendersi a Orte e impedendo a Ugo di scendere a Roma per prendere la corona. Verso la fine dell’anno, sfruttando la temporanea assenza di re Ugo dall’Italia, M. e Guido attaccarono Pietro a Roma, dove nel frattempo era rientrato. Secondo il racconto di Liutprando, M. e Guido riuscirono a sorprendere Pietro, che si era rifugiato in Laterano insieme con pochi fedeli, a sopraffarlo con molti armati e a ucciderlo davanti agli occhi del fratello papa. Poco tempo dopo anche il pontefice fu imprigionato (giugno 928) e morì nel corso dell’anno successivo, forse, secondo le voci raccolte da Liutprando, strangolato.
A partire dalla vittoria su Giovanni X e su Pietro di Spoleto si inaugura il periodo del dominio esercitato direttamente da M., che assunse i titoli di senatrix Romanorum (attestato in diverse fonti) e di patricia (attestato in Flodoardo). Le notizie sulla sua azione di governo sono scarse, anche perché manca la documentazione privata e in genere quella cittadina. Durante gli anni 928-932 M. portò Giovanni X alla rinuncia al pontificato e fu in grado di imporre tre pontefici, dei quali due furono eletti mentre questi era ancora vivo: Leone VI (928), Stefano VII (929-931) e finalmente il proprio giovane figlio Giovanni, del quale guidò la politica. Dopo la morte di Guido di Toscana (929), da cui aveva avuto una figlia, una seconda Berta, ma nessun maschio, si impose nuovamente la necessità di trovare alleanze fuori Roma. Ugo di Provenza, infatti, aveva dato la Toscana in vicariato al suo fratellastro Adalberto, cosicché anche quella via, apertasi con il matrimonio con Guido, si era ormai chiusa. Risale forse ad allora (Fasoli, p. 121) il tentativo di intessere un’alleanza con Bisanzio: M. intavolò trattative con l’imperatore Romano Lecapeno per concludere un matrimonio tra una sua figlia (forse la prima Berta) e un principe della casa imperiale. Il negoziato, che avrebbe comportato in contropartita il riconoscimento da parte del papa di Teofilatto, figlio dell’imperatore, come patriarca di Costantinopoli, non ebbe sbocco a causa del precipitare degli eventi: quando, nel febbraio del 933, l’ambasceria bizantina giunse a Roma, M. aveva appena perduto il potere.
Il tracollo fu provocato da un gesto non ancora comprensibile che per sommi capi. Rimasta evidentemente senza una garanzia sufficiente di salvaguardia del proprio potere, M. offrì la propria mano a colui che, fino a poco prima, era stato il suo principale avversario: Ugo di Provenza. Questi, con la prospettiva della corona imperiale (che gli sarebbe stata imposta dal figliastro, papa Giovanni XI), accettò con facilità: attraverso la persona di M., egli avrebbe potuto governare a Roma, in Toscana e nel Regnum. Ma l’atteggiamento tenuto da M. risulta problematico: «L’ambizione di divenire regina e imperatrice può averla spinta ad un mutamento radicale di politica?» (Brezzi, p. 112). Già nel luglio del 931 Giovanni XI, evidentemente assecondando la madre, inviò il pallio a Ilduino arcivescovo di Milano: un chiaro gesto di avvicinamento al re Ugo (Piazzoni, Giovanni XI, p. 71). L’anno successivo, a luglio, Ugo giunse a Roma e vi celebrò il matrimonio con Marozia. Alcuni mesi dopo si giunse a una crisi risolutiva, poiché Alberico, figlio di M., valutando la mossa della madre come lesiva dei propri interessi, come in effetti era, riuscì a catalizzare intorno a sé l’opposizione dell’aristocrazia e della popolazione romana, che insorse contro il re e contro M., trincerati in Castel Sant’Angelo. Questi fatti, accaduti alla fine di dicembre del 932, sono narrati da Benedetto e da Liutprando e confermati da Flodoardo.
Secondo il monaco Benedetto (Chronicon, p. 166), Alberico si sarebbe deciso all’azione avendo saputo che il suo patrigno Ugo voleva accecarlo: per questo avrebbe stretto una congiura con i Romani e provocato l’insurrezione. Secondo Liutprando, invece, M. avrebbe invitato Alberico a dare l’acqua alle mani a Ugo: avendogli invece versato l’acqua addosso con gesto irriverente, Alberico sarebbe stato schiaffeggiato. Per questo, radunati i Romani, li avrebbe spinti all’azione facendo loro un discorso fortemente intriso di misoginia e di xenofobia, contro la madre e contro i Burgundiones, cioè i borgognoni al seguito di Ugo (Antapodosis, pp. 97 s.). Liutprando introduce anche con forza l’accusa di incesto, poiché Ugo di Provenza era fratellastro di Guido di Toscana e secondo i canoni M. non avrebbe mai potuto sposare il proprio cognato. Le due fonti, benché non coincidenti, convergono tuttavia sul punto essenziale: sul fatto cioè che la rivolta capeggiata da Alberico ebbe pieno successo. Forse (Fasoli, p. 123), la reazione di Alberico fu provocata dallo stesso Ugo, che intese provocare il figliastro al fine di creare il pretesto per toglierlo di mezzo; certamente, però, le motivazioni più profonde della rivolta «possono essere rintracciate nell’inconciliabilità chiara alla classe aristocratica romana fra la propria autonomia e la presenza del re all’interno della mura cittadine» (Beolchini, p. 35, nella tradizione degli studi di Brezzi e Arnaldi).
Mentre Liutprando ritiene che M. fuggì insieme con Ugo, sappiamo da Flodoardo (Historia Remensis Ecclesie, p. 416, e Annales, p. 381) che ella rimase a Roma: sia lei sia suo figlio Giovanni XI furono posti sotto buona guardia da Alberico, che divenne il nuovo signore di Roma.
Di M. non si hanno ulteriori notizie. È detta defunta in un documento del 945 (Il regesto…, n. 68), ma probabilmente era già morta nel 936, nell’anno in cui fu stipulata una tregua tra Alberico di Roma e il re Ugo attraverso il matrimonio tra lo stesso Alberico e Alda di Provenza, figlia del re (cioè, con buona pace di Liutprando, tra due fratelli acquisiti). Il giorno della morte dovrebbe essere stato il 28 giugno e il luogo della sepoltura il monastero dei Ss. Ciriaco e Nicola sulla via Lata (Necrologi e libri affini). Secondo Hamilton (pp. 206-213), Alberico avrebbe fondato S. Maria in Campo Marzio per ospitarvi la madre in età avanzata, «ma la ricostruzione appare forzata e non convince» (Beolchini, p. 46).
M. rappresenta una delle figure più controverse della storia romana e di quella ecclesiastica. Benedetto di S. Andrea del Soratte introduce gli anni del suo governo con la frase, di ascendenza biblica (Isaia, 3, 4), «Subiugatus est Romam potestative in manu femine, sicut in propheta legimus: ‟Feminini dominabuntur Hierusalem!”» (p. 161). Per lei (ma anche per sua madre Teodora e per altre grandi signore del tempo, come la regina Berta e sua figlia Ermengarda), Liutprando «non usa che due epiteti, nessuno dei quali può essere tradotto in buon italiano» (Fasoli, p. 108): scortum e meretrix, mentre lo stesso autore, nel discorso che fa pronunciare ad Alberico, introduce il concetto di meretricum imperium, che ha avuto grande fortuna nel giudizio successivo, consolidato dagli Annales ecclesiastici di Baronio (p. 650) e che, nella formula «pornocrazia», è ancora molto presente nella vulgata storiografica. Se Liutprando appare acceso da una vera misoginia sistematica, la sua avversione per M. supera quella per le altre donne, tanto che le dedica un’invettiva, nella quale la presenta come una Venere tremenda: probabilmente per contrappasso alla devozione che nutre per Ugo di Provenza, che egli ritiene fosse stato da lei circuito. La stessa potenza di M. e delle altre senatrices presenti sulla scena romana del X secolo (come Teodora, Teodora [II], Marozia [II], Stefania), è verosimilmente all’origine della leggenda, successiva però di alcuni secoli, della «papessa Giovanna». Tutto al contrario, una testimonianza di ambito romano che ci è pervenuta, l’elogio di Eugenio Vulgario, tesse le lodi di Teodora, rivolgendosi a lei come a «sanctissima et Deo amata venenerabilis matrona», e altre fonti romane del tempo presentano le senatrices come devote e generose verso gli enti ecclesiastici.
In realtà, il giudizio su M. deve necessariamente tenere conto dell’angolatura prospettica della fonte. Dal punto di vista politico, il ruolo di M. non è diverso rispetto a quello delle altre donne potenti che costituiscono una caratteristica del secolo X (dall’imperatrice Ageltrude a Berta di Toscana, a Ermengarda d’Ivrea, fino alle imperatrici Adelaide e Teofano) e, in genere, di molte altre donne documentate nel secolo X e nella prima metà del successivo, che godettero di un’autonomia impensabile in epoche successive: un aspetto della società medievale che attende ancora uno studio sistematico di Gender history il quale tenga conto del ruolo della donna e, forse ancor più, di quello della coppia. Proprio a proposito del ruolo delle donne nel secolo X, Cammarosano parla di «una struttura della politica legata ancora in maniera sostanziale alla antropologia elementare del sangue e del sesso, e per ciò stessa foriera di un ruolo centrale delle donne» (p. 253). Nello specifico caso romano, appare evidente che il potere, sia nella forma protomonarchica dei Teofilatti, che sarà matura con il principato di Alberico di Roma, sia nella forma più composita dei Crescenzi, passò molto spesso per via femminile. Alberico raccolse l’eredità materna (Roma) e non quella paterna (Spoleto e Camerino), cosicché Arnaldi ha suggerito, a ragione, di eliminare la dizione di «Alberico II», non essendovi stata successione dinastica dal padre (Alberico di Roma, p. 647). Un potere, quello di M. e delle altre senatrices sue parenti, che fu peraltro molto condizionato dalla cerchia politica e dalla necessità iterata di renderlo saldo (o, nei fatti, di indebolirlo) attraverso lo strumento del matrimonio, che aveva come effetto controproducente l’immissione continua di interessi esterni a quelli del gruppo dirigente cittadino. Quanto al giudizio morale, secondo G. Fasoli «Gli studiosi più aggiornati, senza giurare che Marozia fosse un esempio di cristiana modestia, sono convinti che la sua autorità dovesse posare su una base più solida della lussuria e del vizio. Marozia doveva avere molto ingegno, molta abilità e pochi scrupoli» (p. 108).
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